La Storia pare dar ragione al Duca

Duke Ellington tra musica jazz e classica contemporanea: Rattle, Grieg, la Civica, Paolombi, Bragalini, Morelli/Belfiore.
// di Guido Michelone //
Nell’anno 2000 ci furono diverse buone ragioni per le quali il cd Classic Ellington, uscito a firma Sir Smon Rattle (classe 1955) potesse essere destinato, senza mai scalare le hit parade del pop o del rock, al successo oltre un quarto di secolo dopo la morte del protagonista, il celeberrimo jazzman Edward Kennedy Ellington, detto ‘Duke’ nato a Washington il 29 aprile 1899 e deceduto a New York il 24 maggio 1974. Uscito con la Emi Classics Duke Ellington ed eseguito dalla City of Birmingham Symphony Orchestra(con molti jazzisti ospiti) Classic Ellington resta da allora a oggi effettivamente un longseller in una zona franca a cavallo di svariati generi: è un disco che accontenta, o meglio, riesce finalmente a mettere d’accordo i fan del jazz e gli amanti della musica classica, due categorie di cultori dell’oggetto disco (LP o CD) che fra loro di rado non hanno punti di contatto, salvo che non il nome di George Gershwin e della sua Rapsodia in blu che già allora quando viene scritta, nel 1924, vuole proprio essere un legame tra la musica colta e quella afroamericana.
E non è un caso che Simon Rattle, direttore inglese, già insignito dell’onorificenza di Sir per gli indubbi meriti artistici, fin da giovanissimo non si accontenti di dirigere i soliti repertori sinfonici, ma subito privilegi le sonorità contemporanee, in particolare quelle che più o meno direttamente si rapportano all’esperienza musicale statunitense in ambito popolare. Nel 2000 quindi Rattle si cimenta con il ‘Duca’, forse il massimo jazzman di tutti i tempi: compositore, pianista, big-band-leader e soprattutto artefice tanto di suite ad ampio respiro quanto di canzoni diventate subito evergreen. Come mostra Rattle in questo disco, l’Ellington che forse meglio può avvicinare il pubblico della classica al jazz non è quello impegnato in opere complesse, bensì il jazzista che con estrema scioltezza sforna brani in apparenza semplici, efficaci, divertenti, ma dietro ai quali esiste un costrutto straordinario, che a sua volta si regge sul profondo senso del ritmo, della melodia, dell’arrangiamento orchestrale, dell’intervento solistico, dello spleen neroamericano. Ed ecco sciorinare Take the A Train, Sophistacted Lady, Come Sunday, i pezzi ultrafamosi, arrangiati da Luther Henderson con grandi interventi solistici (Lena Horne, Clark Terry, Bobby Watson, Joshua Redman, Joe Lovano, eccetera). Poi, il fatto che nel 1960, il grande universalmente stimatissimo Ellington, ritenuto il più dotto e quindi ‘classico’ fra tutti i jazzmen Duke Ellington, pubblichi l’album Grieg Peer Gynt Suites Nos 1 & 2 (CBS) quasi a dimostrare che l’influenza del jazz sulla musica classica non si applica solo al Novecento o alle avanguardie; il long playing viene poi ristampato con il titolo Swinging Suites a opera di Edward E. e Edward G., dove chiaramente i due Edoardo sono lui (nome di battesimo) e il grande compositore norvegese. Nel disco si ascolta ovviamente la big band ellingtoniana riproporre la famosa partitura basata sulla storia di Peer Gynt di Grieg, riarrangiata jazzisticamente in due suite appunto swing per big band. Nello stesso anno il Duca applica la stessa metodologia a Lo schiaccianoci di Tchaikovsky. Il Peer Gynt ellingtoniano viene ben accolto dagli americani, ma non dagli scandinavi: addirittura la Royal Swedish Academy of Music rimprovera Ellington in una dichiarazione ufficiale, dove si sottolinea che la versione jazz di Grieg resta una ‘offesa alla cultura musicale nordica’.
Tuttavia la Storia pare dar ragione al Duca, il quale continuerà a lavorare con la classica: e anche post mortem a partire da Rattle è in atto queto tipo di rivalutazione che per esempio in Italia nel 1999 con il disco The Symphonic Ellington, Night Creature (Soul Note) la milanese Civica Jazz Band manifesta egregiamente. Quest’album infatti propone il concerto del Teatro Lirico quando, sotto la direzione del pianista Enrico Intra, la si unisce con l’Ensemble dell’Orchestra Sinfonica di Milano per rendere omaggio all’amato Duke, grazie a una bella riproposizione di tre sue opere sinfoniche (la title track, New World A-Comin’ e Three Black Kings); e il fatto che queste siano autentiche partiture rende felice l’esito anche ‘in mancanza’ dell’originale. Da allora a oggi le iniziative del genere si moltiplicano in ogni angolo del Pianeta, ma per restare in Italia, meritano la citazione due ghiotte proposte ad opera rispettivamente di un pianista classico e di uno storico del jazz.
Da un lato Luigi Palombi con Duke Ellington. Piano Works (Dynamic 2016) per una label di musica colta, presenta 17 brani del Duca – uno in realtà, Lotus Blossom, dalla penna di Billy Strayhorn – composti fra il 1913 e il 1973 espressamente per pianoforte e in seguito quasi tutti ampliati o riarrangiati: a suonarli dunque è un interprete dotto brianzolo dalle esperienze artistiche trasversali – musica da film con Piovani e Morricone oppure lavori cameristici e mozartiani – che si avvicina al repertorio filologicamente ma ‘senza sfociare – sono parole sue – in una copia carbone inutile e inerte, in un’incessante sfida tra un’ipotetica, fedele pagina scritta e l’estro e la fantasia dell’interprete’. Il disco riserva parecchie sorprese a cominciare dal giovanile Soda Fountain Rag ancora impostato sui ritmi veloci del ragtime joplinano. Già dagli anni Venti, però, il pianismo di Ellington si avvicina allo stride maggiormente connotato dall’enfasi orchestrale (Swampy River, Black Beauty, Bird Of Paradise) per inventarsi via via, durante gli anni di guerra uno stile mood originale, di cui l’ironica Dancers In Love resta un esempio scanzonato e magistralmente virtuoso, benché il capolavoro, in tal senso, persino in un’ottica avanguardista, rimanga Clothes Woman con il blues celato da grappoli di note, con bruschi salti di registro e di dinamica, con dissonanze quasi dodecafoniche, con improvvisi scarti temporali, con un leggiadro rag veloce e con la ripresa dell’enigmatico incipit. Nel tempo la vena di Ellington assume tratti impressionisti (Debussy e Ravel) ad esempio in Melancholia, The Single Petal Of A Rose, Reflections In D, The Lake e in particolare New World A Comin’, scritto nel 1943, ma ascoltato in piano solo durante i Sixties, autentica summa del pianismo ellingtoniano, che Palombi dispiega tra intrecci di accordi e arpeggi, larghi respiri, frasi ampie contrapposte a passaggi concisi, sino a esplorare registri estremi della tastiera medesima.
Dall’altro lato Luca Bragalini con il libro Dalla Scala a Harlem. I sogni sinfonici di Duke Ellington (EDT, 2018)narra una storia che una volta conosciuta può cambiare gli orizzonti d’ascolto. Il punto di partenza è un episodio in apparenza marginale nella carriera ellingtoniana: nel 1963 a Milano, con un gruppo di musicisti del Teatro alla Scala, il Duca registra un brano sinfonico intitolato La Scala. She Too Pretty to Be Blue. Le circostanze di questa incisione sono avvolte nel mistero, ma il solerte Bragalini ricostruisce i fatti, incontra i testimoni superstiti, getta luce sui motivi del disinteresse del mondo musicale italiano, riporta persino alla luce un set di fotografie inedite originali. Conducendo un profondo lavoro sia di scavo culturale sia di revisione critica dalla Lombardia fino al cuore di Harlem, centro di irradiazione dell’arte e della politica afroamericane, Luca analizza l’intera produzione sinfonica di Ellington, finora valutata con sufficienza o sospetto dai critici e dagli storici del jazz, finendo per rilevare la grossa portata culturale, intellettuale, antropologica e sociopolitica che il musicista quasi cripticamente affida a queste partiture. Mediante l’analisi di documenti inediti come i file secretati dell’FBI, creando originali collegamenti con letteratura, pittura e fotografia dell’epoca, seguendo brillanti intuizioni storiche – fra cui la scoperta sensazionale di una settima opera sinfonica di Ellington presentata nel CD allegato al volume con l’italiana Duke Ellington Big Band – e soprattutto mediante una puntuale disamina musicologica, Bragalini scopre un inedito ritratto di Ellington, ossia un artista consapevole e impegnato, in fuga da etichettature o classificazioni, bensì vicino al cuore di Harlem, “il centro nervoso dell’America nera che avanza”.
Un’ulteriore riprova che persino gli interpreti di classica contemporanea s’interessino a Ellington ancora, sempre in Italia, dal discoDiffrazione Erik Satie Duke Ellington di Andrea Morelli e Silvia Belfiore: sulla carta la proposta è ardimentosa: mescolare il repertorio di un compositore passato dall’Impressionismo al Dada, proprio quando muove i primi passi il Duca. Ma il duo Morelli ai sax (e al flauto) e Belfiore al piano mettono a disposizione le loro rispettive esperienze free e dotto in un unicum originale e convincente: insomma, il duo è affiatato e l’equilibro avvertibile sia nel repertorio di Satie (1890-1913) sia in quello ellingtoniano (1928-1967) intelligentemente alternati, con 14 scelte famose ma non convenzionali. Sorge però la domanda sul che cosa unisca due musicisti così ‘lontani’ fra loro, ma qui per la prima volta ‘accostati’ per essere suonati in un’inedita formazione. Nell’obiettiva distanza storica – l’americano inizia laddove cronologicamente termina il francese – si può dire che entrambi rappresentino, nei rispettivi ambiti la ricerca una genuina originalità nella dialettica passato/futuro, vivendo il presente come desiderio di erigenda modernità: Satie aderisce persino alle avanguardie parigine, mentre Ellington ‘inventa’ l’orchestra swing quale péndant dell’art déco statunitense. Non è un caso che si evochi un aggancio con le parallele discipline figurative delle avanguardie storiche, perché in entrambi i musicisti sono i colori delle note a predominare in una perfetta consonanza di suoni e tinteggiature. E la scelta esecutiva di Morelli e Belfiore va proprio in tale direzione, accentuando i rossi-gialli-azzurri-turchesi delle splendide partiture, con impeto swingante Alberto, con sobria maestria Silvia.
