Arche Shepp «Blasè» , dove la raucedine dello strumento diventa una forma di arte sublime (BYG Actuel /AFFINITY, 1969)

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ArchieBalse

Il suono di quel sax rauco, libero e stridulo, rivoluzionario coincise con lo spirito del tempo, come prefigurasse in musica, la rivoluzione imminente.

// di Marcello Marinelli //

Archie Shepp riveste per me un’importanza particolare, un suo concerto dal vivo, il mio primo concerto jazz, in duo con Max Roach ai giardini del Pincio a Roma, credo fosse il 1976, fu un ciclone emotivo. Fu l’imprinting per la mia conversione ‘anema e core’ all’estetica jazzistica, la mia ‘illuminazione’, la mia ‘buddità’ musicale, il risveglio, la folgorazione. Il suono di quel sax rauco, libero e stridulo, rivoluzionario coincise con lo spirito del tempo, come prefigurasse in musica, la rivoluzione imminente. La rivoluzione non accadde e il mondo non riuscimmo a cambiare perché, come disse Guzzanti tempo dopo, perdemmo lo scontrino, ma l’amore per la musica jazz e in particolare per tutte le altre forme di musica afroamericana da allora dura ancora con immutato interesse. Quel duo fece, un paio di dischi dal carattere prettamente politico come è evidenziato dalle copertine di quei due album «Force- Sweet Mao-Suid Africa» del 1976 con un pugno nero che sbuca dall’acqua con Mao sullo sfondo che nuota e «The Long March» con la Grande Muraglia in evidenza sempre in riferimento al ‘grande timoniere’ Mao del 1979, della serie: Mao come musa ispiratrice. Questi due dischi, nonostante ‘l’illuminazione’, con la loro forte carica simbolica politica, non sono tra i lavori di questi due grandi musicisti, i miei favoriti, ma tant’è, il dado era stato tratto dal concerto dal vivo.

Un po’ di anni prima Archie Shepp incise questo disco «Blasè» a Parigi, era precisamente il 1969. Il disco inizia con «My Angel» con l’attacco deciso all’armonica a bocca di Chicago Beau e Julio Finn due blues man di Chicago ed è subito blackness all’ennesima potenza. Siamo, musicalmente parlando, in una remota località del profondo sud degli Stati Uniti. Si aggiunge discretamente il sax del leader che fa da contrappunto alle due armoniche. Poi quasi simultaneamente si aggiungono le altre voci, il suono del contrabbasso di Malachi Favors, la batteria di Philly Jo Jones, il piano del fido compagno di tante avventure Dave Burrell e la voce suadente di Jeanne Lee. Il ritmo è ostinato ipnotico, è musica collettiva, tutti insieme appassionatamente sul ritmo black, il blues come substrato. Il tappeto sonoro del trio ritmico con Dave Burrell che ripete ossessivamente lo stesso riff di accordi, con le armoniche che impazzano e la voce di Jeanne Lee che improvvisa insieme a quella del leader. Non c’è che dire l’essenza della musica afroamericana in tutte le sue componenti.

«Blasè» è il secondo brano della facciata A. Inizia con il trio ritmico che ripete l’ambientazione sonora del primo brano con delle varianti di ritmo. Dave Burrell ripete i due accordi al piano senza soluzione di continuità supportato dal basso di Malachi Favors e dal drumming fantasioso di Philly Joe Jones che ricamano i due accordi del pianista. L’entrata di Archie Shepp è da incanto, un richiamo agli antenati, al popolo del blues. L’assolo al sax tenore è da brividi e la raucedine dello strumento una forma di arte sublime. A metà brano si aggiunge la bellissima voce di Jeanne Lee, una sorta di spoken word che si incunea perfettamente tra le trame sonore del gruppo col sassofonista che l’accompagna del suo incedere parlato/cantato. Verso la fine ricompaiono le due armoniche che ululano alla luna e accompagno le vicende sonore del resto del gruppo. Il ritmo è lento, esageratamente slow ma la tensione che sprigiona questa lentezza è intensa. Che dire, un grande lato A.

Ora vado alla scoperta del lato B, ma non quello di Jeanne Lee, quello del disco. Nel primo brano del già menzionato lato B, «There Is A Balm In Gilead» si aggiunge alla tromba Lester Bowie. Il pezzo inizia con la tromba in solitaria a cui si aggiunge il sax del leader. Sembra un’invocazione agli dei. Dopo l’introduzione tromba/sax, Jeanne Lee con la sua maestria vocale da colore e delicatezza a questo brano, suonano tutti in punta di piedi, se si può suonare in punta di piedi. Gli accordi di Dave Burell e il pizzicato di Malachi Favors danno il giusto accompagnamento al passo della Bibbia di Isaia 22:VIII. Il pezzo si conclude come era iniziato, solo tromba e sax che finiscono in dolcezza questa meravigliosa ballad, a Lester Bowie l’onore di concludere come aveva iniziato. «Sophisticated lady» l’omaggio a Duke Ellington con la voce della signora sofisticata di Jeanne Lee che canta divinamente, una versione classica senza increspature free evidenti, nel rispetto della tradizione e delle versioni canoniche dell’originale. L’album si conclude con «Tuareg» e qui compare il sound tipicamente free del leader, il pezzo è veloce e quello che i componenti del gruppo in qualche maniera avevano occultato nel resto del disco esce allo scoperto con tutto il suo fragore. Il componimento in questione è eseguito in trio senza il supporto di Dave Burrell al piano. Gli ululati del sax di Archie Shepp mi riportano a quella notte del 1976 ai giardini del Pincio da dove tutto era cominciato, almeno per me. Dopo tanti anni da allora il mio ringraziamento a uno dei musicisti più grandi ancora vivente, 87 primavere. Provaci ancora Archie!

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