Marshall Mc Luhan definì la radio, «il Tamburo Tribale», ma la creatura di Marconi è ancora un veicolo valido per la diffusione della musica?

La storia della musica giovanile è, comunque, indissolubilmente legata alla radio. L’avvento del rock nella metà degli anni ’50, fu accompagnato da importanti cambiamenti nello stile dei programmi e da un inedito rapporto fra i DJs e la musica. Per via del suo ritmo incessante, il rock costrinse il medium radiofonico ad accelerare il modulo espressivo, mentre i DJs, che diventarono sempre più popolari, furono gli unici capaci di mantenere un’eccitazione verbale ed una comunicativa spigliata pari all’andatura di quel ritmo rotolante e dondolante.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Marshall Mc Luhan, che non era un musicista o un produttore discografico, ma il padre della moderna massmediologia, colui che per primo coniò il termine «villaggio Globale», nella classica suddivisione tra media freddi e media caldi, includeva la radio in quest’ultima categoria. Senza scadere, nella sociologia spicciola, va precisato che per media freddi s’intendono tutti quei mezzi di comunicazione di massa, e la televisione è uno di questi, già rifiniti e completi, dove si lascia poco spazio alla fantasia e all’immaginario del fruitore; diversamente, da quelli caldi, dove il meccanismo di completamento e d’interazione, tra il comunicante ed il ricevente, risulta fondamentale. Per questo e per altri motivi che tra la radio e la musica, altro mezzo caldo, il sodalizio fu inevitabile, in particolare tra radio, dischi e DJs. La radio utilizzò subito la musica per intervallare il flusso di parole e per creare intrattenimento; dal canto suo, industria musicale sfruttò immediatamente le potenzialità di penetrazione del mezzo radiofonico e la sua capillare diffusione, al fine di promuovere artisti, concerti, orchestre ed eventi a vario titolo.
Mc Luhan diede una delle definizioni più belle del mezzo radiofonico, ossia «il tamburo tribale», quasi che la radio avesse il potere e la forza di chiamare a raccolta l’intera tribù del «villaggio globale» intorno al sacro fuoco della musica. Scriveva Mc Luhan, negli anni ’60, ma la sostanza è sempre la medesima: «L’unione della radio col fonografo, che costituisce il programma radiofonico medio, crea uno schema assai più potente di quella combinazione tra radio, giornale e telegrafo che ci fornisce i notiziari e i bollettini meteorologici. È curioso constatare come alla radio o alla TV questi ultimi siano assai più seguiti delle notizie. Non è forse perché il «clima» è ora interamente una forma d’informazione elettronica mentre le notizie conservano in gran parte gli schemi della parola parlata?». Fatta , dunque, eccezione per le previsioni del tempo, la musica, ossia l’unione tra radio e fonografo (chiamiamolo giradischi, CD player, lettore MP3) era ed avrebbe dovuto rimanere l’asse portante della programmazione radiofonica moderna. Quando il Professor Mc Luhan distillava i propri pensieri non esisteva il Web e la TV, che egli definiva «il gigante timido», era ancora lungi dal diventare «un nano cretino» o una «postribolo di idiozie ».
La storia della musica giovanile è, comunque, indissolubilmente legata alla radio. L’avvento del rock nella metà degli anni ’50, fu accompagnato da importanti cambiamenti nello stile dei programmi e da un inedito rapporto fra i DJs e la musica. Per via del suo ritmo incessante, il rock costrinse il medium radiofonico ad accelerare il modulo espressivo, mentre i DJs, che diventarono sempre più popolari, furono gli unici capaci di mantenere un’eccitazione verbale ed una comunicativa spigliata pari all’andatura di quel ritmo rotolante e dondolante. Pubblicità, informazioni di pubblica utilità, notiziari, bollettini meteorologici cominciarono ad essere annunciati seguendo il metodo febbrile che caratterizzava il mood del rock, mentre i programmi – spesso un’intera stazione radiofonica – divennero un’esperienza di eccitamento collettivo. Il rock’n’roll era strettamente legato al mezzo radiofonico, perché il sound proposto si orientava, in genere, più verso i microsolchi, che non le esibizioni dal vivo. La maggior parte degli artisti rock ebbero modo di assurgere agli onori della cronaca solo attraverso la radio, esercitando un forte coinvolgimento emotivo e fisico, quasi viscera ed estatico sul pubblico dei teen-agers. Al contrario, molti di essi perdevano l’impatto estetico ed energetico, quando si esibivano in contesti live, nei quali non potevano riproporre gli effetti tecnici dello studio di registrazione, tanto da dover competere con l’immagine mentale che i loro stessi dischi avevano creato nel pubblico durante l’ascolto radiofonico. Naturalmente non tutti i rockers erano afflitti e condizionati da questo limite: Chuck Berry, Fats Domino, Little Richard ed Elvis Presley, ad esempio, possedevano uno stile spettacolare, che compensava la differenza fra dischi e concerti, aggiungendo a questi ultimi una propria componente teatrale o fisicamente attrattiva. Tuttavia, in genere, le sonorità prodotte negli studi d’incisione non erano mantenute e riprodotte dagli artisti nelle sale da concerto. È interessante ricordare che il tumulto spontaneo, che prevaleva durante la maggior parte dei concerti rock, caratterizzati da un intreccio di voci, rumori, urla, fischi ed applausi, aiutava a compensare la perdita di qualità del suono, al punto che l’effetto totalizzante e complessivo di un’esibizione dal vivo diventò più rilevante del sound originale contenuto in un disco di successo.
Per quanto il rock non fosse l’unico genere ibrido di musica popolare a servirsi della radio e dei dischi, fu il primo ad essere veicolato attraverso i supporti fono-meccanici. Era accaduto anche con il Jazz, ma trattandosi di album strumentali, venivano trattati con minore enfasi, inoltre molte radio preferivano collegarsi in diretta con i locali dove i jazzisti si esibivano dal vivo o proporre in differita interi concerti ripresi nei vari club della città più vicina. In effetti, prima dell’avvento del rock, i dischi commerciali e i programmi radiofonici si ispiravano a situazioni dal vivo: spettacoli di Broadway, esecuzioni in locali notturni ed altre apparizioni personali di un gruppo o di un solista in uscite pubbliche a vario titolo. La radio cercava di riprodurre e spettacolarizzare tali situazioni; DJs pop come Al Jarvis e Martin Block descrivevano sale da ballo immaginarie creando l’atmosfera di una grande dance hall, dove le canzoni erano ascoltate come se un particolare musicista si stesse esibendo di persona invece che per mezzo dei dischi. Con il rock invece i microsolchi divennero il legame primario fra artisti e ascoltatori, mentre gli show radiofonici rappresentarono la situazione principale e generalizzata, per mezzo della quale il pubblico entrava in contatto – oggi diremmo, si connetteva – con la musica. Il DJs giocò un ruolo strumentale, intrattenitivo e sociale, se non altro educativo, in un’esperienza collettiva, che nell’epoca dello streaming diffuso, verrebbe definita realtà virtuale: siccome partecipava spontaneamente all’evento, piuttosto che strutturarlo o separarsene per assumere il ruolo di un distaccato «maestro di cerimonie», egli incoraggiò gli ascoltatori a reagire in modo altrettanto spontaneo e personale; specie quando il disc-jockey radiofonico batteva il tempo su uno dei pezzi preferiti o ci cantava sopra, ma soprattutto quando col fiato sospeso leggeva le notizie di cronaca, di attualità e di sport o dava le previsioni del tempo, conferiva al programma un’andatura che, agli ascoltatori abituati al vecchio stile soft, sembrava che ogni cosa si mescolasse indiscriminatamente. Tale format ed il modus agendi del DJ di turno produceva un’atmosfera meramente rock. Nel denso tessuto di suoni che caratterizzava quel determinato spazio radiofonico, i dischi assumevano l’impronta di esibizioni e il programma mostrava quasi l’immediatezza di una evento pop dal vivo.
Con la diffusione capillare del rock, il media radiofonico ed il supporto discografico assunsero una vita propria, mentre taluni spettacoli televisivi come Hit Parade andavano morendo. Dal punto di vista stilistico, Snooky Lanson e la tutto il cast di Hit Parade, avevano perso il treno non intercettando il potere della nuova musica giovanile, con cui non entrarono mai in sintonia, soprattutto non ne compresero la forte capacità di identificazione da parte dalle fasce giovanili della popolazione, che già in quel momento di di boom americano, condizionavano non poco i consumi voluttuari. I fautori di certi programmi TV stentarono a capire che il rock era essenzialmente un fenomeno che coinvolgeva i giovani, e non solo, a livello di esperienza fisica ed aurale, travalicando una tranquilla e rilassata visione casalinga. Il rock veniva principalmente veicolato attraverso i dischi e la radio, così l’impatto provocato da questi vettori, difficilmente poteva essere ricreato dai personaggi in uno studio televisivo, ospiti di programmi come Hit Parade o durante esibizioni dal vivo. Per comprendere taluni meccanismi è fondamentale sapere che, all’epoca, quando gli artisti rock presentavano le loro canzoni in televisione, lo facevano in playback. Come accadeva nel corso di American Bandstand, essi in genere muovevano solo le labbra, seguendo la canzone mentre veniva diffusa la registrazione di un disco su nastro. Tali circostanze si verificarono soltanto dopo l’avvento del rock’n’roll, al punto che, per paradosso, certa stampa scrisse che «personaggi vivi imitavano i dischi». Ad esempio, l’Ed Sullivan Show non consentiva partecipazioni in playback, poiché «l’esibizione mimata» veniva considerata da molti spettatori come «disturbante e disonesta», poichè permetteva ad un cantante o ad un gruppo di «recitare» come se si stesse esibendo realmente, mentre in realtà fingeva.

Negli anni ’50 il concetto di «disonestà» venne spesso utilizzato a sostegno della tesi che il rock fosse una musica di scarsa qualità, dal momento che numerosi artisti non erano capaci neanche di cantare dal vivo. Le incomprensioni sull’espressività del rock in rapporto ai differenti media continuarono negli anni ’60, accentuate dal fatto che formazioni in voga tra i giovani, in particolare certi gruppi di San Francisco come i Jefferson Airplane e i Grateful Dead, avevano sviluppato la loro musica e si erano affermati attraverso esibizioni concertistiche, anziché rivolgersi in primo luogo alla radio o ai dischi. Di conseguenza, i loro dischi spesso non raggiungono l’impatto estetico e l’immediatezza delle loro esibizioni live. Nella sinergia che si era stabilita fra il rock e la radio, il disc-jockey occupò una posizione cruciale, divenendo non soltanto un personaggio di primo piano, poiché già da anni i DJs godevano di grande nomea, ma una sorta di artista pop (nel senso di popolare) legato in modo sempre più inscindibile alla musica, allo stile del suo programma radiofonico e all’impatto che ambedue esercitavano sugli ascoltatori. Un problema assai sentito fu in che misura il DJ fosse in grado di influenzare i gusti di quel pubblico. Durante i primi anni dello sviluppo del rock, quando il fenomeno era visto con scetticismo, spesso associato alla delinquenza giovanile, l’atteggiamento del DJs era spesso citato e chiamato in causa come la ragione principale della crescente popolarità del rock, anche in senso negativo. Al tempo delle inchieste per corruzione, nel 1959 e nel 1960, i DJs divennero il principale bersaglio degli inquirenti, poiché sospettati di passare dischi rock, sotto le pressioni finanziarie delle case discografiche. Il disc-jockey era considerato come il punto focale di una situazione illegale che aveva provocato il lancio precostituito del rock, influenzando in questo senso i gusti del pubblico. Ovviamente l’attitudine alle bustarelle non sarebbe bastata se il rock non avesse dimostrato di essere una musica valida e duratura nel tempo.
Senza dubbio l’eccitazione di un disc-jockey rock poteva favorire il lancio di un disco nuovo, ma non poteva garantirne le vendite. Un altro elemento non secondario fu che i DJs si combattevano fra di loro con lo stesso entusiasmo col quale la sostenevano la loro musica. Le radio divennero sempre più rivali fra loro; singoli DJ ed intere stazioni s’impegnarono in una lotta spietata per accaparrarsi ampie fette di audience. Questa rivalità, in genere, si concentrava sul rock e sulla decisione di una o un’altra stazione di trasmetterlo o di non trasmetterlo. L’idea di non passare artisti rock era normalmente accompagnata da teatrali iniziative di piazza: i dischi venivano distrutti in pubblico, come streghe mandate al rogo, mentre i DJs s’impegnavano a programmare solo «altra musica». Il rock continuò, però, ad espandersi e i DJs seguitarono a condizionare indisturbati i gusti del pubblico L’immagine del disc-jockey rock è essenzialmente legata alla figura di Alan Freed, il quale si era autoproclamato «Padre del Rock and Roll» – titolo di merito generalmente accettato – al punto da usufruire per più di dieci anni di uno stretto e privilegiato sodalizio con la discografia in qualità DJ, artista, autore di canzoni ed organizzatore di spettacoli. Le diverse attività di Freed furono contestuali alla febbrile espansione del rock nei primi anni ’50, mentre toccarono il culmine alla fine del decennio, disintegrandosi rapidamente in quell’arco di tempo intercorso fra i processi a suo carico per corruzione e la morte avvenuta nel 1965, a soli 43 anni.
Freed divenne famoso come disc-jockey a New York, dove lavorò per la WINS, quindi con la WABC. Prima del 1954, anno in cui entrò nella WINS, aveva collaborato con la WSW di Cleveland ed ancor prima con la WARK di Akron, metre la sua carriera era partita con la WKST di New-castle, Pennsylvania, dove programmava solo musica classica. Nel 1951, Freed fu il primo ad usare il termine Rock and Roll, ma la notorietà nazionale, come personaggio, arrivo alle masse in seguito al suo trasferimento a New York City, e dopo l’ingaggio da parte dalle locali stazioni pop generaliste ed a larga diffusione. Durante gli anni ’50, il DJ corroborò il sodalizio col il mondo del rock a 360° attraverso l’organizzazione su vasta scala di concerti che, in genere, attiravano folle di giovani dagli abiti sgargianti, imbrillantinati, con il ciuffo a banana e i basettoni. Nei concerti itineranti di Akron, Cleveland, New York e in ogni dove, lungo le strade dell’Est e dell’Ovest, nel suo roster c’erano immancabilmente gli artisti più rinomati del periodo. Dal 1956, Freed iniziò ad essre riconosciuto come autore o coautore di almeno quindici canzoni famose a livello nazionale. Nello stesso anno allestì una propria orchestra, firmando un contratto con la Goral per realizzare una serie di album rock adatti alle feste da ballo degli adolescenti; comparve perfino nel film «Rock Around The Clock» insieme a Bill Haley, Little Richard e Chuck Berry. Per tutta la seconda metà degli anni ’50, il nome di questo DJ-imprenditore compariva regolarmente sia nelle notizie legate al business musicale che negli articoli di costume della stampa a larga diffusione. Pur tuttavia, tale fama non sopravvisse alla notorietà pubblica generata dalle sue attività, ma declinò rapidamente sotto i colpi delle inchieste sulla corruzione degli anni 1959-1960, a cui si aggiunse un’imputazione per evasione fiscale che gli piovve addosso nello stesso periodo. La deplorevole conclusione della carriera di Alan Freed non deve però oscurare il suo contributo alla nascita del rock: come autore fu responsabile di alcuni classici del genere; in qualità di organizzatore di concerti, più di ogni altro, fece sì che il rock diventasse un fenomeno riconosciuto a livello nazionale e mondiale, mentre in veste di disc-jockey cavalcò con vigore la vitalità di quella musica, ispirando un inedito stile di programmazione radiofonica. In Italia la figura del DJ fece la sua prima apparizione nell’ambito dell’ente radiofonico di stato. La RAI operava in un regime di assoluto monopolio e le trasmissioni dedicate al Rock e musica giovanile erano davvero rare e centellinate, quando i dischi non dovevano passare attraverso le maglie di una ferrea censura. Emblematico il caso di «Dio è morto», canzone dei Nomadi scritta da Francesco Guccini, programmata dalla Radio Vaticana, ma censurata in RAI, i cui i maggiorenti non avevano afferrato neppure il significato reale del testo. Negli anni Sessanta, i primi ad agire come veri DJs, sul modello americano, furono Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, che imposero qualche successo discografico, ma la loro conduzione era basata molto su aspetti goliardici e caricaturali. L’ente statale si allineò al modulo delle radio private, solo negli anni Ottanta, con l’istituzione di Stereo Rai.
Con l’avvento della fenomeno disco music si verificarono altri mutamenti assai interessanti. La disco era in origine una forma di musica underground che veniva passata nei club e nelle discoteche. Per via della sua caratteristica essenziale, ossia essendo una musica destinata al ballo, inizialmente non soddisfaceva quella parte del pubblico dedita principalmente all’ascolto, dunque non la si riteneva adatta ad essere trasmessa per radio. Ciononostante, man mano che il fenomeno cresceva in popolarità, cominciò ad essere programmata via etere, addirittura, alcune emittenti locali iniziarono a convertirsi totalmente al «verbo» della disco music. Forse, gli esempi più eclatanti furono la WKTU di New York ed il servizio in lingua inglese dell’europea Radio Lussemburgo. Radio Lussemburgo integrò il genere disco, proponendo una combinazione di musica pop e dance. Molte stazioni radio americane iniziarono a trasmettere soltanto disco-music. Le emittenti nazionali del Regno Unito, come BBC Radio One, e le stazioni locali indipendenti passavano la disco-music ma solo come una parte della loro programmazione generale. La proporzione era determinata in media dai successi e dalle classifiche di vendita dei dischi. In Italia, le emittenti libere nate sull’onda della disco-music, durante i loro primi anni di vita diedero, copiosamente spazio alla musica da discoteca fino a quando la produzione discografica non diminuì notevolmente per lasciare il posto ad uno stile maggiormente indirizzato verso il pop ed il funk. In quegli anni di ingenua italica euforia, Eugenio Finardi cantava: «Amo la radio perché arriva dalla gente. Entra nelle case e ci parla direttamente. E se una radio è libera, ma libera veramente, mi piace anche di più, perché libera la mente». In Italia l’unico vero legame di stretta connessione tra radio e DJ, fu rappresentato, negli anni Ottanta, da Radio Dee Jay e dall’allora proprietario, nonché deus ex-machina, Claudio Cecchetto, DJ-imprenditore di fama che riuscì ad imporre le sue produzioni discografiche, condizionando gli ascoltatori, le discoteche e perfino molte radio concorrenti nella scelta, nella programmazione dei dischi e nel modello di conduzione. Contemporaneamente, era rinato, con insospettato vigore il rock, balzando prepotentemente alla ribalta sotto la spinta propulsiva del punk e della new-wave.

Non si dimentichi, infine, il favore che durante un lungo periodo godette anche il reggae. Dopo la morte del più massimo esponente della musica giamaicana, Bob Marley, scomparso nei primi giorni del maggio 1981, un vasto pubblico riscoprì, grazie alle radio locali, tali sonorità conferendo al reggae una discreta popolarità pure in Italia. Bob Marley si trascino dietro altri figure di primo piano come Peter Tosh (suo ex-collaboratore) e Jimmy Cliff. Perfino un personaggio finto-reggae (da lcuni spacciato per giamaicano) come Eddy Grant, trovo calda accoglienza nell’etere italiano di quegli anni. Va detto che in Italia, specie nei primi anni di radiofonia libera-privata, esisteva una dicotomia tra le radio impegnate e politicizzate che impostavano la programmazione essenzialmente sui cantautori italiani, i folk singers americani ed inglesi ed i gruppi rock tradizionale e le radio commerciali che si nutrivano sostanzialmente di disco-dance, cantautorato da classifica e canzonette pop. In ogni caso, anche nella lontana provincia italica esistevano DJs capaci di proporre ottime selezioni musicali, in grado di attirare e condizionare il pubblico locale. La chiusura ti tante realtà provinciali, a partire dalla metà degli anni Novanta, spianò il terreno ai cosiddetti Net Work nazionali, i quali hanno finito per appiattirsi su una programmazione musicale meccanizzata ed omologata., basandosi sull’assioma del «grande successo a tutti i costi». Una metodologia fallace ed, oltremodo, fittizia, poich non esiste un bilancino di precisione per stabilire quali e quanti dischi considerare successi assoluti, se non perdere l’identità di talent-scout ed appiattirsi sulle classifiche di vendita e di gradimento stilate da terzi ad usum delphini. Per la prima vota la radio diventava subalterna, rinunciando al ruolo di scoprire e lanciare dischi, divenendo così una propaggine al servizio delle majors discografiche. Soprattutto, si sono invertiti i ruoli, ribaltando il principio assoluto della comunicazione, sancito da Marshall Mc Luhan, secondo cui «il mezzo è il messaggio», mentre gli ascoltatori hanno cominciato ad imporre le loro scelte alla radio, la quale ha finito per prostrarsi supinamente, schiacciata da esigenze di mercato e di sopravvivenza commerciale.
A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 fu lo stretto legame tra radio, musica, DJs e discoteche ad innescare una nuova polemica: in termini generali era opinione comune tra coloro che controllavano i programmi, che ottimi DJs da discoteca non fossero necessariamente dei validi presentatori, sostenendo, naturalmente, anche il ragionamento inverso, ossia che i conduttori radiofonici quando si trovavano davanti al pubblico, non erano sempre in grado di sostenere e reggere talune situazioni. Vi erano però le classiche eccezioni. Secondo l’opinione di Johnny Beerling, produttore esecutivo della BBC Radio One, l’esperienza in discoteca non risultava affatto utile alla radio: «Questo tipo di lavoro non vi serve se volete far carriera nelle trasmissioni. C’è una differenza enorme tra il lavoro davanti ad un pubblico di qualche centinaio di persone, e lo starsene chiusi in un piccolo studio e parlare a diversi milioni di persone con un tecnico per pubblico». A tratteggiare magnificamente la situazione, le parole di Mc Luhan: «Questa tendenza naturale della radio, che ha uno stretto legame con i diversi gruppi della comunità, si manifesta soprattutto nel culto del disc-jockey e nell’uso del telefono (oggi, leggasi SMS e WatsApp) come forma nobilitata dell’antica intercettazione». Platone, che aveva idee tribali sulla struttura politica, diceva che le giuste dimensioni di una città dovevano essere determinate dal numero di coloro che erano in grado di udire la voce di un oratore pubblico. Eppure la radio, per la disinvoltura con la quale stabilisce rapporti personali e decentrati con singoli individui e piccole comunità, potrebbe realizzare facilmente su scala mondiale quello che era il sogno politico di Platone.
Purtroppo i sogni non si realizzano quasi mai e la radio ha subito, nel corso dei decenni una serie di cambiamenti ed evoluzioni, legati alla tecnologia ed ai gusti del pubblico in fatto di musica e dischi. Soprattutto dalle radio italiane, sono spariti quasi tutti i veri DJs, conoscitori di musica ed abili a selezionare i vari generi, per essere sostituiti da selecters virtuali: in genere si tratta un software deputato a fare le scalette, le cosiddette play-list, opportunamente programmato attraverso parametri gradevolezza, umore, stagionalità e ritmo. Il computer per quanto infallibile rimane pur sempre una macchina fredda e senz’anima. Per compenso, al posto dei DJ-conduttori, hanno cominciato a far capolino fra i palinsesti delle radio, una miriade di pseudo-intrattenitori adusi al gusto della banalità ed abili codificatori del luogo comune, alcuni con l’inclinazione al cabarettismo di bassa lega: purtroppo, di Fiorello, ce n’è uno solo. In quanto alla musica, sempre più asservita ad alcune logiche di mercato e di impellenti priorità imposte dall’industria dei talent-show, ha finito per diventare una sorta di piacevole e rassicurante intermezzo tra un modesto e logorroico siparietto comico e l’altro o per fare da collante ai vari cluster pubblicitari… et sic transeat gloria mundi!
