Stefano Galvani, il fotografo autore di «Jazz. Una storia in Bianco e Nero», si confessa

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Galvani

/ di Guido Michelone //

Sembra ‘citare’ un po’ la copertina del mitico volumone di Arrigo Polillo: anche lì campeggiava la parola ‘Jazz’ e un primo piano di Elvin Jones alla batteria. Ma il contenuto è assai diverso: non una storia ma una galleria di personaggi o meglio di protagonisti negli ultimi quarant’anni di vita jazzistica in Italia (e in parte in Europa) a festival e concerto organizzati per offrire via via il jazz statunitense, europeo, italiano. Stefano Galvani in «Jazz. Una storia in Bianco e Nero»per l’editore Bonomi (prefazione del saxman Claudio Fasoli e intervista finale del critico Luigi Onori) ritrae, da Freddie Hubbard a Francesco Bearzatti, decine e decine di solisti e acompagnatori, spesso in primo piano, talvolta immortalati due o tre volte a distanza di anni.

D In tre parole chi è Stefano Galvani?

R Un fotografo appassionato di Jazz.

D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?

R Una band di jazz-trad che si esibiva nella piazza principale della mia città Pavia. Fu un’esperienza molto piacevole e divertente. Penso che fossero i primissimi anni Settanta.

D E i tuoi primi ricordi del jazz in assoluto?

R Oltre a quell’episodio, di cui ti dicevo, legato all’infanzia, il ricordo è legato ad un disco di John Coltrane (Stardust Sessions) che mi fu regalato da mio padre. Ero ancora un adolescente ed ero rimasto affascinato dal sassofono. Incominciai a studiare il sax tenore. Per questo motivo mio padre mi fece quel regalo. Ricordo ancora la raffinatezza di quel sound. Una meraviglia…

D Come definiresti la tua attività? Critico, fotografico o tutto insieme o altro ancora?

R Mi occupo principalmente di fotografia documentando l’attività di molti Jazzisti, in particolare attualmente di quelli che vengono a suonare al Soho Cafè di Milano. Di questo locale curo la programmazione artistica. Ospitiamo principalmente musicisti dell’area milanese ma non solo. Questo febbraio ad esempio è venuto a suonare da noi Trevor Watts. In passato ho anche scritto degli articoli per «Guitar Club», «Drum Club» e per la rivista francese «Jazz Hot».

D Possiamo parlare di te come di uno dei protagonisti della fotografia jazz in Italia tra gli Eighties e gli inizi del Nuovo Millennio? Come ti senti oggi rispetto a quegli anni?

R Sono molto contento di aver vissuto quei periodi. Negli anni Ottanta vi erano ancora sulla scena musicisti storici come Art Blackey, Horace Silver, Miles Davis, Milt Jackson, Sonny Rollins, Benny Carter, Clark Terry. Aver potuto assistere ai loro concerti e poterli fotografare è stata una grande fortuna. In quegli anni ,inoltre, sono arrivati sulla scena musicisti molto interessanti come Steve Coleman, Tim Berne, John Zorn, Bill Frisell, John Scofield che hanno portato nuove idee con esiti davvero importanti. In quel periodo c’è stata anche una notevole crescita del Jazz italiano che ho potuto seguire con una certa attenzione.

D Per te ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Penso di sì. Le cose oggi sono molto cambiate rispetto al passato. Da diversi anni ormai il Jazz si studia anche in Conservatori. Prima invece c’erano molti musicisti autodidatti. Il Jazz si apprendeva sul campo frequentando le jam session nei club. E’ cambiato il mondo la società ed anche il Jazz in parte ha risentito di questi cambiamenti. Non voglio dire che prima era meglio ma era sicuramente diverso rispetto ad oggi,

D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste per te qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R Nel nostro Paese come nel resto del mondo, ormai, ci sono musicisti molto validi che seguono le diverse tendenze stilistiche in atto nel Jazz. Penso che una cosa che caratterizza molti musicisti italiani è un certo gusto melodico, una cantabilità un lirismo che appartengono alla nostra tradizione. Mi viene in mente subito un nome forse il più rappresentativo del nostro jazz Enrico Rava.

D Parliamo ora del tuo libro?

R Il mio libro raccoglie i miei scatti del periodo analogico a partire dal 1985 fino al 2009. Ci sono più di trecento scatti che ritraggono i musicisti in concerto, nel backstage e in situazioni informali. Ci troverete personaggi molto noti e anche bravissimi musicisti meno conosciuti ma comunque meritevoli di apparire nel volume. Abbiamo prestato molta attenzione al progetto grafico curato da Daniele Lissi e alla qualità della stampa.

D Apprezzo i differenti sguardi del tuo obiettivo: anzitutto il ritrarre il jazzman sia in concerto sia inb pausa o in privato. Com’erano nella vita a vederli così da vicino?

R In generale posso dire di avere incontrato persone disponibili e alla mano. Molti erano interessati quasi esclusivamente alla musica e non si curavano molto della loro immagine. Per questo ti posso dire che sono nate molte situazioni spontanee particolarmente interessanti per un fotografo. Con alcuni sono nate delle amicizie. Ovviamente questo si è verificato più facilmente con i musicisti di casa nostra.

D Hai qualche aneddoto speciale o curioso legato alla tua attività di critico di fotografo?

R Avendo frequentato per tanti anni i festival, le sale di incisione e i club ne avrei diversi. Te ne racconto uno accaduto verso la fine degli anni Novanta. Mi trovavo ad una importante manifestazione all’estero. Ebbi occasione di fraternizzare con il chitarrista Jean-Paul Bourelly. Al termine del suo concerto che vedeva la partecipazione di Archie Shepp, Bourelly mi invitò a unirmi a loro per una festicciola che si sarebbe tenuta nei camerini. Ebbi l’occasione di fare conversazione con Archie Shepp. Alcuni fotografi locali mi invitarono a lasciare i camerini perché ritenevano di essere gli unici autorizzati a stare in quegli spazi. A quel punto intervenne Archie Shepp dicendo che ero loro ospite e che potevo restare. Percepii chiaramente che aveva piacere a parlare con me di musica e di altri argomenti. Devo dire che fu una bella sensazione.

D Un altro episodio interessante?

R Un incontro invece molto toccante fu quello con Heny Grimes. Venne a suonare già anziano a Milano nel 2003. In quel periodo scrivevo alcuni articoli per Jazz Hot. Il direttore Ives Sportis mi chiese di intervistare il grande contrabbassista da poco tornato sulle scene dopo che era sparito nel nulla per molti anni vivendo in stato di indigenza e addirittura dato per morto. Sinceramente non avevo idea di che genere di persona avrei potuto incontrare. Bene l’intervista si fece ed ebbi modo di conoscere un ua persona molto dolce e di grande umiltà. Ricordo ancora la sua espressione un po’ malinconica ed allo stesso tempo tenera che mi commosse.

D Meglio la parola scritta o l’immagine fotografica per ‘comunicare’ il jazz alla gente comune?

R Beh l’immagine fotografica può essere molto efficace. Comunque anche un bello scritto penso ad esempio al libro “Il Persecutore” di Cortazar può restituire molto del fascino di questa musica.

D Il bianco e nero fu una scelta espressiva o ‘economica’ rispetto al colore?

R Quando incominciai a collaborare nel 1987 con «Musica Jazz» la rivista era in bianco e nero con la sola copertina a colori. Per esigenze editoriali i servizi fotografici dovevano essere stampati in bianco e nero. Va detto inoltre che con le pellicole a disposizione in quegli anni in contesti di luce difficili come spesso accadeva nei club e in alcune rassegne il bianco e nero era la soluzione più affidabile per ottenere buoni risultati. Con il passare degli anni comunque per me il bianco e nero è diventato sempre di più una scelta espressiva. Questo non solo per documentare il jazz ma anche per altri miei lavori. Anche oggi che lavoro in digitale scelgo principalmente di realizzare le mie immagini in bianco e nero.

D E oggi cosa pensi della foto digitale applicata al jazz?

R Senza dubbio oggi la foto digitale offre delle possibilità molto ampie. Si riescono a scattare buone immagini anche in situazioni di luce non ottimali. Vi è poi un discorso di praticità in pochi minuti puoi scaricare una foto e inviarla dove ti pare.

D Hai rapporti con altri critici/fotografi? Se sì, quali apprezzi maggiormente e perché?

R Sono amico e collaboro con diversi importanti critici. Non starei qui a fare un elenco. Mi limiterei a citare Luigi Onori che mi ha intervistato per il mio libro. Ho avuto ,inoltre, occasione di collaborare con alcuni fotografi come Roberto Masotti e Pino Ninfa per la realizzazione di mostre e pubblicazioni.

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