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Joy Grifoni

// di Valentina Voto //

Joy Grifoni è una ricercatrice, una musicista, una psicologa e una docente. È fondatrice del progetto Pure Joy (a nome del quale ha pubblicato gli album Spirit of the wood, Firedance e Earthings) e dell’orchestra a supporto delle donne Pink Tank Band. Come musicista jazz può vantare diversi riconoscimenti e partecipazioni a festival nazionali e internazionali, mentre come ricercatrice neuroscientifica lavora sulla neuroplasticità legata alla multisensorialità. Ha di recente pubblicato il libro Palingenesi creativa. Il potere maieutico delle arti, che si rivolge «a terapeuti, artisti e a chiunque desideri utilizzare il potenziale trasformativo dell’arte come strumento di rinascita personale e collettiva». Il suo ultimo album, Earthings, è stato recensito lo scorso anno sulle pagine di Doppio Jazz e definito, a ragione, «un lavoro di rara bellezza».

D In tre parole chi è Joy Grifoni?
R Una persona curiosa.

D Come sei arrivata al jazz?
R Sono arrivata al jazz grazie a mio padre, che mi ha sempre fatto sentire ottima musica. Lui era un grande conoscitore del genere: aveva almeno cinquemila dischi di jazz e moltissime audiocassette registrate, tutto catalogato con estrema precisione. Soprattutto amava il jazz europeo (fan assoluto degli Oregon, di Bill Evans, di Jarrett), ma mi ha fatto conoscere Coltrane quando avevo otto anni: stavo facendo il bagnetto e fece partire Ascension sul giradischi. «Ma che è sto casino?» mi venne da chiedergli, e lui rispose «Devi imparare a capire questa musica, altrimenti é inutile che stiamo qui a parlarne». Capii che per lui era importante e, come gesto d’affetto nei suoi confronti, mi misi a cercare di capire questo disco. Senza troppo successo: «Papà, ma io non ci ho capito niente». «Bene» mi rispose «Meglio. Così ti farai delle domande. Ricordi la mostra dei quadri di Fontana e che non hai capito nulla nemmeno lì? È un po’ la stessa cosa: sono opere che non ti spiegano quello che devi pensare, ma lasciano pensare te, in modo che tu sia libera. Hai capito?». Ancora ci sto provando.

D Come ti sei avvicinata invece al contrabbasso?
R Quando avevo forse tredici anni mio padre mi portò a vedere Ron Carter. Io al tempo suonicchiavo il basso elettrico in una band grunge scalcinatissima. Mio padre mi indicò il contrabbasso di Carter dicendo «Lo vedi quell’armadio che suona quel signore? Ha le stesse note dello strumento che suoni tu. Se impari a suonare bene il tuo strumento, dopo potrai suonare anche quell’armadio lì». Io ebbi la faccia tosta di dirgli «Adesso voglio andare a fare due domande a quel signore» e tanto mi ero impuntata che ce la feci: riuscii ad avvicinarmi a Carter e dirgli «Salve, io suono il basso elettrico. Lei è tanto bravo con questo strumento, mi può dare un consiglio?» e lui mi rispose accompagnando l’autografo che mi fece con queste parole: «Keep practicing every day and study Bach». È stato il mio idolo per tanto tempo.

D Carter è quindi tra i modelli cui ti ispiri come contrabbassista?
Guarda, io faccio tanta fatica a pensarmi solo come contrabbassista. Devo tanto alla musica di Carter, Mingus, Grenadier, La Faro, Haden, Chambers, di tutti questi grandi del jazz – ma anche di tanti strumentisti della classica, come Garcia Fons, Scodanibbio o Petracchi – eppure il linguaggio contrabbassistico non è la mia spina dorsale espressiva. Credo, per esempio, di ispirarmi più agli strumenti a fiato: sono molto melodica nella mia composizione. Mi hanno ispirato molto strumentisti come Dolphy, Ornette, Coltrane, Harrell, Wheeler. Mark Turner, in particolare, è stato un grande punto di riferimento per me insieme a Chris Potter per tanti anni. Mi piacciono poi moltissimo le composizioni di Taborn, Frisell e di Rueckert. Il mio strumento non è solo il contrabbasso, ma l’intero ambiente, compreso il palco su cui suono. Lavoro con gli armonici acuti in opposizione ai gravi – che si percepiscono non solo con le orecchie, ma anche con tutto il sistema nervoso periferico – e sentire le vibrazioni del palco mi aiuta a entrare nel suono e a intonarmi. Per questo mi esibisco a piedi nudi su certi particolari palchi risonanti, per sentire meglio certi armonici, per godermi al meglio l’esperienza multisensoriale.

D Il fiato, oltre che come ispirazione strumentale, pare presente (penso ad Earthings) anche come sineddoche di un flatus vocis, dell’idea di una voce cantante e materica che è sia eco che sostegno, leggera ma sempre presente. Questi binomi parrebbero un po’ catturare anche lo stile della tua leadership, quasi fossero metafora musicale del tuo essere terapeuta: una voce strumentale e compositiva che accoglie e sostiene, che è in dialogo senza mai essere prevaricante, tutta tesa alla migliore espressione dell’altro – in questo caso musicista – che hai accanto. C’è qualcosa di vero in questa lettura?
R Sì. Nei miei lavori io mi occupo della linea più alta e di quella più bassa, prendendo gli estremi della gamma timbrica. Non sono cantante, forse non sono nemmeno contrabbassista, ma cerco di creare uno spazio, dentro o fuori dal quale gli altri possano muoversi. Però, ecco, «leadership» mi fa pensare al leader, a colui che va seguito, e penso che esprimersi in questi termini tradisca un’idea e un linguaggio ancora tutti maschili. Nell’album c’è bop, hard bop, jazz mainstream ed europeo, un po’ tutto: questo per far capire che io, da donna, mi sto muovendo nel bagno degli uomini che è il jazz e con il linguaggio imposto dalla loro forma mentis, ma che sto cercando di farlo con un’attitudine contenitiva, accogliente. Questo è quello che manca nella musica, in cui tutti vogliono essere frontmen – anche le donne jazziste che conosco. Io credo di essere più simile a…faccio fatica a trovare metafore, anche per esempio sportive, perché lo sport come lo conosciamo oggi è molto maschile. Più che il portiere, ti direi che sono la porta.

D Il jazz tradizionalmente è (stato?) un «club per soli uomini», di difficile accesso per le donne. Oggi c’è spazio per le donne nel jazz?
R Il jazz è, come ti dicevo, come un bagno in cui c’è solo la targhetta ‘Uomini’ e in cui puoi entrare solo se ti fingi uomo. Non ci sono molti linguaggi femminili, visto che fino all’altro ieri noi donne eravamo praticamente degli oggetti operativi e ricreativi della cui sensibilità non importava a nessuno, e in tutti i linguaggi esistenti (non solo nel jazz, ma anche nel rock e, ancora di più, nel pop) la donna è ancora oggi un feticcetto sessuale, un oggettino di arredo che ci fa vedere la sua corporeità e che, quando invecchia e diventa antiestetica – che è magari proprio quando ha sviluppato a pieno la sua persona – non interessa più a nessuno. Forse nella musica classica è diverso – vista la lunga tradizione di donne esecutrici, e anche compositrici.

D E qual è la situazione in Italia?
R In Italia la situazione è più tragica rispetto ad altre nazioni. Io ho vissuto anche negli USA, a New York per es., e qui è la normalità vedere insieme musicisti bianchi e neri, uomini e donne, giovani e vecchi. Da noi ci sono poche donne che si esprimono in un proprio linguaggio. La maggior parte delle strumentiste scimmiotta la muscolarità maschile per sentirsi «fitting», ma questo è esattamente il contrario del jazz! Il jazz è (era?) un gesto anarchico e mi chiedo perché non possa diventare tale anche per le minoranze di genere, estetiche o di salute (penso a quanto siamo indietro nel coinvolgimento delle neurodivergenza, che, secondo me, nella sperimentazione musicale, sarebbe una linea di ricerca interessantissima). In Italia lo spazio femminile nel jazz è quello tipicamente della cantante, e le poche strumentiste conosciute si esprimono egregiamente in un linguaggio profondamente maschile. Questo mi fa tenerezza ma anche un po’ tristezza… Anche io per anni ho suonato in centinaia di jam session interminabili al termine delle quali (dopo circa sessanta chorus di solo) qualcuno ogni tanto mi strizzava l’occhio benevolmente «Suoni proprio come un uomo!»… e io ero contenta! Poi negli anni mi sono chiesta «Perché? Perché non ti ami?». Il più grande gesto di cultura che noi donne possiamo fare è quello di insistere sulle nostre identità, senza «fare finta di» o «adeguarci a». Io non sono in grado fisicamente di suonare come un uomo nero di due metri, quindi è inutile che arranco: faccio quello che amo con quel che per me è onesto. E non è solo una questione di fisico, ma anche di forma mentis: bisogna reinventare i linguaggi.
D Possiamo dire che i tuoi album rappresentano la proposta di un modo di fare jazz che risponde a una sensibilità diversa, femminile?
R Ci provo con tutte le mie forze. Uno dei motivi per cui nei miei brani trovi rarissimi soli di basso è che non ho più il bisogno di dimostrare niente a nessuno, faccio dischi come se fossero cene con gli amici di cui mi interessa l’opinione. Io ci metto la casa, l’accudimento, il cibo e il vino. Mi siedo ad ascoltare, mi godo la serata dopo aver cucinato. Nel prossimo disco forse non ci sarà nemmeno un solo di basso. Ci sarà tutto il resto. Il «solo» di Joy è la scrittura, la tessitura armonica etc., e poi ritengo una gran rottura di scatole i soli interminabili di basso. Finisce che la gente chiacchiera ancora di più ai concerti.

R Il tuo progetto musicale si chiama «Pure Joy». Ce ne parli?
R Pure Joy è un progetto che ormai ha quasi dieci anni ed è arrivato a comprendere una trentina di musicisti: suonano tutti gli stessi pezzi, però uno sta a Padova, uno a Brescia, uno in Sicilia etc. e a seconda di come mi sposto contatto «la mia famiglia» del Nord, quella del Centro o quella del Sud, quella della Germania o dell’Inghilterra. Suono con loro questo real book di brani nostri da anni ed è un’esperienza bellissima: ogni combo è diversa quanto a preparazione musicale (ci sono i musicisti più mainstream, quelli più free, quelli più sensibili all’elettronica) e così gli stessi brani, gli stessi temi, nonostante gli anni restano sempre vivi e in divenire.

D E come nascono i tuoi brani e i vostri album?
R Spesso le melodie mi vengono in mente mentre dipingo o mentre passeggio nella natura, che sono momenti per me di grande felicità. Solitamente per prima cosa scrivo la melodia e i bassi, solo dopo scrivo gli accordi, perché mi piace scriverli in prova, confrontandomi con gli altri. Mi presento alle prove come il sarto, col metro e con la stoffa, ma poi tagliamo e cuciamo insieme. Ci vuole tantissimo tempo e alla fine gli album emergono dall’unione della mia sensibilità con quella dei vari musicisti: il linguaggio da album ad album, infatti, cambia moltissimo, anche perché sono frutto ognuno di un periodo diverso, in cui ho lavorato con formazioni diverse.

D Che ne diresti di ripercorrere il percorso dei tuoi album, le idee extramusicali che li hanno ispirati e il loro filo conduttore?
R Questi album sono tutti dedicati al Wu Xing e alla teoria degli elementi naturali. Il primo album, Spirit of the wood, era dedicato al legno, alla foresta, quindi alla famiglia. Pensavo all’incipit della Divina Commedia – io allora avevo trentatré anni – e la selva è stata l’inizio di questa narrazione. Poi c’è stato l’inferno di Firedance, il disco del fuoco, realizzato durante il Covid con grandissime difficoltà logistiche. Dopo è arrivato il terzo album, Earthings, dedicato alla terra – elemento materno – quando stavo riflettendo sull’idea della maternità. Qui c’è un brano dal titolo «Uwa Dunya», cioè «Madre Terra», che è frutto di una vera gestazione condivisa tra musicisti di tante nazioni diverse (Italia, Senegal, Mali, Francia). Tutti i pezzi di mondo di quest’album sono confluiti insieme in maniera molto occidentale, ma il sapore d’Africa resta – grazie alla kora, alla kalimba, alla voce narrante. Questa è di Pape Siriman Kanoute, griot del Mali e mio amico da sempre, che recita una poesia sulla la vita e sulla morte e racconta che la morte non esiste, perché é come passare da una stanza all’altra di una stessa grande casa: da una stanza in cui le cose puoi toccarle con le mani a un’altra in cui devi toccarle in un altro modo. Quindi ho pensato alla maternità come a quel momento in cui tu, dando la vita, ti prepari a entrare in un’altra dimensione, in cui cambia il tuo ruolo e così il tuo rapporto con la vita (e qui intendo la maternità come l’atto creativo per eccellenza, anche in senso lato, che si metta al mondo un figlio, un libro o un disco). È il disco con più umanità al suo interno e mi ha coinvolta molto a livello animico, tanto che, mentre lo registravamo, già venivano fuori i pezzi del quarto album.

D Dopo Earthings hai quindi altri progetti discografici in cantiere?
R Sì. Ora sto finendo di mixare il disco del metallo, un disco alchemico, in cui ogni brano ha il nome di una qualità di questo elemento: sono tutte qualità, legate alla saggezza, che si spera io possa ottenere con la mia anima – il riferimento è alla pietra filosofale degli alchimisti, il cui trasformare qualsiasi cosa in oro era in realtà metafora della trasformazione dell’anima. L’ultimo disco sarà acquatico e vi confluiranno i due miei grandi progetti, i Pure Joy e la Pink Tank Band, un’orchestra di donne nata vent’anni fa come progetto di musicoterapia per il superamento del trauma. È una meta ambiziosa per me unire questi miei due progetti in un unico disco, è una vera e propria riunione di famiglia! Nell’elemento dell’acqua infatti – quello che ti ingloba, accoglie e dà la vita – sento l’unione vitale fra il maschile e il femminile, e non a caso, e finalmente, la maggior parte delle persone coinvolte in quest’album saranno donne. Sarà il mio ultimo lavoro discografico jazzistico, credo, perché poi mi dedicherò ad altre cose. Voglio seguire il cambiamento ovunque mi condurrà. L’importante per me è continuare a evolvermi per andare in nuove direzioni.

D Le copertine dei tuoi album paiono un correlato visivo del loro contenuto sonoro. Ce ne parli? Sono tue opere, giusto?
R Sì, sì. Sono cinque grandi quadri, pilastri di una piccola mostra itinerante intitolata Orgone (in omaggio alle teorie psicanalitiche di Reich) tutta dedicata alla natura e ai messaggi che l’osservazione naturalista mi ha trasmesso. È un lavoro, dunque, che porto avanti da tanti anni, non solo con la musica, ma anche con la pittura dei miei «quadri tattili» e la scrittura di poesie. L’idea che ho, per quanto riguarda la compenetrazione tra i vari linguaggi, è quella della Gesamtkunstwerk che cercavano un po’ tutti gli artisti nel primo Novecento – penso alla Francia, per es., in cui si incontravano e si influenzavano a vicenda pittori, compositori e scrittori. Questo purtroppo oggi si è perso, perché ogni linguaggio si è chiuso dentro la sua casa. Nei musei vedi quadri e sculture, ma è difficile che senti una nota. In Germania non è così: almeno per l’arte contemporanea, c’è ancora un poco di questa contaminazione di linguaggi. In Italia, invece, c’è musica molto interessante, ma il compositore musicale tende a restare nel suo nido ed è difficile che conosca anche, per es., i quadri di Burri o il teatro di Brecht. Bisognerebbe tornare a uscire dal proprio nido e ampliare l’angolo di campo per lasciarsi ispirare. D’altronde, di più cose ti nutri, più è sano il tuo metabolismo.

D Si può dire che la tua musica sia espressione, oltre che della tua visione della musica, anche della tua visione del mondo?
R Sì, assolutamente. Per me l’arte, oltre che phármakon, è anche espressione politica, cioè espressione di una visione del mondo che può essere pluralistica o monocratica. Io tendo per la prima visione e cerco di esprimere questa. La musica deve essere un modo per esprimere messaggi anche politici: non deve essere propagandistica, ma deve esprimere valori sociali, culturali, etici, etc. Questo è vero soprattutto per quanto riguarda il jazz: il bebop, per es., rappresentava una protesta razziale e, dopo questa, ci sono state tante proteste, di vario genere, tranne quella di genere, che, a livello jazzistico, non c’è ancora stata. Spero che invece di continuare a perpetrare le guerre di genere, si possa fare un’opera di mediazione, arrivando a capire che le identità, quelle di ciascuno di noi, sono fatte di maschile e femminile insieme. Nella mia attività musicale e di ricerca neuroscientifica e terapeutica cerco di supportare la nascita delle popolazioni virtuose, delle comunità creative, compatte e generose, che condividano un potere espressivo che non riguardi solo l’interesse del singolo. Io cerco l’inclusione, cosa che troppo spesso vedo mancare nei diversi ambiti in cui opero.

D Il tuo nome, come musicista, non è nuovo ai lettori di Doppio Jazz, ma vuoi dirci qualcosa della tua formazione, non solo musicale, così ricca?
R La mia formazione è scientifica e umanistica contemporaneamente, fin dai miei studi superiori. Oltre ai diplomi di Conservatorio e di Musicoterapia, poi, ho due lauree umanistiche – quelle in Lettere e in Musicologia – e due lauree scientifiche – quella in Neuroscienze e quella in Psicologia, che però forse si pone a metà tra i due ambiti. Cerco di essere onnivora, perché penso che l’arte e la scienza siano due facce della stessa ricerca del vero. I miei articoli scientifici per esempio parlano delle stesse cose delle mie ricerche umanistiche e della mia musica: i sensi, il rapporto con la natura, la fusione con gli altri.

D Di recente hai pubblicato il libro Palingenesi creativa, in cui delinei il tuo approccio terapeutico che unisce arti e psicologia. Ce ne parli?
R Ho cercato di esprimere in questa pubblicazione quello che penso, ossia che la creatività è un’attitudine verso la vita, non tanto la capacità di produrre un elaborato – che può essere bello o brutto, piacere o non piacere –, ma la voglia di produrre qualcosa di costruttivo che ti rispecchi, di cercare nuovi punti di vista sulle cose, di capire meglio il mondo e la vita. Tutti i miei pazienti sono chiamati alla creatività, chi con un medium, chi con un altro, che sia un pennello, una penna o uno strumento musicale. Non voglio presentare però il mio approccio come una metodologia: ho solo cercato di raccontare le mie esperienze come didatta, psicologa, ricercatrice e creativa, cercando di spiegarne il senso. Il libro, poi, è fieramente autoprodotto. Avevo la possibilità di farlo pubblicare con un paio di case editrici che non mi hanno convinto, e così ho creato una mia casa di produzione, per scrivere i miei libri – e anche i miei dischi – in libertà, senza imposizioni di sorta. L’ho chiamata «Autarka», dove la seconda ‘a’ è data da tre ‘A’ sovrapposte che stanno per ‘arte’, ‘amore’ e ‘autarchia’, a indicare un movimento di liberazione di sé stessi attraverso l’arte, l’amore e l’autogestione. Perché questa per me è la libertà: non il fare come ti pare, ma il capire cosa serve a te stesso nel rispetto di ciò che serve agli altri.

D Tu quindi non ti presenti ai tuoi pazienti solo come psicologa, come musicoterapeuta o altro, ma utilizzi tutto il tuo bagaglio. Che tipo di terapeuta sei?
R Sono un pesce un po’ strano rispetto agli altri psicologi. Anche io ho una formazione scolastica – che nel mio caso è quella psicodinamica gestaltiana –, ma cerco di uscire dalle dinamiche delle scuole, di non imbottigliarmi dentro un dogma o un metodo, perché sono convinta che ogni persona è diversa e che ci sia bisogno di una diversa chiave di accesso per ognuno. Penso che sia necessario adattarsi, danzare insieme all’anima che hai di fronte. La prima cosa è l’alleanza: io ho lavorato con bambini di tutte le età, dai tre agli ottant’anni, e con tutte le età l’alleanza è la prima cosa. Poi mi piace molto anche l’idea dell’educatore, perché viene da ex-duco, «condurre fuori», e tengo sempre a chiarire che il mio compito è proprio questo, quello del maieuta (lo scrivo anche nel libro): io non invento niente, cerco solo di far tirare fuori il meglio che l’altro ha dentro. Una psyché non è come un vaso da riempire – c’è già tanto dentro – ma forse, laddove ce ne sia bisogno, solo da riordinare e valorizzare un poco. E questo è quello che alla fine cerco di fare anche con la mia musica. Affinché, prima o dopo la mia espressione, qualcosa (si spera di buono) sia cambiato nell’aria…

Joy Grifoni

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