Un’intervista inedita a Luca Beatrice in memoriam. Opere Mondo, Bitches Brew, copertine, musica, pittura e altre storie

Luca Beatrice
/ di Guido Michelone //
Il 28 novembre 2011 si tenne a Valenza Po (Alessandria) un convegno dal tutolo “Miles davis Rewind” sottotitolo il divino, il principe, Bitches Brew e altro” organizzato da Gianfranco Nissola (autore di ben due libri su Miles) per l’associazione ‘Amici del jazz di Valenza’: sul tavolo degli esperti, oltre lo stesso Nissola, figuravano Enrico Merlin, Alberto Bazzurro, Felice Reggio, il sottoscritto e Luca Beatrice, che per impegni improvvisi, non poté presenziare all’intero pomeriggio, concedendomi a posteriori quest’intervista da cui fu poi ricavato l’intervento per il Catalogo edito da una tipografia locale e purtroppo di non facile reperibilità. Riletta oggi, l’intervista ha il pregio dell’immediatezza, mostrando ancora una volta la cultura multiforme di un’intellettuale che ci ha lasciato assi presto, all’improvviso. Luca Beatrice infatti era nato a 4 aprile 1961 Torino, dove è mancato il 21 gennaio scorso.
D Luca come ti rapporti con il ‘mito’ di Miles Davis?
R Davis non è soltanto patrimonio della storia del jazz, probabilmente perché Miles non è solo un musicista di jazz ma il suo tipo di musica, soprattutto quella degli anni tardivi, aveva qualche cosa d’altro, aveva dentro il funky, un po’ di elettronica: poi egli è anche questo grande personaggio di cui certamente si sente parlare da mezzo secolo in qua.
D Il primo disco di Miles Davis che hai ?
R Bitches Brew e probabilmente, ecco, cercando un’idea per raccontare in pochi minuti qualche cosa che fosse credibile, mi è venuto in mente un saggio di Franco Moretti, docente di Storia della Letteratura all’Università di Roma: un saggio che Moretti, a un certo punto, intitola e definisce Opere Mondo. Tra le ‘opere mondo’, partendo dalla letteratura, si può dire che esistano quelle che sono state concepite soprattutto negli ultimi due secoli, quindi nell’Ottocento e nel Novecento, molto difficilmente catalogabili secondo gli schemi convenzionali. Quando si parla di letteratura, abbiamo il romanzo, il racconto, il poema epico con tutti i vari sottogeneri. Ebbene ci sono delle opere letterarie che sfuggono a qualsiasi tipologia di classificazione troppo elementare, che non si possono ricondurre a un genere semplice e preciso; e Moretti faceva diversi esempi, a cominciare dal romanzo Moby Dick.
D Perché proprio Moby Dick? Che cos’è in fondo Moby Dick?
R È un romanzo d’avventura, forse, ma non solo; e di sicuro il discorso vale anche per l’Anello del Nibelungo (poema epico di autore ignoto, musicato da Wagner), o l’Ulysse di Joyce, ma anche i Cantos di Pound, la Terra Desolata di Eliot fino ad arrivare certamente all’Uomo senza qualità di Musil, come pure a Cent’anni di Solitudine di Garcia Marquez; cioè sono quei libri che hanno un po’ l’ambizione di porsi al di là dei generi, degli schemi, delle griglie, i cui tratti caratteristici sono appunto, esempio, la complessità, una narrazione che potrebbe, in teoria, protrarsi all’infinito, senza un centro, senza un inizio e, forse, senza una fine. La digressione che scalza la centralità. Probabilmente questi romanzi sono più interessanti per i loro aspetti digressivi (che non per il centro motore della narrativa), per il ripristino dell’allegoria, per il flusso della coscienza che, specialmente in Joyce, diventa categoria, con un fulcro assai particolare. Tutto questo è poliformismo: Moretti lo definisce proprio come tale: un carattere distintivo, cacofonico, qualche volta dissonante, rumoroso; e le opere non sembrano scritte per un individuo, ma per una intera società, impure, transnazionali, iper-istruite e bizzarre.
D Quindi come colleghi l’idea di Moretti al Miles che conosci?
R Ora, non essendo io un esperto di jazz e avendo ascoltato un poco Bitches Brew, quasi mi sono reso conto che Franco Moretti tracciava l’identikit di un’opera di questo genere, un’opera che sfugge a qualsiasi tipo di definizione, tant’è che penso sia una delle poche opere jazz anche conosciute dai cosiddetti ‘fanatici di rock’, quelli che hanno visto la luce in particolare in quel rock che prende vita sonora attorno al 1969-1970; e l’opera di Davis è pubblicata proprio nel 1970, cogliendo come tangenza assolutamente fondamentale o quasi necessaria il mondo della psichedelia, soprattutto quella della West Coast americana. Ebbene, probabilmente è questo il tipo di lettura di un’opera così complessa, di un’Opera Mondo, dunque ridefinibile in questo modo, partendo anche dalla copertina dell’album stesso. Devo dire che, pur essendo un critico d’arte, non è che sia un grandissimo appassionato d’arte figurativa, perché alla fine sono uno studioso a cui piace di più la musica, probabilmente. Allora mi diverte – e sono diversi anni che lo faccio – a scrivere una rubrica su una rivista di rock, che si chiama Around the rock, in cui parlo delle copertine dei dischi, quindi dell’aspetto visivo del suono.
D Parliamo dunque della copertina seminale di Bitches Brew che è presto divenuta un’opera di culto?
R Bitches Brew ha una copertina di un autore figurativo, di un pittore non famosissimo per gli addetti ai lavori, ma che invece è abbastanza famoso nel mondo dell’illustrazione della musica appunto: questo signore si chiama Abdul Mati Klarwein, un pittore di origini tedesche che oggi si definirebbe pop-surrealista, genere che è tornato di moda; Klarwein fece e concepì anche l’illustrazione di una copertina per un album di Santana molto noto (anche nel jazz), che si chiama Abraxas. Ecco questa fu una copertina, tra l’altro in più versioni, come spesso succede nell’industria discografica; occorre infatti sapere che ci sono più versioni della cover di Andy Warhol per l’omonimo Velvet Underground And Nico, così sempre Warhol lavorò con i Rolling Stones per Sticky Fingers e un live doppio. Alcune copertine di jazz, di pop, di rock, hanno avuto un percorso molto particolare e fu proprio in un’Accademia che tenni un corso su questo tema, sulle copertine di dischi realizzate da grandissime firme.
D Quindi dicevi che Bitches Brewcolpisce molto, oltre la musica, fin dalla copertina…
R Sì, perché è indubbiamente particolarissima: già potrebbe essere parte di una lettura complessa, a livello proprio di interpretazione, di ermeneutica (cioè di “che cosa significa”); ma ci si chiede come un musicista jazz così conosciuto, ma non ancora diventato pop star (come sarà poi Miles Davis in seguito) abbia scelto Klarwein e che cosa riesca a trasmettere con una rappresentazione visiva del genere. E questo è certamente un aspetto importante; l’altro aspetto, che poi certamente qualcuno potrà riprendere, è che Miles a un certo punto si scoprì anche pittore. Devo dire che non lo farà in età giovane, perché le opere grafiche e pittoriche di Davis, quelle almeno che sono arrivate in Europa – come in una mostra postuma al Teatro La Fenice di Venezia nel 2006 – datano essenzialmente gli anni Ottanta. Si tratta di una particolarità, questa del ‘Divino’ artista figurativo, che però non è una unicità, perché sono stati diversi i grandi musicisti che nella storia di loro competenza, nel rock o nel pop, nel jazz o nel folk, si sono misurati con l’illustrazione; però la mia domanda sorge spontanea: proviamo a togliere il nome di Miles Davis sotto l’etichetta di uno dei suoi quadri e torniamo a chiederci se questi lavori hanno diritto di cittadinanza in un sistema dell’arte, o se piuttosto la cosiddetta griffe non aumenti il valore dell’opera stessa.
D Infatti, voglio subito domandarti com’è il Miles Davis artista figurativo.
R Allora Miles, come pittore, è chiaramente un autodidatta, non è un autore che arrivi da studi accademici, non è uno che possegga grandi conoscenze di storia dell’arte, però sicuramente ha un talento naturale; io penso infatti che gli artisti dal grandissimo talento poi in realtà spesso riescono a migrare da un linguaggio all’altro e probabilmente a cogliere, dal punto di vista meramente intuitivo, quelli che possono essere degli stimoli che arrivano da altre parti. Ebbene Davis è un ‘autodidatta’: alla pittura arriva quindi con naturalezza, però quello che colpisce è che guardando i lavori di un artista nero come lui, molto più giovane di lui, che nei suoi quadri spesso si ispira alla pittura del ‘Principe delle Tenebre’ – mi riferisco a Jean-Michel Basquiat – sentiamo che dice: “Io non posso tollerare che qualcuno mi chieda il significato della mia pittura, così come nessuno chiederebbe a Miles Davis che cosa sta suonando”. Il discorso riguarda il momento dell’improvvisazione sulla tela (o sulla tavola) che dà un segno molto preciso alla stregua del rifiuto della partitura per un jazzista. Il parallelismo tra Davis e Basquiat è curioso, perché ci sono delle assonanze ideali, e poi magari si potranno anche vedere le assonanze formali tra la pittura giovanissima, arrogante, iper-espressiva di Jean-Michel e questo tratto così particolare dello stesso Miles, riferito evidentemente più ai quadri che non ai disegni.
D Sembra lapalissiano il confronto tra i due…
R Ma il ragionamento che io volevo fare è un altro, al di là di questo: e cioè tornare a quanto dicevo prima, ossia quanto in realtà la griffe possa aiutare. Ci sono stati degli artisti, o meglio dei musicisti, che se la sono cavata abbastanza bene nel doppio mestiere. Il più credibile di tutti secondo me è – che Dio l’abbia in gloria – Captain Beefheart che, dopo essere stato una colonna portante della psichedelia più allucinata, drogata, trasgressiva e tutto quanto c’era di conseguenza nel mondo intorno a Frank Zappa e le Mothers Of Invention, nel 1982 smise di suonare, riprese più o meno il suo nome di battesimo – si chiamava Donald Vliet – inventando una specie di parentela con un pittore fiammingo del 1600; quindi si fa chiamare Don Van Vliet e si mette a dipingere guardando con una certa verosimiglianza sia la pittura statunitense (il post-impressionismo astratto americano) sia quello che sta succedendo in Europa, nel mondo tedesco in particolare, con i Nuovi Selvaggi; e così arriva ad esporre in una galleria molto importante di Colonia, quella di Michael Werner, però seguendo una personalissima carriera di artista underground un po’ fuori dal sistema, però ogni tanto ci rientra, con un bagaglio di opere decisamente abbastanza significativo.
D Beh, nel mondo del jazz e del rock sono abbastanza frequenti i casi di musicisti-pittori…
R Un altro caso molto interessante che ha tangenze abbastanza evidenti con il jazz stesso è quello di Joni Mitchell, una delle poche donne che hanno avuto qualche riconoscimento, alla fine anni Sessanta e nei Seventies, in un mondo abbastanza maschilista come quello del pop-rock; Joni afferma: “Io mi trovo molto più a mio agio nel mio studio che non su un palco” e in effetti non è mai stata un grande “animale da palcoscenico” ed è forse meglio ascoltarla su disco; ma a vedere tutto quanto l’excursus del lavoro pittorico, almeno una quindicina di suoi dischi sono illustrati da lei stessa. Però quello più bello di tutti, tra l’altro quello più avanguardista, meno ingenuo, è un album dedicato a Mingus, che tra l’altro era pensato come un disco che doveva nascere dalla collaborazione con il grande musicista black, bandleader, compositore e contrabbassista. E poi ci sono altri lavori della Mitchell che hanno un certo tipo di riconoscibilità artistica, per esempio la copertina di Turbulent Indigo, un album che non ha avuto tanta fortuna, un disco tardivo, dove lei si autoritrae come Van Gogh con l’orecchio tagliato: un vezzo sulla condizione dell’artista.
D Esistono insomma diversi artisti che, dagli anni Settanta, tentano il doppio mestiere…
R Ora, sorvolo su David Bowie che ci ha provato tanto a fare l’artista ma con risultati catastrofici perché i suoi quadri sono orrendi; e allora cosa succede? siccome è un uomo intelligente e se n’è accorto, ha deciso che era meglio comprare arte oppure investire in una rivista come «Modern Painters» che languiva, andava verso il fallimento, e ci ha messo dei soldi.
D Ma, secondo te, il il caso oggettivamente più eclatante?
R È quello, anche perché è all’ordine del giorno, di Bob Dylan che, dopo aver sconvolto i puristi dell’acustico con Highway 61, e dopo aver avuto quell’incidente motociclistico in cui ha veramente rischiato la pelle, per tre anni se ne è dovuto stare a casa tranquillo a riposare; quindi ha smesso di suonare dal vivo ed ha cominciato a dipingere. Addirittura è anche andato a scuola di pittura – però a metà anni Settanta! – da un artista che si chiama Norman Raebe (di cui francamente non ho mai sentito parlare): e ha disegnato, dipinto e abbandonato tutte queste belle cose nel cassetto. Poi si è dedicato ad altro. Bob Dylan ha lasciato queste opere piene di codifiche, finché, nel decennio scorso, qualcuno è riuscito a entrare in casa sua, invitato, e ha incominciato a vedere questi disegni e questi dipinti: sembra strano a dirlo ma lui è un pittore estremamente classico, mentre Miles Davis non lo è affatto, neanche lì riesce a essere tradizionale. Bob Dylan adesso lavora con la Gallery Jago Jean, che è la galleria più importante del mondo, che parte da New York ma ha sedi anche a Los Angeles, a Londra, persino a Roma: con questo ancora una volta mi viene il vago sospetto di pensare che questi dipinti abbastanza seriali se li avesse fatti un qualunque signor Rossi, invece di Bob Dylan, probabilmente non se lo sarebbero filato neanche di testa.
D D’accordissimo con te. Ma riprendiamo le immagini dei dischi di jazz…
R Certo e concluderei parlando di un’altra copertina, così torno a Davis, dove a questo punto è Miles stesso che diventa opera d’arte in quanto ritratto: e mi riferisco alla copertina di Irving Penn, alla sua fotografia bellissima in bianco e nero per l’album Tutu, che è del 1986. Una cover certamente storica per un album abbastanza tardivo nella sua carriera, realizzato con Marcus Miller – credo che sia il terz’ultimo – un album assolutamente contaminato, difficile, però quello che è importante di quest’album, al di là del puro contenuto musicale, è che si tratta di un disco sulla blackness, sulla negritudine. E di conseguenza la foto che, per Tutu, gli scatta Irving, che è proprio un close-up, un primo piano ravvicinatissimo, e le mani nell’interno, è uno degli scatti e delle cover più famose degli ultimi venticinque anni, per un fotografo che era sì stato abituato a immortalare le grandi star dello spettacolo, della moda, dell’arte e della cultura – mi riferisco ad esempio a una delle più famose immagini di Picasso o a quella curatissima di Truman Capote – ma che risulta anche impegnato a fotografare gli Hell’s Angels, ma anche più di recente a ritrarre l’indossatrice Kate Moss, passando dalla musica alla moda, alla cronaca.
D Penn è stato certamente un grande innovatore…
R Sì, nella fotografia americana: freddo, elegante, essenzialmente attivo con il bianco e nero; ed è senza dubbio uno di quei fotografi a cui si deve maggiormente il fatto che la fotografia sia entrata a tutti gli effetti nei musei di arte contemporanea. Fino a una ventina di anni fa, le due categorie (pittura e fotografia) procedevano abbastanza distanti: da una parte c’era il mondo della fotografia con la sua grammatica, la sua sintassi e le sue regole interne, e dall’ altra c’erano gli artisti che incidentalmente potevano usare la fotografia nella pittura, nella performance, nell’installazione.
D Forse solo in questo XXI secolo tutti hanno scoperto che la fotografia può a tutti gli effetti essere considerata una disciplina delle arti visive.
R Adesso è abbastanza comune andare nei musei a vedere mostre di fotografia di grandi autori, che nascono come fotografi ed essere inclusi in un discorso del genere. Alla fine lo scatto di Penn a Miles è certamente una di quelle copertine che rimangono nella storia della musica pop o rock, jazz o folk, e quando l’ho proposta alla rivista «Rumore», qualche anno fa, come copertina del mese, non hanno neanche avuto tanto da obiettare, essendo la loro una rivista indie-rock che per il jazz non ha mai fatto alcuna recensione. Tutto questo la dice lunga con il fatto che Davis non viene percepito soltanto come un patrimonio della cultura jazzistica ma, probabilmente, è apprezzato come uno dei personaggi chiave del Novecento che ha capito una cosa: che la parola contaminazione oggi è assolutamente moneta corrente, ma che invece da Bitches Brew in avanti era partita con largo anticipo.
