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Saša Ilić

// di Guido Michelone //

Alla fine del 2023 esce per l’editore Keller il libro Cane e contrabbasso (Pas i kontrabas nell’originale) scritto da Saša Ilic nel 2019, all’età di 47 anni, con un titolo che, per chi nsa di jazz, rimanda a quello dell’autobiografia del grande contrabbassista, bandleader e compositore Charles Minguis: Beneath The Underdog (1971), tradotto come Peggio di un bastardo. Questo nuovo romanzo, anche in Italia, potrebbe aprire, finalmente, un grosso serio dibattito sul jazz e letteratura, ma al momento, a circa un anno dalla pubblicazione, non se ne vedono i tentativi, anche perché nel nostro Paese si viaggia a compartimenti stagni e solo chi si azzarda occuparsi di due differenti linguaggi espressivi – ad esempio il jazz e il cinema come in Francia accade per Jean-Louis Comolli – viene subito tacciato di pressapochista o di tuttologo, dimenticando ad esempio le lezioni di Gillo Dorfles, Umberto Eco, Oreste del Buono, i quali, grazie al metodo di studio, sono in grado, nel secondo Novecento, di spaziare su diversi argomenti con cognizione di causa.

Il problema comunque esiste realmente, concernendo l’oggettiva difficoltà a interessarsi professionalmente di due argomenti, jazz e letteratura, in costante evolversi e con peculiarità tra loro diversissime, richiedenti interessi culturali, criteri gnoseologici, aperture mentali, strumenti interpretativi che metterebbero in discussione le certezze di molti jazzologi o la sicumera di taluni critici letterari. Detto questo e salutando Giorgio Rimondi, Libero Farné, Franco Minganti, i compianti Ermanno Comuzio e Walter Mauro, come tra i pochi in Italia occuparsi di jazz in maniera obliqua e interdisciplinare, parlare di Cane e contrabbasso vuol dire mettere in relazione diverse visioni del mondo attuale.

A livello contenutistico il romanzo narra le vicende di Filip Isakovic, contrabbassista serbo che lascia il proprio Quartetto quando sta per spiccare il volo dal punto di vista del successo, per ritrovarsi in marina a fare la guerra civile tra le repubbliche dell’ex Jugoslavia, uscendone traumatizzato e, vent’anni dopo, incapace di usare il proprio strumento musicale, al punto da essere ricoverato al centro di riabilitazione mentale di Kovin, dove viene sottoposto alle cure innovative della dottoressa Sibinovic, la quale si giova di nuove terapie olandese con il supporto dell’Unione Europea e della Croce Rossa internazionale, sia pure in un contesto assai degradato. In effetti il povero Filip si trova in un fatiscente manicomio, all’antica, dove l’unica persona amichevole è un vecchio paziente, il dottor Julius, ora esperto di Divina commedia, in passato uno psichiatra ribelle favorevole alla filosofia di Franco Basaglia che sta pagando a caro prezzo l’indipendenza di pensiero all’epoca del regime comunista. Julius architetta, durante una sorta di recita finale di fronte ad autorità locali e cosmopolite, una fuga che non gli porta fortuna, perché viene mortalmente ferito da un proiettile della polizia. Filip invece riesce addirittura a giungere a Genova, meta scelta per onorare l’amico scomparso davanti alla tomba della madre di quest’ultimo.

Nel capoluogo ligure il contrabbassista avrebbe l’opportunità, con falso passaporto (non avendo più documenti) di imbarcarsi su una lussuosa nave da crociera, ovviamente come membro di un’orchestra jazz; ma nel frattempo egli diviene amico di due musicisti africani con i quali suona in jam session nei localini del porto E il romanzo termina con la frase sibillina: “(…) no, non mi sarei voltato, mi sono detto al Bar Felice, fino a quando i can i sarebbero stati docili e dall’anima del contrabbasso si sarebbe sentito il mio jazz”. Esiste però, come nei CD jazz, un’alternate take, con una poesia di Flavijana Bettizza la mamma di News composta l’ultimo giorno a Kovin (dicembre 1941).

A livello formale, la struttura non è così lineare come qui spiegato, perché la trama appena riassunta è deducibile solo alla fine del libro: come nella migliore tradizione dei maggiori romanzi mitteleuropei, l’autore racconta per flashback, con un andirivieni spazio-temporale, quasi un flusso di coscienza senza capitoli, ma con solo quattro grosse parti distinte: La rivoluzione di febbraio (Kovin marzo 2016), Fango e stelle (Kovin aprile 2016), Il carnevale dei topi (Kovin giugno 2016), Libertad (Genova, ottobre 2016). Il testo – come si deduce dalle fonti scrupolosamente citate in fondo al volume – è carico di suggestioni letterarie fra poesia, teatro, saggistica, da Prevert a Chlebnikov, oltretutto con frasi in italiano nell’originale: Saša Ilic è un romanziere che probabilmente lavora molto sulle raffinatezze della lingua serba impossibili da cogliere in traduzione. C’è pure, sempre in coda, un soundtrack, ovvero un elenco di ben 57 brani (quasi tutti jazz più qualche pezzo rock, pop, folk, classico), quasi a ribadire, a livello di prosodia e di improvvisazione, una probabile vicinanza tra la scrittura e la musica.

Resta da definire cosa significhi il jazz (nominato con parsimonia, tranne per il finale) agli occhi del protagonista comunque assai ben informato anche sulla scena attuale, forse come riflesso dei gusti dell’autore evidentemente appassionato della materia, vista la complessità della narrazione anche nel dualismo contenuto/forma. Sembra fin troppo facile spiegare due messaggi fondamentali: che l’ospedale psichiatrico è un microcosmo, dove la memoria sia individuale sia collettiva vacilla nell’incapacità del potere a fare i conti con la storia della S maiuscola; e che l’unica valvola di sfogo e al contempo ancora di salvezza è il jazz, musica sofferta, libertaria, condivisa.

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