// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel mondo del jazz molteplici furono i tentativi di sostituire la chitarra al pianoforte, ma non sempre i risultati prodotti alimentarono gli entusiasmi del pubblico e della critica. Molti chitarristi hanno trovato maggiore espressività, fisionomia estetica e terreno fertile nel periodo della fusion, altri sono diventati abili intrattenitori attraverso lo smooth jazz. Ciò non significa che il jazz classico non abbia avuto degni rappresentanti in ambito chitarristico, da Djanngo Rainhardt a Pat Martino, passando per Franco Cerri, ma se scandagliamo in profondità il numero è alquanto esiguo; soprattutto nel periodo di massimo splendore del jazz moderno, ossia dal bop al free, la chitarra, tranne qualche punta di eccellenza, Grant Green, Kenny Burrell, George Benson e Jim Hall, riveste un ruolo assai marginale. Secondo una sorta di assioma largamente condiviso a vari livelli nell’universo del jazz, il pianoforte da solo costituirebbe un’orchestra, a fronte di alcuni evidenti limiti della chitarra.
Certi artisti, attraverso una tecnica sopraffina, seppero colmare talune carenze, nello specifico Wes Montgomery, il quale applicava alla chitarra le sequenze armoniche del piano. Montgomery fu una sorta di «sdoganatore» della chitarra negli anni del bebop, caratterizzandosi come l’esecutore più innovativo, tanto da dare vita ad una folta schiera di epigoni. I suoi dischi possiedono sempre quel tocco morbido ed elegante, dove una mano sapiente accarezza le corde con le dita, senza l’uso del plettro; in particolare Montgomery riuscì ad elevarsi al di sopra della media dei coevi, operando nell’atto creativo una specie di sincretismo, ovvero di conciliazione e di sintesi fra stili e linguaggi artistici differenti. Del resto la chitarra incarnava da sempre la tradizione popolare, il folk, l’intrattenimento leggero, ma soprattutto fu strumento determinante per lo sviluppo del blues moderno.
«Movin’ Along», registrato il 12 ottobre del 1960 al United Recording Studio di Los Angeles con la produzione di Orrin Keepnews, mentre dalla costa Est giungevano le prime avvisaglie della «new thing», è uno degli album che meglio descrive la cifra stilistica, assai «conciliante» di Wes Montgomery, dove il chitarrista riesce a condividere generosamente la scena insieme ad altri strumenti di prima linea, quali il flauto ed il sassofono, retrocedendo a tratti nella sezione ritmica, meccanismo da intendersi non come un abdicare a vantaggio di altri, ma come una larghezza di vedute ed una forte capacità collaborativa, elementi che incarnano il vero spirito del jazz, ossia il cambio, il suggerimento, lo scambio, la compensazione, l’intercambio e la sana competizione. In questa session Wes Mongomery suona la chitarra ed anche il basso elettrico (lato 1, tracce 2 e 4, lato 2, traccia 1), accompagnato da James Clay al flauto e sax tenore, Victor Feldman al piano, Sam Jones al contrabbasso, Louis Hayes alla batteria. L’album scorre piacevole in tutta la sua interezza, con un modus operandi molto westcoastiano, a tratti rilassato, semifreddo, vagamente cool. Due chicche all’inizio delle due facciate dell’album: la title-track, «Movin’Along» composta da Monomery, dove il flauto riga dritto e levigato, senza tentare l’incantesimo o l’incanto dei serpenti, mentre la chitarra armonizza con una progressione da manuale: «Body And Soul”, con un struttura completamente riformata ed adattata nell’arrangiamento al flauto e alla chitarra, procede con uno sviluppo in crescendo ed assoli da accademia del jazz. «So Do It», altra composizione a firma Montgomery, è un’ottima vetrina per il sax di James Clay, un bop con venature funk, che a tratti sembra sconfinare in un swing dal sapore retrò. «Turn Up» di Miles Davis offre un ottimo call-and-response fra chitarra e flauto, mentre «Says You» di Sam Jones e «Sandu» di Clifford Brown sono due esempi di hard-bop addolcito, nel primo a fare da contraltare alla chitarra è il basso, nel secondo il solito flauto. «Ghost Of Change» è una ballata di derivazione popolare, riconfezionata con con un raffinata carta regalo soul-blues. «Movin’Along» è certamente un album da aggiungere alla vostra short-list.
Non vedo questa marginalità, se prendiamo in considerazione chitarristi dotati di personalità, di gusto ed estro quali Charlie Byrd, Gábor Szabó,
René Thomas, Joe Pass, Elek Bacsik limitando lo sguardo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, per tacere di un Billy Bauer emerso ancor prima. Pensiamo ai chitarristi che si sono avvicendati nel quartetto di Gary Burton da metà anni Sessanta in avanti, indicando una strada che verrà poi intrapresa dalla corrente jazz fusion con risultati alterni a mio modesto avviso.
Il suo ragionamento non fa una piega, il termine marginale va inteso come a margine o a latere, nel senso che la chitarra rispetto al pianoforte, come strumento armonico, ha sempre avuto un ruolo “marginale” nel jazz, specie nel secondo dopo guerra. Tutto ciò non mette in discussione l’importanza storica dei jazzisti da lei citati e neppure l’evoluzione della chitarra che ha avuto la sua “rivincita”, in particolare negli anni Settanta con l’affermarsi della fusion.