// di Francesco Cataldo Verrina //
«Chet Baker Quartet Vol 1», 1955 / «Chet Baker Quartet Vol 2», 1956
Non è facile districarsi tra l’infinità di materiale pubblicato da Chet Baker negli anni Cinquanta – non sempre di elevato livello – si potrebbe avere l’impressione di trovarsi in un dedalo senza uscita. Fra i tanti dischi usciti in quegli anni segnaliamo alcune registrazioni francesi effettuale nel 1955 per l’etichetta Barclay a Parigi. Il primo sicuramente degno di nota, «Chet Baker Quartet Vol 1», possiede finanche una valenza storica per via della presenza del pianista Richard (Dick) Twardzik scomparso poco dopo le sessioni in esame: l’accoppiata Baker-Twardzik fu una delle più riuscite del decennio. Nel line-up sono presenti anche Jimmy Bond al basso e Peter Littman alla batteria. L’ensemble mostra un’eccellente coesione ed una buona dose di dinamismo di matrice bop rispetto ad alcuni materiali più melliflui di Baker prodotti sulla costa occidentale qualche tempo prima. Il trombettista sembra più aperto alle nuove direttive del jazz del periodo, intercettando alcuni segnali di cambiamento di matrice afro-americano, come dimostrano gli arrangiamenti e certi suoi assoli in «Rondette», «Piece Caprice», «Sad Walk», «Mid Forte», «The Girl From Greeland», «Just Duo» e «Pomp».
Il quadro si completa con «Chet Baker Quartet Vol 2» del 1956, un’altra sessione in quartetto che sottolinea ancora il distacco di Chet dai moduli espressivi californiani. A parte l’alta qualità delle forze in campo accorse in suo aiuto, Gerard Gustin al pianoforte, Jimmy Bond al basso e Bert Dahlander alla batteria, Baker opera con una forma mentis più vicina all’attualità, evitando di vivere di rendita, soprattutto si propone attraverso una più articolata modulazione del suono e del tono, metodo che svilupperà progressivamente, in Europa, a partire dalla seconda metà degli anni ’50. Le regole d’ingaggio sono sempre le medesime e la scelta del repertorio tocca una serie di consolidati standard, quali «I’ll Remember April», «Tenderly», «Lover Man», «Summertime» e «You Go To My Head», ma completamente trasformati e riportai a nuova vita da Baker e compagni secondo le nuove coordinate gestionali di un jazz europeo che accoglieva le più recenti istanze dei maestri americani.
«Chet Baker & His Quintet With Bobby Jaspar» 1956)
Per qualità ed originalità, possiamo associare ai due set precedenti, un album che riporta in copertina la dicitura Chet Baker Quintet, ma che presenta il trombettista dell’Oklahoma in una serie di contesti e line-up diversi, tutti riuniti nel suo ultimo album per la parigina Barclay. Quasi una festa d’addio ed una celebrazione collettiva per «l’amico americano». La sessione in alcuni brani ospita un quintetto con l’alternanza al sax tenore tra Bobby Jaspar e di Jean-Louis Chautemps. Entrambi i musicisti avrebbero risvegliato in Baker inedite sensibilità sonore e nuovi appetiti musicali che egli avrebbe esplorato ed amplificato insieme ad altri sassofonisti negli anni a venire: uno su tutti Phil Urso. Ci sono anche alcuni passaggi in quartetto e in ottetto che evidenziano la collegialità del gruppo e l’attitudine ad un suono ricco di sfumature e cromatismi. Tra gli altri musicisti presenti nel disco vanno citati Benny Vasseur al trombone, il quale apporta alcuni elementi di diversità rispetto al classico schema bakeriano ed una serie di pianisti di differente cabotaggio, tra cui Rayond Fol, Rene Utreger e Francy Boland. I titoli scelti contengono materiale alquanto insolito rispetto ad altri lavori di Baker: «Vline», «Exitus», «Chet», «Cheeketah», «Dinah», «Tasty Pudding» e «Anticipated Blues».
Chet Baker – «Broken Wings», 1978
Con questo quarto album, invece, facciamo un salto quasi epocale. Registrato a Parigi nel dicembre del 1978, «Broken Wings» è una splendida prova del fatto che il modo di suonare di Chet Baker fosse ancora credibile ed efficace nonostante le caotiche e travagliate vicissitudini personali. Nell’album si stabilisce una reattiva chimica dell’interscambio e del sostegno mutualistico tra Baker ed i membri del suo line-up: il pianista Phil Markowitz, il bassista Jean-François Jenny-Clark e il batterista Jeff Brillinger, che ridanno vita ad alcuni standard come la title-track, «Broken Wings», a firma Richie Beirach e «Black Eyes» di Wayne Shorter, oltre che a «Blue Gilles» dello stesso Baker, il quale non avendo composto molto nell’arco della carriera, qualcuno si sarà mai chiesto chi potesse essere questo Gilles, se non un personaggio di fantasia, un eroe dei fumetti o un protagonista di qualche avventura cinematografica legata magari all’infanzia californiana del trombettista.
Durante il soggiorno parigino Gilles Gautherin era il padrone di casa di Chet, ma anche un generoso amico, un sostegno psicologico ed un confidente: non si dedica una composizione al primo che passa per strada. All’epoca dei fatti, Gilles era più o meno il suo produttore, o comunque l’uomo che produsse questo album, per il quale scrisse le note di copertina della prima edizione, proditoriamente eliminate nelle pubblicazioni successive. Chet Baker ha registrato molti album in Europa durante il suo ultimo decennio di vita, e questo è davvero difficile da reperire nella sua stampa originale. Ciononostante, «Broken Wings» si sostanzia come un lavoro superiore alla media foriero di un repertorio fresco, vivace e di facile fruizione spiccando fra le tante sessioni affrettate ed inutili di quegli anni. Chet appare tonico ed in forma smagliante alla tromba in brani come «How Deep Is the Ocean?», mentre distilla con sapienza la voce in «Oh You Crazy Moon» dosandola con grazia, al fine di ottenere un impatto emotivo coinvolgente.