// di Francesco Cataldo Verrina //
Registrato il primo e il due febbraio del 1968 a Villingen / Foresta Nera, in Germania presso l’MPS Tonstudio, l’album uscì solo nel 1973. Quando questo disco venne concepito, la «new thing» era in piena deflagrazione. Il jazz era stato travolto dal ciclone del cambiamento, la sua sintassi veniva stravolta da elementi contaminanti e da additivi sonori di diversa provenienza. Era appunto, l’anno di grazia 1968, quando tutto faceva rima con rivoluzione; eppure Ben Webster e Don Byas, alfieri della tradizione, pur nelle loro diversità timbriche e tonali, distillarono un l’album bebop in purezza, incuranti del fatto che il mondo, dovunque, stesse saltando in aria. Lontani da casa ed in esilio volontario, i due giganti del sax tenore, entrambi all’epoca residenti in Europa in maniera permanente, alimentarono un set incontro-scontro che consegnerà alla storia piccoli e memorabili momenti di jazz mainstream.
Gli stili di Ben Webster e Don Byas forniscono un ricca gamma di sfumature sonore, talvolta in netto contrasto, ma non sfuggono all’arte della perfetta mescolanza. Entrambi maestri di blues e swing, perfettamente consapevoli del gioco delle alternanze, dello scambio e del cambio, della fuga e dell’inseguimento, del botta e risposta, i due si misurano su un fertile terreno bop. L’arte dell’improvvisazione regna sovrana già all’abbrivio con «Blues for Dottie Mae», lo swing ridondante di Webster tende a dominare, anche se le linee taglienti di Byas sfrecciano alla velocità della luce, come lampi di genio da cogliere al volo; il pianoforte di Tete Montoliu, ricco di sangue blues, diventa il sostegno perfetto, come una terza gamba.
I ruoli si riequilibrano e s’invertono in «Sunday». Mentre la giostra cavalleresca a colpi di tenore riprende con «Perdido» e continua in «Caravan». Il bassista Peter Trunk introduce «Lullaby To Dottie Mae» di Byas, una rielaborazione disinvolta del classico «Body And Soul», con un assolo a combustione rapida, dove il vecchio Don dimostra di avere ancora riflessi pronti e nervi saldi. Webster segue a ruota, posizionandosi sotto la luce dei riflettori ed ottenendo il pieno possesso di «When Ash Meets Henry», una flessuosa ballata in cui è accompagnato solo dalle riconoscibili linee di basso di Trunk. Perfetto il lavoro del batterista Albert «Tootie» Heath, un ottimo sostegno dalle retrovie. Per un triste gioco del destino, questo LP divenne il canto del cigno per entrambi i sassofonisti tenori; Byas morì un anno prima che venisse pubblicato, ossia nel 1973; mentre Webster si spense l’anno seguente. Un album immediato, senza complicazioni cervellotiche o compiti da svolgere. Soprattutto i neofiti dovrebbe sguazzarci dentro come bimbi in un parco acquatico.