// di Bounty Miller //
IL jazz, ha un legame strettamente fisico con la musica, non è scindibile come accade ad esempio in ambito rock, funk, dance ed in tutti i settori della musica pop-olare di massa, dove la componente fisica e corporea offre una rappresentazione materiale della musica stessa. È difficile pensare che nella prossemica di Louis Armstrong, ad esempio, vi fossero dei tentativi di irretire il pubblico, al netto della pingue simpatia e dell’insuperata bravura; per contro le movenze di Elvis Presley diventavano la trascrizione osseo-muscolare di un impeto sessuale che le parole stesse delle canzoni contenevano solo in maniera velata.
In qualunque manifestazione artistica, in particolare la musica contemporanea, la componente erotico-sessuale sovente è stato l’allestimento estetico del fenomeno stesso: in talune circostanze ne ha addirittura favorito il propagarsi, incrementato il successo o compensato le carenze creative. rock, pop, funk, disco e sex-appeal hanno sempre avuto un legame assai intimo. Per una migliore comprensione, diciamo che il sex-appeal si riferisce agli umani ed a un complesso di elementi che li circondano, anche se sovente non oltrepassa il semplice richiamo chimico-ormonale di tipo istintivo ed animalesco. Le stars del pop-rock prima, e dalla disco music poi, a partire dalla fine degli anni ’60, hanno cominciato a manifestarsi come la versione aggiornata delle altre «divinità effimere» di epoca cinematografica-hollywoodiana, circondate da piscine a forma di cuore e lustrini, che avevano infiammato le fantasie erotiche delle generazioni precedenti, mentre il mondo del jazz stava a guardare, più interessato alle questioni sociali che non erotiche. Sesso ed amore non sono la genetica manifestazione estetica del jazz di ogni epoca. Non che i jazzisti fossero asessuati e lontani da ogni tentazione di trasgressione chimico-fisica: tutt’altro, ma in un dimensione che deve essere scissa completamente dalla musica, sia in fatto di erotismo che di uso sfrenato di sostanze psicotrope. Per il jazzista, mediamente, l’orgasmo corrisponde alla performance musicale, mentre l’uso di droghe, a torto, era ritenuto solo un coadiuvante ed un espanditore dello spettro percettivo.
È difficile credere che Chet Baker, già dagli anni Cinquanta, non avesse innescato pulsioni erotiche in molte signorine di buona famiglia, alla medesima stregua di Elvis Presley o Little Richard. In verità, basta attenersi ai fatti per capire che l’appeal sessuale di Baker non nasceva dalle movenze corporee legate alla sue esibizioni dal vivo, ma dal fascino di una vita senza regole e soprattutto da un fragilità raccontata dalla sua musica e dal suo canto, non certo dalla sua fisicità. Sullo stesso piano va posto anche colui che per lungo tempo ne era una sorta di riflesso o di complice a distanza, per quanto Art Pepper abbia incrociato più volte sul suo cammino l’amico e collega Chet, Art Pepper, sempre sul filo del rasoio, nella prima parte della sua esistenza, quelle antecedente ai lunghi anni di detenzione, fu un consumatore sfrenato di sesso e di narcotici, ma senza che tutto ciò potesse avere un qualche legame con la sua musica. A parte qualche divagazione giornalistica, in merito ad un disco che i due musicisti fecero insieme e dal titolo alquanto esplicativo, “Playboy”, nessuno ha mai pensato d’inquadrare si Baker che Pepper come due ancheggianti sex-symbol alla Elvis The Pelvis.
Prima dell’avvento del POP moderno (con tale definizione s’intendano tutti quelle espressioni musicali che vanno dal rock’n’roll anni ’50 fino alla più recente street-hip-hop e club culture, le canzoni, l’atto del cantare o una qualunque tipologia di «performance» non avevano sempre una stretta connessione con l’erotismo sia pure di superficie: A partire dalla seconda metà del XX Secolo cominciò a manifestarsi una sessualità, talvolta diretta o ambigua, ma decisamente dichiarata. Volendo fare qualche esempio di facile comprensione Urbi et Orbi, andiamo nei primi anni ’80 con la celeberrima «Relax» di Frankie Goes To Hollywood, che recitava: «Relax…relax…if you wanna come…(Rilassati.. rilassati…se vuoi venire. Di certo, non a prendere un caffè.)». Se facciamo mente locale alla vulcanica «Sex Machine» di James Brown, scopriamo tutto il potenziale di una macchina «nera» adusa a dispensare piaceri legati al sesso ed alle movenze corporee, in netta contraddizione con il «perbenismo bianco» di marca WASP, rigido, bigotto ed ancora schiacciato nel «complesso del pene piccolo».
Nell’evoluzione della black music, il binomio ballo-sesso costituisce una forma di libertà ante-litteram (o di territorio franco in cui esprimersi) anche sotto un profilo «sociale». Fu proprio il rhythm’n’blues a riversare tutta la sua carica eroto-sessuale nel rock degli anni ’50: le roteate pelviche di Elvis o i saltelli indiavolati di Little Richard rappresentarono un atto di liberazione dei freni inibitori. Ancor prima della parola o del testo scritto, furono le movenze del corpo a decantare le delizie del sesso. Nell’ambito della cultura pop non è esistito «divo» che non fosse dotato di un marcato sex-appeal, sia che si trattasse di uno sfuggente Jim Morrison col la sua aria parigina da «poeta maudit» o di un ruspante John Travolta nei panni di Tony Manero che celebra i fasti della disco music in una New York piena di smog, tra balli sfrenati e veloci amplessi consumati sul sedile posteriore di auto lanciate verso il nulla. A questo punto si potrebbe pensare che nel jazz non vi sia o che non vi fosse nulla da mettere in relazione alla parola «divo». Miles Davis è stata la vera superstar del jazz in senso poppish: amante del sesso prolungato e delle belle donne, per non parlare di tutto ciò che ingurgitava, ma certamente il richiamo erotico verso l’altra metà della luna non avveniva tramite le sue movenze sul palco, a dir poco goffe e scostanti. Miles spesso voltava le spalle al pubblico, non parlava, non ammiccava, non ballava, per contro dalla sua tromba sgorgava l’ambrosia degli Dei che ammaliava e soggiogava tutti: donne, uomini e gay. Il suono della sua tromba diventava un oggetto fisico e allo stato solido, una speciale arma di seduzione di massa. Va precisato che nell’universo jazzistico il termine «divo» si coniuga più con «divino» e meno con «divistico», più con spirituale che non con materiale. Nel jazz è avvenuto spesso il passaggio dal immanente al trascendente: si pensi alla forte spiritualità di John Coltrane, Albert Ayler o Pharoah Sanders.
Per intenderci, piccole o grandi stars, comunque divi. Divo o divino, non a caso furono proprio gli Dei, i primi a calcare le scene, nati del resto come spazio della rievocazione-rappresentazione sacra. Al tempo dell’adolescenza della società occidentale, nel culto, specie quello delle divinità elleniche, etrusche o romane, i «simulacri» fecero la loro prima apparizione e, insieme ad essi, si manifestò la determinazione sessuale delle divinità. Nei riti sacri, nei ludi scenici gli Dei, dapprima con statue, poi impersonati da attori, si rappresentavano gli amori dissoluti dell’Olimpo. Sul piano della vita sessuale, l’esperienza era ristretta alla funzione procreativa, ma la religione la integrò all’esperienza stessa dell’universo. I riti liberavano l’atto dalla sua monotonia e ne moltiplicano l’immagine. L’immagine, e forse ancor più l’immaginario, cominciarono a liberare l’animalità dalla sua funzione biologica e le aprirono una nuova sfera espressiva, ossia i ludi e le loro forme, che la congiungevano, sia pur idealmente, alla segreta «licenziosità» dell’universo divino.
La musica contemporanea, in virtù di una naturale laicità, trovò immediatamente un nesso con l’antichità pagana, dove le divinità olimpiche vennero impersonate dai divi della discografia mondiale, mentre i loro fans rappresentavano torme di fedeli pronti all’adorazione nei nuovi templi dell’esaltazione collettiva: arene per concerti o discoteche. In questi novelli luogo di culto, certe pratiche dissolute potevano venir considerate al contempo espressione del mondo liturgico e di quello teatrale, oscillando continuamente tra la libera improvvisazione e la regola rituale. Quando gli Dei calcavano le scene, lo spettacolo raggiungeva l’apice dell’oscenità e mai, come in quel momento, l’uomo si affrancava dalla funzione naturale della sessualità-biologia, legata alla sola perpetuazione della specie. Durante alcuni concerti dei Beatles, le fans raggiungevano un grado di eccitazione, al punto da toccare scene d’isterismo e d’incontenibile delirio, fino a (s)venire; come pure, nei primi anni della «disco», le martellanti pulsazioni sonore del metronomico quattroquarti, accompagnato dalle sensualità delle ugole nere, inducevano chiunque ad una maggiore licenziosità sessuale o a consumare sesso facile (con partners occasionali) come atto conclusivo di un inebriante rito collettivo.
Perfino «la casalinga di Voghera» avrebbe potuto comportarsi alla stessa stregua delle matrone romane, le quali arrivavano a rinunciare ai privilegi di casta, pur di poter recitare senza pena di sanzioni (la cosa era loro proibita) nei ludi scenici, al fine di potersi abbandonare alla più sfrenata dissolutezza. Che fossero i sospiri orgasmici di Donna Summer o il membro mostrato in pubblico da Jim Morrison, le movenze ambigue dei Village People o Mick Jagger intento a dimenare l’anca fasciata di raso e la cintura tesa verso il pubblico a mo’ di frusta; a prescindere dalle valenze artistiche del personaggio in questione, l’intento nei confronti uditorio era sempre il medesimo, ossia scatenarne estasi dei sensi. È proprio la musica, per quel suo essere «arte invisibile» – come la definiva Duke Ellington» – espressione volatile senza materia ad insinuarsi rapidamente, come un gas venefico, tra le meningi del fruitore, pervadendone ogni piega dell’epidermide, complice la forza prorompente dei watts o la presenza di un «divino officiante».
Svetonio, Tertulliano, Sant’Agostino denunciavano da pulpiti diversi le nefandezze che venivano rappresentate in nome delle divinità. Catone il censore, con sapienza politica, si limitava ad abbandonare il teatro seguito da applausi, quando si accorgeva che la sua presenza imbarazzava e infastidiva il pubblico. La musica moderna, come le antiche rappresentazioni, qualsiasi spettacolo, atto teatrale o immagine che proponga una scena in cui consumare sesso, che non sia il recinto familiare (in cui generalmente si è condannati al conformismo), non poteva che essere temuta dallo «potere», inteso come insieme di regole sociali o religiose da osservare. La musica, o altre manifestazioni artistiche, trascinando fuori dal ghetto familiare l’economia degli scambi erotico-sessuali, raggiungeva un’ampiezza incontenibile, al punto da innescare una vera e propria contraddizione tra quello che poteva essere un atteggiamento spontaneo del divo e ciò che era invece studiato a tavolino sul piano di un’evidente (sfrutt)abilità e prevaricazione dell’elemento commerciale. Il divo, talvolta per contratto, doveva esibire quel dispendio vistoso di energia, sudore e sesso, quel suo essere «unicum», un soggetto-oggetto di desiderio, che gli proveniva dal successo, quindi dall’essere inarrivabile rispetto ad un comune mortale: al fan, quattro metri più giù dal palcoscenico, era negata quella gratuità, ossia la capacità di manifestare e di esibire senza limiti, che invece legava la star ad una sorta di ordine divino di concezione assai terrena, fatto di sesso facile da ottenere e da consumare, ma soprattutto di privilegi materiali: soldi a palate, ville, bolidi e gioielli.
Alla fine degli ’60, complice una generale aria di contestazione e di uguaglianza finto-politically-correct, finito il miraggio della società opulenta e l’avvento delle contestazioni post beatnik e post-sessantottine, certi beni materiali ed il loro accumulo attraverso una ricchezza determinata dal successo perdevano il valore simbolico da esibire per ottenere il consenso delle masse, essendo sfumato con la speranza del loro possesso anche il consenso sociale, che faceva apparire beni e ricchezze desideri e obiettivi da perseguire. La relazione sesso-jazz s’inserisce forse più in questo understatement innescato dalla cultura antagonista. I jazzisti erano comunque attratti da beni materiali e dal sesso, che significava vestiti di foggia italiana, auto potenti, belle donne e stravizi a vari livelli: dietro quell’apparente seriosità paternalistica di batterista impeccabile, uno dei più lascivi fu Art Blakey: al suo funerale si presentarono almeno quatto o cinque mogli, sedute in prima fila, per ricevere le condoglianze
La sfera erotico-sessual-sentimentale, con tutto quel corollario di emozioni che ne scaturivano, sembrò la strada maestra da percorrerete. In un’epoca in cui i figli della ricca borghesia si camuffavano da finti-straccioni, i feticci della ricchezza avrebbero allontanato il pubblico se fossero stati esibiti sic et sempliciter con disinvoltura, come avevano fatto i divi del cinema e della musica degli anni ’50 e dei primi anni ’60. La contestazione giovanile e la crisi di certi valori tradizionali portavano all’ideologia dell’essenziale, al realismo economico, foriero di un altrettanto pericoloso realismo politico, poiché strumentalizzato da persuasori occulti, organizzatori di concerti e discografici-vampiri con i canini insanguinati. Nulla fu mai più studiato a tavolino dei grandi raduni concertistici modello Woodstock di fine ’60, inizio ’70, dove l’unica nota di spontaneità fu rappresentata dall’ingenuità delle folle oceaniche che vi convenivano. Che gli artisti di successo facessero i soldi alle o sulle spalle dello spettatore-consumatore credulone-sognatore, era un male (necessario) che non sfuggiva a nessuno. La pop-star, però, idolo dei giovani di belle speranze e di indiscussi ideali non poteva limitarsi a rappresentare la realizzazione economica. La ricchezza da cui derivava il suo fascino doveva essere un’altra. Un’opulenza per cui il devoto fan non si sentisse povero, ma disperato per non potersi congiungere nell’amplesso con l’oggetto dei propri desideri, ossia il divo, a cui lo avrebbe accomunato una forte tensione emotiva ed ideale. La pop-star doveva avere un contenuto in più, rispetto al quale il disco o il concerto diventavano una fase secondaria: passioni, sentimenti, pensieri, rabbia, disperazione, amore. Il divo, come gli dei dell’Olimpo, doveva essere mosso da gelosie, tradimenti, infedeltà, progetti di rigenerazione del mondo, buoni propositi e cattive intenzioni. In ambito jazzistico, colui che si attaglierebbe meglio a questa rappresentazione scenica del divismo fatto di tradimenti e gelosie, potrebbe essere Lee Morgan, eccelso trombettista dell’era bebop, se la sua vita non avesse avuto un triste epilogo. Lee Morgan a parte gli eccessi legati all’uso di stupefacenti, era noto per le sue fughe erotiche al di fuori del perimetro matrimoniale. Per uno strano gioco del fato, il trombettista venne stroncato per mano di una donna, la sua compagna, che gli sparò un colpo di pistola a causa dell’ennesima scappatella.
Il rock prima, e la disco music poi, promettevano un mondo in cui si potesse fugare la paura della vecchiaia, fatto solo di pulsioni e desideri giovanili, dove consumare sesso senza limiti o preconcetti: essere uomo, essere donna, essere uomo e donna al contempo: David Bowie, Elton John, Iggy Pop, Lou Reed si mossero sul filo di una sofferta e pericolosa ambiguità, forse non del tutto reale, ma in barba a quei rigidi ed ingessanti valori borghesi. Siamo in un’epoca in cui il fantasma dell’AIDS non aveva ancora manifestato la sua inquietante presenza: tutto sembrava più facile e senza conseguenze: Sex, Drugs and rock’n’roll. Gli omosessuali, in particolare quelli di colore, individuarono subito nella disco music una sorta di viatico per la libertà: non essendo permesso loro di «manifestarsi» in pubblico, trovarono nelle discoteche, così come era avvenuto nei concerti, uno spazio libero e «democratico» senza delimitazione di posti, senza proscenio, poltrone, poltroncine, posti distinti, posti riservati, sedie numerate, loggione, fumoir e piccionaia, ma solo un «eden» votato ai piaceri del corpo, dove potersi muovere, toccare, incontrarsi, conoscersi e piacersi, fino al conclusivo amplesso finale, consumato nella più disinibita improvvisazione e senza precauzione alcuna, dopo che la «divina musica» aveva infiammato i sensi e tolto loro qualunque freno inibitore. Al Paradise Garage di New York, una massa indistinta di danzatori di colore etero, ma per lo più omo-sessuali, con i loro corpi seminudi facevano da scenario ad una bolgia dantesca, dove tonnellate di watt si abbattevano sulla pista, prodotte dal cupo e cadenzato black sound proposto dal leggendario DJ Larry Levan. In Italia, gli Easy Going, forse uno degli esempi più alti di Eurodisco, lanciavano attraverso l’immagine del loro primo album, l’idea di una sessualità ambigua, ma dichiarata e disinibita. Mentre Mick Jagger, ex-proletario di periferia continuava a mostrare la lingua, quale atto di ammiccamento verso i sudditi-fans, i divi della disco divennero più espliciti e diretti: basterebbe vedere una semplice carrellata di copertine di album da discoteca, usciti tra il 1975 ed 1978, per capire quanto il binomio sesso-musica fosse oramai inscindibile: il rock stava invecchiando e con esso tutti i suoi miti.
Il divo era un simbolo facilmente fruibile e di sicura efficacia, ma anche facilmente deperibile, talvolta a scadenza limitata, poiché impiantato nel terreno piano del futile e dell’effimero. I campi della gratuità, come si definiscono in sociologia, quali quello dello sport, della moda e, appunto, della musica pop, svolgono da sempre una funzione sociale di «contenimento» importante rispettivamente per gli uomini, le donne, i giovani (di norma e di massima), attraverso quel meccanismo di comunicazione indiretta, ossia mediata da un match, da una sfilata o da una capo d’abbigliamento, da un disco, da un video musicale o da un concerto, ma soprattutto di «transfert» e di proiezione sul personaggio o sull’oggetto desiderato. Tale meccanismo, almeno in una prima fase, riesce a placare le ansie, le intemperanze, le rabbie, le frustrazioni, ma dopo l’euforia, ossia la fase inebriante per aver visto, sentito o immaginato, il ritorno alla realtà è spesso duro come un risveglio improvviso: la vita è una cosa, il calcio, la moda, il cinema o la musica un’altra. Pur dispensando promesse ed emozioni sul piano inclinato della sessualità e dell’erotismo, il rock aveva fallito, dove invece la disco music stava erigendo le torri del suo castello fatato ricco di luci ad effetto, colori avvolgenti, lustrini, corpi adonici, edonismo di massa e sesso senza «complicazioni». Le forme dell’emozione voluttuosa avevano rivelato una connessione, segreta e insieme tragica, con il fenomeno antropomorfo dell’economia e degli scambi, dove il mediatore non era più il «divino», la rock-star, ma l’industria del «consumo voluttuario». Il rock delle proteste recitava: «Make Love, Not War», «fate l’amore, non la guerra». L’amore, dunque il sesso, inteso come antitesi, «contrapposto a», «al posto di», mentre la «disco» sembrava lusingare il mondo intero con l’assioma: «Sesso è bello, perché sesso è ballo!» Mentre le rughe del rock segnavano la fronte dei principali alfieri d’un tempo, le discoteche con i propri miti a presa rapida cominciarono a proporre degli autentici happening collettivi, dove la regola imperante potrebbe essere così sintetizzata: «Vieni e divertiti. Per essere dei nostri non devi essere arrabbiato con nessuno. Per essere felici non c’è bisogno di cambiare il mondo, perché è bello già così com’è. Buttati in pista, lasciati andare….la musica farà il resto!».
La cultura pop, legata al rock barricadero ed antagonista era andata a vuoto, forse perché aveva tentato la carta della grande illusione. L’aver fatto credere (o istigato a credere) a milioni di giovani, ingenui e sognatori, che facendosi di sesso, di sostanze e di chimere, li avrebbe trasportati nell’utopia di un mondo migliore, fu una delle più grandi truffe sociali di tutti i tempi ad opera di artisti e discografici senza scrupoli. Il risveglio per tutti, molti non si sono mai svegliati (suicidi, morti per overdose e poi l’AIDS) si concretizzò in un gran mal di testa collettivo. Quasi tutte le rock-stars, quelle ancora vive, o purtroppo trapassate, erano all’epoca consapevoli di recitare una parte. Alcuni hanno pagato di persona e con la vita, l’aver voluto eccedere col sesso o le droghe, altri hanno invece continuato a fingere, vivendo nel lusso e da conformisti in quel mondo che dicevano di voler cambiare, ma che non avrebbero mai cambiato per nulla e per nessuno. Alcuni di essi, si rifugiarono nei «templi dell’effimero» per chiedere al mondo, se li trovasse ancora sexy o meno. Il 1978, Rod Stewart approdò in discoteca, felicemente pentito e miliardario, urlando: «Da Ya Think, I’m sexy?». David Bowie, che nei primi anni ’80 ebbe un forte rilancio in discoteca, grazie alle alchimie sonore degli Chic, non tardò a rivedere le sue posizioni: «In realtà non sono quello che sembro. Sono un attore, non un omosessuale o un bisessuale. Recito una parte, uso frammenti di me stesso.» Non era lui quello che aveva gridato al mondo intero: «Ho conosciuto mia moglie, perché andavamo a letto con lo stesso uomo!» Che dire di Pete Townshed, leader degli Who, che in «My Generation» cantava: «Voglio morire, prima di diventare vecchio…» Molti gli avevano creduto e forse preso in parola, ma lui è ancora vivo e vegeto, nelle sembianze di un attempato signore, che, ogni tanto, trasgredisce solo per eccesso di velocità con l’auto o per qualche rissosa sbronza al fast-food sotto casa.
I miti dell’eterno «sogno americano», quali James Dean e Marion Brando, che si erano ricoperti di scuro maquillage e tramutati in Lou Reed, decadente sacerdote del vizio e della nichilismo autodistruttivo, finirono con assumere le sembianze dei Bee Gees e dei Village People, mentre le stars del cinema hollywoodiano della grande epoca (Marlene Dietrich, Luareen Bacall, Marilyn Monroe, ecc.) risorgevano nelle sfavillanti vesti delle prorompenti regine delle piste da ballo, Donna Summer e Gloria Gaynor. Mentre la disco era al climax dello splendore, il Punk, sostenuto dal più imberbe nichilismo teso all’autodistruzione, assestò uno dei colpi più duri al precaria tenuta della musica rock, oramai sul viale della decadenza. Se da una parte Neil Young si ostinava a cantare: «Hey hey, may may, rock’n’roll will never die (il rock non morirà mai)…this the story of Johnny Rotten (leader dei Sex Pistols)», proprio i Sex Pistols deridevano il Punk, prendendosi gioco di quanti c’avevano creduto, con una pellicola finto-autocelebrativa dal titolo «The Great Rock’n’Roll Swindle», ossia «La più grande truffa del Rock». In quei giorni la «disco», dove beltà splendeva, si appropriava delle classifiche di tutto il mondo. A prescindere dalla sociologia spicciola o dal fanatismo e dal settarismo di sorta, sarebbe d’uopo una rivalutazione storica del fenomeno, basata su dati economici reali: l’industria discografica, portata al collasso dal fallimento del rock dei primi ’70, nell’arco di tre anni, dal 1976 al 1979, raggiunse traguardi di vendita, prima impensabili, consentendo a molti artisti rock di vaglia di poter continuare ad incidere dischi e fare concerti. Un esempio su tutti: grazie ai successi di Donna Summer, Neil Bogart della Casablanca poté lanciare e far conoscere al mondo il fenomeno Kiss. Proprio la tanto deprecata disco-music, che aveva fatto di ambiguità virtù, facendo leva sullo pseudo-androginismo di Amanda Lear, trasformato ex-porno star come Andrea True Connection, in reginette delle piste da ballo, che aveva promesso e mantenuto sesso facile con le pacchiane copertine dei Love & Kisses di Alec R. Costandinos, esaltato la virilità del funk, nella prestanza sessuale dell’uomo di colore, riuscì dove il rock aveva fallito: propugnare ed ottenere una libertà ed un’uguaglianza sessuale, talvolta con eccessi negativi, ma senza alzare barricate, distruggere il pre-esistente…e fare l’amore, solo per non fare la guerra. In quello scorcio di anni Settanta, il jazz era diventata musica destinata ad un pubblico adulto, ben lontana dal concetto di libertà sessuale: molti miti della grande epopea bop erano prematuramente scomparsi; altri si erano trasformati, come mutanti genetici, andando ad ingrossare la legione straniera della fusion, dove l’unico aspetto erotico poteva configurarsi nella penetrazione virtuale di Jaco Pastorius, mentre si accoppiava in uno sfrenato amplesso hard-core-funk con il suo basso elettrico; diversamente alcuni aveano saltato la palizzata ed erano piombati nel mondo della disco-funk: Donald Byrd, Freddie Hubbard, George Benson, Stanley Turrentine, George Duke, i Cruseders e altri ancora, o si erano avvicinati a quel punto di non ritorno, dove il concetto di loisir superava l’impegno e l’etica della ragione l’estetica del corpo.
A pensarci bene, proprio in quel «Disco Inferno», per la prima volta, angeli e diavoli, belli e brutti, bianchi e neri, etero e omo, trovarono il coraggio di parlarsi, poiché tutti figli di uno stesso Dio: la musica. Del resto gli stessi Trammps cantavano: «The Whole World’s Dancing», il mondo intero sta ballando e, grazie a Dio, continua a farlo. La musica è sempre la stessa, quel magico quattroquarti inventato da un geniale batterista di nome Earl Young nel 1974, in un giorno non ben precisato, nel mitico Sigma Sound Studio di Filadelfia. Potrebbe sembrare un paradosso, ma la disco-funk, geneticamente africano-americana, è molto più figlia o figliastra del jazz rispetto al rock, che si era presto confuso con il mercimonio sbiancante dell’eurocentrismo, ma questa è un’altra storia.