Lo ricordiamo con il suo lavoro più significativo. Uno delle punte di diamante del catalogo Blue Note: Kenny Dorham – «Afro-Cuban», 1955.
// di Francesco Cataldo Verrina //
La sfumatura «spagnoleggiante», il ritmo latino, il sapore caraibico erano stati per lungo tempo lontani ed ai margini del jazz, pur avendo una certa relazione di parentela soprattutto nella componente percussiva di matrice africana. Il primo ad aver introdotto certe atmosfere musicali nell’idioma jazzistico era stato Ferdinand Jelly Roll Morton, ma anche Alan Lomax a partire dal 1938. La frase sonora dal gusto spanish ed il tocco ritmico afro-latino cominciarono ad offrire gradatamente un metodo affidabile per speziare e ravvivare i più convenzionali ritmi in 4/4 comunemente usati nella musica nordamericana. L’adattamento ritmico nasceva imitando il passo sensuale e veloce del tresillo ed innestando il passo cadenzato dell’habanera cubana nei 4/4 degli intervalli ritmici del jazz.
Quello che oggi si chiama «clave», fu definitivamente sdoganato negli anni ’40 da Dizzy Gillespie con estrema padronanza e controllo, tanto che cominciò ad essere usato in maniera massiccia; così una serie di forme popolari afro-caraibiche venne sistematicamente inserita da innumerevoli musicisti all’interno del linguaggio jazzistico. Certe registrazioni caraibiche degli anni ’40 e ’50, avevano sedotto alcuni eminenti personaggi del jazz come Charlie Parker, il già citato Dizzy Gillespie, Harry Sweets Edison, Flip Phillips e Howard McGhee, fino a giungere ad un piccolo capolavoro dell’era hard bop del 1955, «Afro-Cuban» di Kenny Dorham supportato dal percussionista Carlos Patato Valdés. In verità, sul piano ritmico, il percussionista non è l’unico fiore all’occhiello dell’album: parte del merito va anche ad Art Blakey che commercia e scambia, senza pedaggi doganali, carichi di ritmo con il signor Valdés, rendendo memorabili tutte le tracce.
Registrato in due sessioni il 29 gennaio ed il 30 marzo del 1955 al Van Gelder Studio, «Afro-Cuban» è album «bicefalo», basato su una visione semplificata del jazz afro-cubano e un’esigenza di jazz mainstream degna di attenzione. Dorham mostra un tono straordinariamente incontaminato e sensuale da rigoroso professionista della tromba. In questo che viene da molti considerato come il suo lavoro migliore, il trombettista scioglie a fuoco rapido la brillantezza del bebop, e come in una colata metallica, colora di lucentezza i ritmi della parte centro-meridionale del continente americano con piglio sanguigno, quasi come sospinto ed illuminato da fervore messianico.
L’album si apre con quattro brani suonati in questa vena assai ispirata, dove la musica afro-cubana romba con la gravità del bassista Oscar Pettiford e del baritonista Cecil Payne. Dorham si libra su di loro come un maestoso condor, mentre ammucchia triplette di arpeggi caldi, a volte morbidi e glissanti; Hank Mobley al tenore e il trombonista J.J.Johnson aggiungono calore e visioni esotiche, mentre Horace Silver al piano, quasi in punta di piedi, disegna arazzi sonori dal clima temperato. Soprattutto durante le prime quattro melodie, un vivace e robusto suono collettivo di ottoni proveniente dagli strumenti a fiato avvolge un palpito ritmico decisamente esotico. «Afrodisia» presenta uno spessore percussivo tagliente, sostenuto e sollevato dal sax baritono di Cecil Payne, che incornicia la tromba del band-leader, nonché da un ricco buffet di percussioni, mentre le pugnalate melodiche di Dorham offrono una tavolozza armonica di colori vivaci; Hank Mobley e J.J.Johnson si susseguono uno dopo l’altro arricchendo i contorni di melodia spalmabile ed a presa rapida. A seguire «Lotus Flower» che, con un delicato intro da parte di Horace Silver, diventa un pezzo delicato ma sostanzioso, su cui Dorham e Johnson giocano di fino.
«Minor’s Holiday» mette in luce le doti ritmiche afro-cubane che scaturiscono dalle mani dell’allora giovane Carlos Patato Valdés, facendo da collante ad Oscar Pettiford e Art Blakely, mentre tromba, tenore e trombone vagano all’interno di un vortice oscillante; l’alternanza è rapida e stretta, quasi gomito a gomito, uno via l’altro, una staffetta al foto-finish. «Basheer’s Dream» è un guaguancó (un tipo di rumba) dal suono contemporaneo con un uso piuttosto precoce del clave cubano in 3/2. In questo energico brano di chiusura della prima facciata dell’album Dorham incorpora linee melodiche e armoniche tipiche degli anni ’50, prefigurando ed anticipando alcuni degli sviluppi del salsa newyorkese della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70.
Si apre la seconda facciata ed entra in scena Percy Heath, mentre Pettiford, Valdés e Johnson se ne vanno. A questo punto l’atmosfera, tra swing e bop, diventa più nordamericana. Ascoltando Dorham & Co., dopo le incursioni latine, si percepisce un maggiore senso di sicurezza, forza e iniziativa. Il territorio è certamente più familiare. Il pianoforte di Silver risplende attraverso il suo inconfondibile fraseggio in tutte le melodie. Questa seconda sessione inizia con un blues mid-range, «K.D’s Motion», in cui Dorham sfodera quattro gloriosi inserti, prima di passare il testimone ad Hank Mobley. Anche Horace Silver mostra una forma splendida nel suo assolo. «La Villa» presenta una melodia tortuosa e suonata a velocità sostenuta. Dorham emette assoli da manuale protesi all’infinito, mentre Silver si ritaglia un bell’assolo sfidando la forza di gravità. «Venita’s Dance» innesca un ritmo saltellante avvolto in una linea melodica vagamente cerebrale. Il trombettista è ancora una volta brillante, ma Hank Mobley tira fuori i muscoli, sostenuto sul ring da Cecil Payne e Horace Silver. «Afro-Cuban» è un album che passeggia incolume sui carboni ardenti.