Dylan Jack Quartet

«Winter Panes» del Dylan Jack Quartet, disponibile sul mercato dal 15 novembre, per quanto possa apparire un gioco, una provocazione, un ritorno all’infanzia da parte dei quattro sodali – nessuno dei componimenti è originale – offre una visione del jazz contemporaneo libera ed inventiva e un senso dell’orientamento ritmico non comuni in Europa. Abbiamo ascoltato il disco in anteprima ed è una bella sorpresa.

// di Cinico Bertallot //

Dylan Jack è un percussionista, improvvisatore, compositore, educatore e organizzatore che partecipa a diversi progetti nell’ambito di vari generi sulla scena musicale del New England. Sul piano strumentale ed esecutivo, egli si divide come leader del Dylan Jack Quartet e come sideman insieme ad alcuni dei più accreditati improvvisatori della regione. In qualità di band-leader o co-leader, il Nostro ha pubblicato sei registrazioni ed una colonna sonora per film. A conti fatti, però, il batterista viene apprezzato soprattutto quale fondatore del Dylan Jack Quartet, un ensemble che lavora su concetti e composizioni originali combinando segmenti che utilizzano intricatamente metri e fraseggi dispari su improvvisazioni libere. La sua musica è stata descritta da David Adler come «… irta di intelligenza ritmica e ricca di contrasti dinamici e di flussi e riflussi. Dopo l’avventura del film muto ispirato a «Nosferatu» e l’esperienza del concerto dal vivo Eine Quartett des Grauens (2023), il Dylan Jack Quartet avrebbe potuto prendere qualsiasi direzione. Scherzando, il batterista del Massachusetts definisce il quinto lavoro del gruppo «Winter Panes» – primo a non contenere musica originale – come un «album delle vacanze». L’impulso creativo nasce da un invito: durante un recente tour, un locale ha chiesto al gruppo di tornare per un concerto natalizio. A questo punto, Jack e gli membri dei DJQ, Jerry Sabatini (tromba), Eric Hofbauer (chitarra/effetti) e Tony Leva (contrabbasso), hanno iniziato a pensare a «modi meno comuni di guardare al paesaggio invernale», così racconta il batterista.

«Per sentire il freddo non c’era bisogno di immaginazione:abbiamo registrato a gennaio», racconta Jack. «Quel giorno faceva un freddo cane. Il giorno dopo c’erano tipo due gradi. Faceva così freddo. Abbiamo registrato in una chiesa e quando ho salito le scale, fuori c’era una finestra coperta di ghiaccio, così bella, con un lampadario appeso sopra. Ho scattato una foto e doveva essere la copertina dell’album. Poi ho pensato di dare all’album il nome di questa immagine, in qualche modo, con le differenti culture che rappresentano i diversi vetri. Se si guarda fuori da dalla finestra, forse si vede il lato più orientale, ma è sempre lo stesso paesaggio, a prescindere da quale sia la parte di questa finestra più grande o più ampia». I primi due album dei DJQ, «Diagrams» (2017) e «The Tale of the Twelve-Foot Man» (2020), documentano l’emergente delle capacità compositive di Jack e stabiliscono le coordinate di una precisa cifra stilistica, nonché firma sonora della band, assi riconoscibile. La corposa chitarra di Hofbauer, dotata di microfoni ravvicinati, dà vita a un vibrante scambio con la tromba di Sabatini (o con le ance di Todd Brunel su «Diagrams»), un ambiente in cui Leva e Jack sono liberi di intrecciarsi ritmicamente e armonicamente. Ogni strumento può offrire un passaggio solista esteso o dividere lo spazio, come hanno fatto Hofbauer e Jack nel loro disco in duo del 2019 «Remains of Echoes», in cui Hofbauer approfondisce il suo approccio idiosincratico agli effetti elettronici. Tali effetti in «Winter Panes», mettono in primo piano un tono acustico, innescando drammatici riverberi, timbri di eco e fuzztone i quali sembrano nascondersi nell’ombra.

Sbirciando attraverso il primo solco, incontriamo «New Africa» di Grachan Moncur III, con un trattamento basato sui toni del pedale e visceralmente groove, con Sabatini che sputa fuoco in una vena quasi post-bop. Il punto di riferimento di Jack è la versione di «Kwanza» di Archie Shepp, registrata per Impulse! nel 1968-69 e pubblicata nel 1974. «Mi ha colpito il fatto che Kwanza non fosse necessariamente un disco sulla Kwanzaa», spiega Jack, ‘eppure incarnava questa idea di comunità con il suono di questa insolita big band». «Santa Claus Go Straight To The Ghetto» di James Brown è una scelta di Hofbauer, un punto fermo a casa del chitarrista nel periodo delle feste. («Digli che ti manda James Brown», esorta il Padrino del Soul al vecchio San Nicola nell’originale del 1968). La versione del DJQ è contagiosamente giocosa, guidata dal groove tensioattivo di Jack sotto un’altalenante figura di basso ostinato, con in sottofondo un riff di tromba sordinata e il wah-wah di Hofbauer sulla melodia principale. Sabatini risulta in ottima forma nel suo assolo iniziale, seguito dall’autorevole dichiarazione di Hofbauer, più tonale di «New Africa» ma altrettanto fresca e ritmicamente inventiva. Oltre al classico di Moncur, il quartetto propone una versione ritmicamente distorta di «Skating» di Vince Guaraldi da «A Charlie Brown Christmas», nonché un arrangiamento serrato di «Marley And Marley» di Statler & Waldorf, tratto da «A Muppet Christmas Carol» (un must stagionale in casa Dylan Jack). La sonorità principale distillata da Sabatini è simile a quella di Bubber Miley, il trombettista è sostenuto da Hofbauer in un ruolo ibrido a metà strada tra accompagnatore e co-solista, il tutto animato da Leva in solido accordo con il ritmo flessibile e improvvisato del batterista leader.

«Skating» è in tre battute, ma nell’arrangiamento Jack ne sovrappone quattro, «un polimetro che va oltre la linea di battuta», spiega. «Stavo pensando a come avrei potuto pattinare in modo un po’ meno glamour nonostante la melodia fosse bella e liscia. Volevo che sembrasse quasi una scossa». Così l’inventiva del ritmo 3/4 swing di Jack diventano il filo conduttore, con assoli a turno di Hofbauer, Leva, Sabatini e dello stesso batterista. «Las Mañanitas» (le amate mattine), un punto fermo della cultura messicana cantato in occasione dei compleanni, della festa della mamma e di altre occasioni, già adattato da Herb Alpert e dai Tijuana Brass in un disco del 1968 intitolato semplicemente «Christmas Album». L’arrangiamento di Sabatini, uno dei tre per «Winter Panes», abbandona le campane orchestrali e il ritmo soft-rock per qualcosa di più brillante e allegro, con una lunga introduzione di chitarra solista e un vivace giro di scambi Hofbauer/Jack con Leva che tiene saldamente il tempo. Sabatini sceglie perfino il ladino «Ocho Kandelikas», un numero sefardita di Hanukkah, lento e maestoso all’inizio, con un’introduzione di tromba piuttosto assertiva e ricca di ornamenti melodici. Dopo l’assolo di Leva, la vivacità del tango si interrompe e inizia l’accelerazione graduale in un crescendo travolgente, divenendo frenetica nell’autentico stile celebrativo ebraico. La versatilità dimostrata è impressionante, non da ultimo nella tradizionale «Rise Up, Shepherd, and Follow», un’altra scelta di Sabatini, che chiude l’album in un’esaltante tonalità maggiore, foraggiato dall’ innovativo linguaggio chitarristico di Hofbauer. Attraverso idiomi e stilemi, Jack e compagni incontrano la musica alle loro condizioni, stabilendo le proprie regole d’ingaggio. «Forse ci siamo venduti?» ha detto il batterista in un primo scambio di battute su questo «album delle vacanze», diverso da qualsiasi altro, che estende i parametri musicali mantenendo il senso della canzone e del cantabile in primo piano. «Winter Panes» del Dylan Jack Quartet, per quanto possa apparire un gioco, una provocazione, un ritorno all’infanzia da parte dei quattro sodali – nessuno dei componimenti è originale – offre una visione del jazz contemporaneo libera ed inventiva e un senso dell’orientamento ritmico non comuni in Europa.

Dylan Jack Quartet

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