// di Francesco Cataldo Verrina //

Prima di addentrarci nella descrizione di «Virgin Beauty» è bene fare qualche precisazione. Sin dal suo primo apparire, Ornette Coleman è sempre stato un esploratore irrequieto, quanto meno non convenzionale, un musicista costantemente proiettato verso una rilettura del lemmi tradizionali del vernacolo jazzistico. Dopo la gratificante parentesi del modulo free form, di cui egli stesso fu uno degli inventori, il musicista texano non si è limitato ad amministrare un vantaggio crogiolandosi sugli allori ma ha proseguito la propria indagine attraverso una costante rilettura di taluni stilemi che potessero mettere in discussione il vissuto precedente e quanto nel jazz moderno, di stagione in stagione, andava standardizzandosi fino a diventare manierismo. Coleman operò su vasta scala, senza confini territoriali ed armonici, specie a partire dagli anni Settanta con la complicità del figlio Donardo Coleman, giovane virgulto attratto dalle nuove istanze e dai repentini cambiamenti delle sonorità afro-americane permeabili a contaminazioni di vario genere: dalla musica etnica all’elettronica.

Negli anni Ottanta la famiglia Coleman virò per un certo periodo verso una sorta di fusion espansa. Pur non essendo né il Miles Davis post «Bitches Brew» né il Chick Corea della Elektric Band, Ornette e figlio riuscirono a trovare una propria dimensione espressiva con risultati, però, non sempre soddisfacenti e dischi in grado di lasciare un segno nella storia. La versione ornettiana della fusion contiene elementi di country&western, electro-dance da invasione spaziale, groove adatti all’hip-hop e rigurgiti di sinfonismo rock di tipo progressive, supportati da un gioco armonico al limite del concepimento in tempo reale e scevro da ogni intellettualismo. Ornette era un ottimo melodista, incapace di suonare una frase fatua o divagante, anche quando i suoi accompagnatori sembrano precipitare nel baratro. Il 18 settembre del 1987, Ornette, suo figlio Denardo e Cecil Taylor assistettero ad un concerto dei Grateful Dead al Madison Square Garden di New York, su invito del bassista dei Dead, Phil Lesh. In un momento di intenso interscambio tra generi e stili il chitarrista dei Grateful, Jerry Garcia, accettò di partecipare come ospite in tre brani all’imminente disco di Coleman, il quale ricambierà la cortesia esibendosi dal vivo con i Grateful Dead in un concerto del 1993.

«Virgin Beauty» nacque sotto questi auspici proponendo una edizione «lite» dei Prime Time con valori di produzione ariosi e sintetici ispirati alla musica pop-rock contemporanea. Ornette e figlio cercavano di raggiungere un pubblico più ampio, così la presenza di Garcia, in un certo senso, fu un’operazione di promozione incrociata, tanto quanto il contributo del chitarrista, di per sé, puramente formale. Tali stratagemmi funzionarono, al punto che «Virgin Beauty» divenne l’album più venduto di Ornette fino ad allora. Dopo il precedente «In All Languages» che aveva lasciato parte del pubblico ornettiano sconcertato per l’uso massiccio di rimiche pressanti ed elettroniche, Ornette ed i Prime Time, abbandonato lo sperimentalismo fine a sé stesso, tornarono l’anno successivo con un concept sostanzialmente diverso. Il risultato fu il recupero di un suono più naturale e rilassato che meglio si adattava al modulo esecutivo di Ornette rispetto a certe evidenti forzature o ridondanti eccessi propedeutici a voler essere di tendenza ad ogni costo. In quel periodo, certi critici avevano attribuito molte scelte e talune responsabilità al figlio innamorato dei campionamenti e dei sequencer.

In «Virgin Beauty», Ornette, contralto, tromba e violino, è sostenuto da suo doppio quartetto, i Prime Time, che all’epoca comprendeva i chitarristi Bern Nix e Charlee Ellerbe, i bassisti elettrici Al MacDowell e Chris Walker e i batteristi Calvin Weston, e Denardo Coleman (che suona anche le tastiere) e, come special guest, Jerry Garcia terza chitarra in tre degli undici brani originali, tutta farina del sacco del band-leader. Nel complesso il costrutto sonoro è lontano dalla perfezione o frutto di una mercuriale intesa sonora fra i sodali. Non c’è da meravigliarsi, del resto, in tutti i dischi di Ornette si era sempre sviluppata una sorta di anarchia controllata. Va detto che non si tratta di musica da amaca, cantabile ed atta ad accompagnare un rilassante riposino nel giardino di casa ai bordi di una piscina, nonostante si respiri una certa atmosfera world music. L’effetto contrappuntistico di tutte le linee melodiche improvvisate che si intersecano sembra sempre incompleto e work in progress. I chitarristi Ben Nix, Charlee Ellerbe e l’ospite part-time, Jerry Garcia, si intrecciano costantemente con i bassisti Albert MacDowell e Chris Walker (influenzati dallo stile di Jaco Pastorius), creando una miscellanea di melodie contorte in continua evoluzione: a rotazione, un musicista irrompe nella fase costruens della strofa per poi scomparire mentre un altro si affaccia alla ribalta. Come già accennato, i ritmi sono più semplici e diretti rispetto ai precedenti album realizzati con Prime Time, i quali sembrano rievocare le radici rurali di Ornette con un’atmosfera quasi country a due tempi. Altri brani distillano un leggero groove hip-hop che si adatta perfettamente al fraseggio basato sullo swing utilizzato dalla maggior parte degli esecutori. Nella totalità si tratta di un album piuttosto rilassato e ricco di interazioni virtuosistiche tra gli strumenti. Il contralto di Ornette risulta sempre dissonante, mentre con la tromba, il profeta dell’armolodia è sorprendentemente intonato; ad abuntantiam l’intonazione del basso fretless di Chris Walker è tutt’altro che perfetta. Dal canto loro, i due chitarristi, Bern Nix e Charlee Ellerbe, dialogano in chiavi diverse, mentre il figlio Denardo si dimena fra drum-machine, tamburi acustici ed elettrici, usando perfino un vecchio piatto ride jazz. Gli assoli di Jerry Garcia risultano piacevolmente sgangherati.

Nel complesso, questo disco presenta una minore densità e una maggiore gamma dinamica rispetto alle precedenti registrazioni dei Prime Time con una maggiore indipendenza degli assoli. Ornette aveva sempre sostenuto che quel formato di line-up permettesse ad ogni esecutore di fare ciò che voleva, anche se in pratica ciò significava che gli altri membri della band (generalmente molto più giovani) dovessero prendere spunto da lui e adattarsi al suo modo di suonare. Ad onor del vero, questo meccanismo è molto meno evidente in «Virgin Beauty», dove in molti brani, ciascuno dei collaboratori offre una prova in piena autonomia, soprattutto la presenza di più esecutori che suonano simultaneamente non era una novità nella storia delle produzioni ornettiane. Non tutte le tracce dell’album sono memorabili e all’altezza di «3 Wishes», una suggestiva rievocazione americana dell’Egitto, o «Desert Players» che, specie nella seconda metà della traccia, vede Ornette alzare il tiro mentre esamina continuamente il terreno alla ricerca di una pietra filosofale o di un agognato sbocco da un intreccio labirintico. «Healing The Feeling» è un’oasi arabescato, in cui il musicista texano rincorre sogni ad occhi aperti su uno scenario esotico. Ad onor del vero ricorda molto «Englishman In New York» di Sting, pubblicata nel febbraio del 1988. Se non conoscete questo album, non aspettatevi nulla di ornettiano in senso stretto, non si tratta di un lavoro avant-garde o free jazz. Si evince la presenza di un eccellente compositore-esecutore in grado di presidiare ed esplorare con intelligenza un territorio simil-fusion che, nello stile della musica elettro-pop dell’epoca, usa spesso un efficace blast beat. Nel tratto centrale della title-track, «Virgin Beauty», Coleman entra in scena con il suo spettrale e distonico violino tipico di alcune formazioni jazz-rock dell’epoca. Mentre le chitarre investono il fruitore con un flusso benevolo, Ornette distilla al sax una melodia ideale per la colonna sonora di un film che narra dell’incontro con un’ipotetica femme fatale in un’uggiosa notte di nebbia.

«Singing In The Shower», fa pensare al trionfale intro di uno show televisivo. «Chanting», componimento lirico e riflessivo, avrebbe potuto essere uno dei momenti più evocativi dell’intero costrutto sonoro, ma è frenato da quello che sembra un ritmo metronomico piuttosto elementare e da un flemmatico sintetizzatore. «Bourgeois Boogie» ricorda un pezzo dei Talking Heads con alcuni brevi assoli di Coleman davvero incisivi, dove le chitarre si dilettano e si aggrovigliano delicatamente l’una con l’altra come fili che si incrociano in volo, senza mai trovare un giusta traiettoria, se non negli ultimi due minuti in cui imbroccano la giusta tonalità distillando una musicalità più onirica e avvolgente. Per contro «Happy Hour» suona come una festa in campagna dal sapore popolare, in cui Coleman fa riferimento a quella che sembra una vecchia marcetta dell’epoca della Guerra Civile, prima che il bassista riprenda il tema di Benny Hill. «Spelling The Alphabet», che ricorda alcune sonorità di «Fragile» degli Yes, è una veloce iniezione intramuscolare, fatta di groove e riff scattosi, quasi un intermezzo, più un jingle che una composizione vera e propria. «Unknown Artist» è un’elegia funebre a marcia ridotta, declamata su una limacciosa struttura blues, tipico costrutto ornettiano nel senso più free del termine, mentre alla mente del fruitore più esperto affluisce perfino qualche reminiscenza albertayleriana. Nel complesso parliamo di un album assemblato con clinica oculatezza e mestiere, sia pur discontinuo e implementato con materiali di riciclo tipici dei quello scorcio degli anni Ottanta, dove il concetto di jazz era un’ubbia, una sorta di preconcetto o di idea surrettizia, anche se, per paradosso, la Gramophone Jazz Good CD Guide considera «Virgin Beauty» uno dei pochi dischi consigliabili del contraltista texano. Eppure la storia di Ornette passa da tutt’altra parte.

Ornette Coleman

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *