// di Guido Michelone //
La recente uscita del volume Musicarelli. L’italia degli anni ’60 nei film musicali scritto a quattro mani dai giornalisti Marta Cagnola e Simone Fattori per le edizioni Vololibero rappresenta per la prima volta un tentativo serio e sistematico di analizzare un fenomeno di grandissima rilevanza popolare per un intero decennio, anche se da parte degli autori l’inizio vviene fatto risalire alla pellicola Lazzarella (1957) diretta da Carlo Ludovico Bragaglia con le canzoni di Domenico Modugno, Aurelio Fierro, Dolores Palumbo, mentre l’epigono spetta a Piange il telefono (1975) con la regia di Lucio De Caro e sempre con Modugno assieme alla piccola Francesca Guadagno. Tuttavia il libro prende in considerazione i lavori girati tra il 1959 e il 1970 con un picco di 17 uscite nel 1967, che è forse per l’intero Pianeta l’anno meno jazzistico nella storia della musica con il trionfo di beat, soul, psichedelia, r’n’b, british blues, post-beat, insomma il nuovo rock angloamericano che ha pure la propria versione yé-yé nel nostro Paese. È tuttavia interessante scoprire in che modo il jazz (e quanto di parajazzistico esiste a livello di cantanti, gruppi, solisti, orchestre) più o meno trapeli in questi filmetti da sempre considerati dozzinali, scontati, rozzi, prevedibili, creati solo per confermare il successo di un nuovo divismo musicale italiano in ambito canzonettistico, che, grazie soprattutto al disco a 45 giri e ai programmi Tv, raggiunge da un lato vendite oggi inimmaginabili dall’altro indici d’ascolto altrettanto clamorosi grazie a trasmissioni come Studio 10, Alta pressione, Canzonissima, Senza Rete, che servono altresì da modello per questa fiction un po’ sgangherata dove trame risibili aiutano solo a evidenziare i brani da promuovere o confermare.
Rita Pavone, Gianni Morandi e Little Tony sono i protagonisti assoluti dei musicarelli, seguiti da Mal, Mina, Peppino Di Capri, Albano, Bobby Solo e decine di cantanti maschi e femmine durati lo spazio di un mattino o che ‘hanno ballato una sola estate’ per citare un libro di Enzo Gentile sui tormentoni, dove il successo per molti resta davvero limitato a un unico singolo. Diverso è il caso di Adriano Celentano – forse il più jazzista di tutti i rocker tricolori, grazie al debutto su 33 giri con l’orchestra di Giulio Libano, lo stesso che arrangia due album di Chet Baker, in susseguirsi talvolta occasionale di solisti jazz del calibro di Paolo Tomelleri, Enrico Intra, Franco Cerri – non tanto perché il ‘Molleggiato’ compare su grande schermo nei panni di se stesso addirittura nel capolavoro La dolce vita (1959) di Federico Fellini, ma per il fatto che ha della Settima Arte un’idea molto autoriale che lo poterà a esordire presto alla regia con il giallo Super rapina a Milano (1964) per continuare con il surrealistico Yuppi du (1975), in mezzo a cui ci sono le interpretazioni per grandi maestri I malamondo di Paolo Cavara a Serafino di Pietro Germi, da Bianco, rosso e… di Alberto Lattuada a Le cinque giornate di Dario Argento, il quale s’avvale della colonna sonora di Giorgio Gaslini e della sceneggiatura del poeta neovanguardista Nanni Balestrini.
Celentano è altresì protagonista assieme ai vocalist ‘urlatori’ Tony Dallara, Betty Curis, Gianni Meccia I campioni del primo vero musicarello, I ragazzi del juke-box (1959) di Lucio Fulci, dove il cantante/ballerino un po’ Elvis, un po’ Jerry Lewis viene accompagnato dalla Modern Jazz Gang, dove via via militeranno Amedeo Tommasi, Enzo Scoppa, Maurizio Majorana, Puccio Sboto mentre nel film vi suona, tra i nomi famosi, il solo Umberto ‘Cicci’ Santucci, seguito probabilmente da Sergio Biseo, Sandro Brugnolini, Giancarlo Costa, Carlo Metallo, Roberto Podio (ovvero la stessa formazione che in quei mesi incide Miles Before And After). Ma ne I ragazzi del juke-box i riflettori sono puntati anche su Fred Buscaglione, il quale morirà in un incidente automobilistico dopo qualche mese: il 1959 è per lui l’anno di grazia con altre sette film in cui appare (oltre i due postimi datati 1960): va ricordato che egli inizia come violinista jazz e che le canzoni da lui composte assieme al paroliere Leo Chosso e interpretate con gli Asternovas hanno comunque un deciso imprinting jazzy, spesso parodistico, mentre nelle ballate prevale il romanticismo da crooner. Insomma – musicarelli o no – Buscaglione resta un unicum in Italia (ascoltabile anche nel noir umoristico Noi duri) soprattutto nella mescolanza tra dixieland, swing, bebop. In quegli iniziali Sixties da boom economico, oltre gli urlatori, in Italia ci sono appunto i crooner (o cantanti confidenziali) affascinati dallo stile alla Frank Sinatra o alla Nat King Cole che dalle cover si adeguano o quasi subito al repertorio leggero italico: si tratta di Teddy Reno, Jimmy Fontana, Johnny Dorelli e altri minori che s’intravedono ovviamente in qualche musicarello, mentre la sensuale Jula De Palma, presente nel film Sanremo la grande sfida (1960) di Pietro Vivarelli sarà l’unica a non scostarsi mai dal jazz, salvo un precoce ritiro dalle scene.
Il sequel de I ragazzi del juke-box è sicuramente Urlatori alla sbarra (1960) – stesso regista, cast più o meno identico – con qualche aggiunta significativa di alcuni musicisti come il quintetto I Brutos, divenuto in breve campione di comicità demenziale, ma in realtà esordiente come un ottimo gruppo doo-wop: oltre il solito Celentano (che in una scena memorabile accende un cero al santino di Louis Armstrong) compare nel ruolo di pianista Umberto Bindi – primo cantautore della scuola genovese – che ha da poco scritto la masterpiece Arrivederci qui interpretata nei titoli di coda dal cantante/trombettista Chet Baker, sola icona del jazz americano ad apparire in un musicarello (anche se come trumpet man collaborerà alle colonne sonore scritte per altri lungometraggi italiani); e nell’elenco dei partecipanti al film Modern Jazz gang diventa La Moderna Jazz Gang (ma ancora una volta non vengono indicati i componenti). Detto questo per meno di un lustro il musicarello è ‘artisticamente’ orientato verso lo stile ‘urlato’ (compreso e compresso fra tradizione italiana e rock and roll) con scarse attenzioni a fenomeni come i cabarettisti e i cantautori, molti dei quali esordienti, in precedenza, proprio con il rock. Forse una disamina più approfondita troverebbe anche qualche accenno jazzato, prima che, con l’affermarsi dei giovanissimi con uno stile twist e poi yé-yé (Morandi e la Pavone in primis), il musicarello si orienti a giostrare attorno ai successi individuali, sino a far coincidere il titolo del film con quello del brano da hit parade: ad esempio dal primo Una lacrima sul viso (1964) all’ultimo Lady Barbara (1970) passando per In ginocchio da te, Non sono degno di te, Cuore matto, Nel sole, L’immensità, Zingara, Zum zum zum o Stasera mi butto (1967) dall’omonimo singolo di Rocky Roberts, afroamericano che, nella lingua di Dante, offre focosi soul e r’n’b, seguendo la moda del momento, così come un Tony Renis protagonista di Appuntamento in riviera (1962) è reduce dall’exploit festivaliero con la bossanova di Quando quando quando.
Non resta molto da dire sui rapporti fra jazz e musicarelli se non confermare che di jazz se ne sente poco, benché vengano coinvolti autentici jazzmen per fare altra musica in almeno quattro fiction oggi dimenticate (ma che il libro riporta puntigliosamente): così è anzitutto in Questi pazzi pazzi italiani (1965) di Tullio Piacentini dove si esibiscono Nini Rosso, I Flyppers, Enzo Jannacci (swingante L’Armando), l’inglese Petula Clark, l’afroamericano Henry Wright (dai trascorsi hot o cool). C’è poi La coppia più bella del mondo (1968) di Camillo Mastrocinque dove le ‘primedonne’ in un bel technicolor sono cantanti e complessi del 6° Cantagiro, che ha la big band di Gigi Cicherello quale supporto per tutti. Per concludere, in altri tre film vanno riconosciuti altrettanti futuri protagonisti del nuovo jazz degli anni Settanta: in Viale della canzone (1965) di Tullio Piacentini si esibiscono I Quattro di Lucca, che altri non sono che il jazzistico Quartetto di Lucca con Giovanni Tommasi al basso e al canto in un pezzo beat, lontanissimo dal raffinato bop-cool jazz di qualche anno prima, ma forse premonitore della svolta rockjazz avvenuta con la fondazione, sei-sette anni dopo, del quintetto Perigeo; in Quelli belli siamo noi (1970) di Gianni Mariuzzo viene balla a shake una samba proposta da Johnny Sax, alias Gianni Bedori l’impegnato tenorista e braccio destro del quartetto di Giorgio Gaslini. Infine in Terzo canale. Avventura a Montercarlo (1970) di Giulio Paradisi, accanto a Four Kents, Mal & Primitives, New Trolls, Sheila, Ricchi e Poveri ruba la scena The Trip un quartetto angloitaliano alla Jimi Hendrix (dalla formazione cangiante, con strumenti poi dediti alla fusion) immortalato in gustose inquadrature psichedeliche: una parodia, quasi una Woodstock de’ noantri.