// di Francesco Cataldo Verrina //
Antefatto: In un’intervista rilasciata a Stuart Nicholson nel 2009, Jarrett spiegò la genesi di «The Survivors’ Suite», album realizzato con il cosiddetto quartetto americano: «Tutta la musica fu scritta appositamente per l’Avery Fisher Hall di New York, perché sapevo che avremmo suonato lì, di fronte a Monk. Infatti il quartetto si esibì in quella sede il 3 luglio 1975 in un cartellone condiviso con gli Oregon e il quartetto di Thelonious Monk. Sapevo che suonando all’Avery Fisher Hall il suono sul palco sarebbe stato dispersivo e non adatto ai tempi veloci, così decisi di scrivere qualcosa di più adatto per quella serata ed a quel tipo di acustica. C’era una logica in tutto questo, ma se dovessero dirmi: lei, signor Jarrett, concepirebbe davvero l’idea di scrivere un tipo di musica per una specifica sala da concerto? Probabilmente risponderei: no! Ma la risposta sta nel fatto che sapevo che la sala era molto scarsa per certi tipi di performance e, se ascoltate attentamente «The Survivor’s Suite», noterete che non ci sono tempi veloci». Un mese dopo, il gruppo registrò un altro album per la ECM, ma questa volta fu un’esperienza completamente diversa, caratterizzata dal ritardo di Dewey Redman. Il sassofonista, spesso in preda ai l fumi dell’alcool, arrivava sempre in ritardo alle prove, e lo fece anche durante quella registrazione dal vivo. Jarrett raccontò di una serata piena di colpi di scena: «La lunga introduzione di pianoforte su «Eyes of the Heart» non doveva esserci. Ho dovuto continuare a suonare perché uno dei ragazzi non era sul palco quando avrebbe dovuto!». Tutto ciò a dimostrazione della genialità del pianista che era in grado di comporre in tempo reale, in relazione all’ambiente, alla situazione e alle circostanze.
«Eyes Of The Heart», pur interessante nella sua complessità sonora, è il frutto non solo di tensioni musicali, ma anche di tensioni personali tra i membri del gruppo, il cui affiatamento era andato progressivamente peggiorando a partire dai loro ultimi tre album, e secondo alcuni, iniziando ad avere un impatto negativo sulla musica. In verità, l’album presenta alcune anomalie, come il fatto di essere originariamente pubblicato come un set di due LP con sole tre facciate incise ed una completamente vuota. È probabile che buona parte del materiale registrato non fosse stata ritenuta tecnicamente all’altezza per poter completare il quarto lato. Si consideri che il tempo complessivo della musica sulle tre facciate è di soli 41 minuti, inferiore alla durata minima di qualsiasi concerto. Questo lasciò intuire che una parte fosse stata scartata dalla ECM, che non la riteneva qualitativamente adatta al proprio standard sonoro. Soprattutto si preferì spalmare i tre lunghi brani su tre facciate per garantire un migliore fedeltà d’ascolto. Con l’arrivo del CD la faccenda passò in cavalleria. Pubblicato nel 1979, «Eyes Of The Heart» fu registrato dal vivo nel maggio del 1976 a Bregenz in Austria, presso il Theater Am Kornmarkt, nel classico line-up americano con Keith Jarrett (che oltre al piano suona anche il sax soprano), Dewey Redman al sax tenore, il bassista Charlie Haden e il batterista Paul Motian. L’attività del quartetto americano è al rush finale: aveva da poco registrato «Survivors’ Suite», praticamente un mese prima e in ottobre sarebbero tornato in studio un’ultima volta per gli album «Byablue» e «Bop-Be». Che quel giorno in Austria ci fossero dei dissapori e delle frizioni fra i vari componenti del gruppo è dimostrato da fatto che Dewey Redman arrivò solo a 2/3 della seconda traccia.
La storia ufficiale, raccontata da Jarrett in una sua biografia, è che il sassofonista stesse bevendo vino fuori dal palco e che fosse visibilmente alterato. Prima che Dewey Redman entri in scena, Jarrett dilata i tempi, suonando il piano quasi da solista, mentre lo svolgimento appare più ripetitivo e meno interessante perfino rispetto ai noti concerti in solitaria di quel periodo, soprattutto il Nostro cerca di compensare con un lungo assolo di soprano nella parte iniziale. L’assenza di Redman, con il suo melodismo oscuro e burbero, rende più asfittico lo stile di Jarrett solitamente più lirico e scorrevole. Nei primi 25 minuti, nonostante lo sforzo del leader, perfino Motian e Haden sembrano vacillare, risultando un po’ letargici. Con l’ingresso di Redman, a circa dieci minuti dall’inizio della seconda traccia, la musica decolla notevolmente. Il movimento dilatorio, che Jarrett aveva sviluppato in precedenza, s’infittisce di colpo intensificandosi, mentre Haden e Motian si svegliano improvvisamente. Redman si produce in un assolo ruvido e intenso. «Encore» della durata di 18 minuti, il momento migliore e più completo dell’album, collocato sulla terza facciata (quella orfana), inizia con le movenze di un calypso ed il sassofonista accenna brevemente a qualcosa che richiama «St. Thomas» di Rollins, seguito da un breve assolo di batteria da parte di Motian, quindi Jarrett con il soprano crea un breve atmosfera alla Ornette, incalzato ancora dal tenore di Redman, infine un’improvvisazione per pianoforte di Jarrett. Gli intoppi iniziali non tolgono molto al valore complessivo dell’album, ogni registrazione di questa formazione (probabilmente il miglior team di lavoro di Jarrett) merita una prova d’appello: il suono è sempre ben caratterizzato, mai prevedibile e ricco d’inventiva. Nel complesso, questo è uno dei dischi più gracili del quartetto americano, se confrontato con il robusto «Fort Yawuh», registrato tre anni prima al Village Vanguard, quando l’ensemble era al top della vigoria creativa ed esecutiva. Ciononostante in «Eyes Of The Heart» ci sono molti lampi di genio, sia pure occasionali, tanto che per gran parte del concerto, non si capisce se oltre a Jarrett il resto della band sia sul palco, ma quando compaiono, Charlie Haden si mostra ancora al top della forma, Dewey Redman suona con una voce lamentosa ed impenna sul registro più alto dello strumento, tanto da richiamare l’idea di Jan Garbarek e Jarrett insieme. Forse un vaticinio involontario.
Come già detto, c’era tensione (non solo musicale) tra i membri del gruppo, Redman non compare nella prima traccia, tanto da costringere Jarrett e Haden ad estendere quella che doveva essere una semplice introduzione ed a trasformarla in una suite di 17 minuti, ma quando Redman decide finalmente di unirsi alla ciurma, entra con un tocco preciso, simile a quello di artista che infligge colpi decisivi di pennello ad una tela ancora grezza ed indefinita. La tensione sale velocemente e l’improvvisazione di gruppo raggiunge il climax. Questi sei minuti, consegnati alla storia, valgono l’intero prezzo della corsa.