Valerio Corzani, world music e jazz

di Guido Michelone
D Valerio, i tuoi primissimi ricordi della musica da bambino?
R Sono cresciuto nella Romagna degli anni Settanta: dunque grandi scorpacciate di valzer, polke, tanghi, mazurche e poi i viaggi in macchina, nella Fiat 500 di mio padre, con le cassette infarcite di grandi successi, tipo Jesahel dei Delirium e Stasera che sera dei Matia Bazar.
D E il tuo primo ricordo della jazz music in assoluto?
R Arrivo, come dicevo, da un piccolo paesello dell’Alta Romagna, San Piero in Bagno. Concerti jazz all’epoca, pochi da quelle parti. Mi ricordo però – avrò avuto dodici anni – una serata dell’Orchestra di Henghel Gualdi, il quale essendo un valentissimo clarinettista con una formazione dixieland e swing molto spiccata, si concedeva il lusso di inserire nella scaletta di liscio anche versioni personalizzate di Pensilvania 6500, Stompin at The Savoy e Moonglow. Era un jazz molto anestetizzato, votato sempre e comunque al ballo (che era peraltro la matrice anche della versione originale di quei brani) e comunque Gualdi si riservava in questi casi ampi spazi improvvisativi, vere e proprie maratone clarinettistiche, che mi colpirono molto. Sono state queste “licenze premio” inaugurate perlopiù da esperti capi orchestra che avevano educato il proprio pubblico a qualche eccezione alla dittatura del valzer, a farmi sentire per la prima volta il profumo delle ritmiche swing e delle svisate di matrice afroamericana.
D Come definiresti la tua attività? Musicista, critico, studioso, fotografo, organizzatore o tutto insieme o altro ancora?
R Ho sessant’anni, ma ancora lo zaino pieno di suoni, storie, strumenti, mappe, progetti che forse non riuscirò a realizzare, ma che ho comunque sognato e quindi è già come se li avessi realizzati. Sono sempre stato un globetrotter, eppure mi mancano ancora tanti posti da conoscere e attraversare. Non sogno quasi mai cose da comprare. Sogno sempre latitudini e anemometri, come quello raffigurato nella copertina dell’ultimo album di Interiors, il progetto elettroacustico che condivido con Erica Scherl. Ho scattato quella foto a Barcellona mirando con lo zoom un misuratore della velocità del vento, piazzato sulla costa nell’area dove si celebra il Festival Primavera Sound. Mi sembra uno strumento bellissimo, l’anemometro. Metafora del nomadismo e dell’inquietudine interiore. Di certo se mi guardo indietro apprezzo la cocciutaggine con cui ho disdegnato i consigli di chi, a inizio carriera, mi raccomandava di abbracciare un solo campo, una sola pratica. Fare “solo” la radio, solo il giornalista della carta stampata (e anzi solo il critico jazz senza occuparmi di rock), solo il musicista, solo il fotografo, solo il conferenziere o il didatta… Poi sono arrivati gli anni Novanta, è esplosa Internet e tutti i puntini si sono collegati come in quei giochi della «Settimana Enigmistica. E fare tutto è diventata una qualità, un bonus, una chance in più».
D Possiamo parlare di te come di uno dei primi in Italia a occuparsi di World Music?
R Se intendiamo per World Music una sorta di “catalogo mondiale” della musica etnica entrata in contatto e “contaminatasi” con la musica occidentale – artisti che si richiamano alle proprie radici etniche, ma li mescolano in una sintesi innovativa con jazz, pop, rock, ovvero gli stili musicali più popolari nei Paesi del Nord del mondo – senz’altro sono stato uno dei primi in Italia a tuffarcisi a capofitto, ma ho fatto in tempo ad avere dei maestri e degli esempi virtuosi da seguire. Gianfranco Salvatore innanzitutto, oggi docente di Etnomusicologia e di Storia del Jazz e della Popular Music presso l’Università del Salento, nonché autore di saggi tanto densi quanto ispirati. Ai tempi in cui cominciai a collaborare a quella meravigliosa rivista che era «Fare Musica», Gianfranco mi prese sotto la sua ala e mi insegnò forma e sostanza di un metodo critico. Il primo ciclo in assoluto che ho fatto per la RAI, me lo commissionò invece un grande maestro come Adriano Mazzoletti che mi chiamò a Roma dopo avermi notato in un workshop che teneva a “Barga Jazz”.
D E di cosa si trattava?
R Si trattava di una serie di trasmissioni dedicate a “Gli strumenti inconsueti del jazz moderno” dunque musicisti jazz che armeggiavano zampogne, duduk, scacciapensieri, didjeridoo, hardingfele, cajon… era il 1986. Furono anni temprati anche dagli ascolti di RAI Stereonotte (in particolare delle sezioni notturne gestite dal mio amico Marco Boccitto) e di letture di colleghi illuminati come David Toop, Patrick Labesse, Franco Fabbri… Sono tutti personaggi che mi hanno trasmesso la voglia di contemplare un diverso metodo critico e ribaltare i concetti di complessità: ovvero una bella chiave per dare un senso positivo a un termine vago e depistante come “world music”. Se la conoscenza sempre più sincronizzata del vasto recinto delle tradizioni etniche del globo è servita a far sentire di tanto in tanto “esotici” anche noi; se il nodo intricato della musica dei Tamburi del Burundi ci ha reso consapevoli dell’interpretazione un po’ banale che tantissimi compositori classici occidentali (anche quelli più geniali) hanno dato del concetto di “ritmo”; se il profondissimo pozzo armonico di un raga indiano ci ha suggerito qualche riflessione dubitativa sulle tanto celebrate fantasie creative dei compositori europei. Se tutto questo è capitato grazie a un ascolto in più, ad un viaggio in più, a una radio su Internet o a una piccola falda di curiosità discografica… allora ben venga la “world music”. È una definizione molto generica di un mondo sonoro inestimabile, cela un tesoro e rischia di svenderlo per troppa approssimazione dell’insegna. Ma ha aperto delle porte, ha spolverato archivi e svelato mondi sonori. Ora sta all’intelligenza degli astanti, non prendere fischi per fiaschi e non rimettersi in posa censoria.
D In un’intervista Lester Bowie dell’Art Ensemble of Chicago definì la jazz music come la prima forma di world music in senso storico: condividi, Valerio?
R Sostanzialmente è un parere che sottoscrivo, soprattutto se penso alla porosità di un genere come il jazz, alla sua matrice coagulante, all’attitudine primigenia di mettere insieme tanti stili per codificarne uno nuovo. Certo poi a partire degli anni Ottanta del secolo scorso questa stessa definizione – World Music – ha trovato un’insegna controversa grazie all’impegno produttivo di alcune case discografiche occidentali (con la Real World di Peter Gabriel a far da apripista e la Luaka Bop di David Byrne a seguire a ruota). Un’insegna controversa si diceva, eppure di grande successo. Un termine che ha festeggiato di slancio il quarto di secolo e ora punta al mezzo secolo senza farsi silenziare da definizioni sostitutive come “Global Music”, che non sembrano usufruire dellastessa cassa di risonanza.
D Ma che Storia (con la S maiuscola) ha la World Music (la scrivo anch’io qui in maiuscolo)?
R Prima degli anni Ottanta del secolo scorso non c’era l’abitudine di guardare alle musiche del mondo attraverso categorie omnicomprensive, ma si faceva piuttosto riferimento alla zona geografica d’origine o a definizioni di genere. Si parlava di musica africana tout court ad esempio, oppure ci si rifugiava in un termine, il folk, che però a un certo punto non riusciva più a racchiudere certi tipi di crossover tra folk diversi, tra folk e popoular music, tra folk e minimal music. Così si è passati al termine World Music e i negozianti della fine degli anni Ottanta hanno finalmente trovato un posto dove allestire le scaffalature per tutte le musiche etniche, contaminate e non, ammesso che questa definizione abbia un senso. Gli scaffali di album di world music facevano d’altra parte imbestialire i puristi…
D E perché tale ‘imbestialimento’ o arrabbiatura?
R I puristi non volevano Les Mistères des voix Bulgares accanto a Goran Bregovic, Ravi Shankar vicino a Nitin Shawney, non volevano i Chieftains nello stesso scomparto degli Afro Celt Sound System, Paul Simon accostato ai Ladismith Black Mambazo e forse non avrebbero voluto neppure le polifonie pigmee accanto a Fela Kuti. Ovvero non volevano confusione, volevano preservare l’autenticità. Salvo che i primi a confondere le acque, a sparigliare le graduatorie tra i generi si sono sempre dimostrati i musicisti e sono i musicisti che decidono dove va la musica, non i tromboni, non i puristi. Gente come John Coltrane, Tony Scott, Terry Ryley, Jon Hassell, Moondog, George Harrison, Brian Jones, Brian Eno avevano cominciato a sognarlo un mondo delle musiche, non più della musica. Peter Gabriel e David Byrne hanno inserito questo tipo di creatività nell’ingranaggio produttivo. Prima, durante e dopo sono arrivate le star riconosciute di altri emisferi: Miriam Makeba, Nusrat Fateh Ali Khan, Fela Kuti, Manu Dibango, Cheb Khaled, Caetano Veloso, Ravi Shankar, Astor Piazzolla, Cesaria Evora, Bob Marley. In tutto questo le similitudini con la nascita e lo sviluppo della matrice sonora afroamericana sono piuttosto evidenti, pur mantenendo anche una loro precipua peculiarità. Lester Bowie, sono sicuro, che pensasse al jazz come world music, seguendo lo stesso approccio alchemico di gente come Coltrane, Pharoah Sanders, Don Cherry, Gato Barbieri, ma penso anche che si riferisse ad artisti molto più indietro nel tempo, Duke Ellington in primis, che con il suo “jungle style” diede vita ad uno splendido esempio di world music ante litteram.
D Quanto c’è di jazz music (e di musica afroamericana: blues, gospel, soul, r’n’b, funk) nelle odierne forme di etno-music e world music nei vari continenti?
R Il jazz è diventato una grammatica. Come tale se ne ritrovano stilemi e codici ad ogni latitudine. Si tratta solo di distinguerne di volta in volta la quota percentuale, per poi decidere se si tratti di un’influenza marginale o di una prerogativa di connessioni che imporrebbe l’inglobamento di un certo genere, anche se sviluppato geograficamente agli antipodi, nella panoplia di sotto generi della matrice afroamericana.
D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata o con profonde radici etnico-popolari: ma esistono ancora la politica, le idee, le lotte, le utopie del sound delle nuovissime generazioni?
R Alle volte semplicemente fare musica, suonare, comporre, organizzare eventi, vuol dire schierarsi, rischiare, manifestare, militare. In Afghanistan e in Iran è così ad esempio. Le nuove generazioni troveranno il modo di obnubilarsi con la musica, ma anche quello di trasformarla in vettori di sentimenti di protesta, idee eversive, nuove tattiche sociali. La rivoluzione alle volte è “invisibile agli occhi”. Ci sono onde che restano carsiche per anni, alle volte per decenni e poi esplodono all’esterno come un gyser islandese…
D Come vivi il lavoro di scrittura e di radiofonia? Similitudini, differenze o altro ancora?
R Molte differenze e qualche affinità. Peraltro le differenze ci sono anche tra i vari tipi di scrittura (quella per un quotidiano e per un magazine specializzato ad esempio) e i vari ambiti radiofonici (il reportage, l’approfondimento, la rubrica breve, il podcast ad esempio). Ovviamente la radio mette in gioco anche il “suono” della voce ed è una variabile importantissima che può essere ulteriormente modulata con accorgimenti di tipo quasi attoriale. D’altra parte anche la scrittura ha un suo suono, un suo ritmo e una sua musicalità. Io penso che la mia scrittura e la mia attività radiofonica si possano riconoscere e mettere senza forzature sotto lo stesso ombrello. Credo che chi segue le mie attività, riconosca lo stesso DNA in ognuna. Credo di essere identificabile come Valerio Corzani sia alla fine di un articolo che di una delle mie dirette radio, ma anche, aggiungo, nella musica che suono o nelle foto che faccio.
D Com’è cambiato il ruolo della musica in Italia da quando te ne occupi, ossia grosso modo da quarant’anni?
R Certo è un mondo profondamente cambiato. Per certi versi un cambiamento irreversibile cui hanno dato il “la” le etichette discografiche degli anni Novanta, major in primis, che hanno accolto con una miopia misogina l’avvento del digitale. Il terrorismo commerciale con cui hanno accolto i nuovi formati ha finito per favorire la pirateria e innescare processi che non è più possibile calmierare. Mio nipote non comprerà mai un mp3, tantomeno un cd o un vinile, al massimo è disposto ad abbonarsi a una piattaforma, ma lo fa con dispetto, perché è nato in un mondo in cui la musica non si paga. D’altra parte molti ragazzi sono disposti a pagare cifre assurde per un live, anche per un live in playback. Siamo passati dal biglietto a prezzo politico, al biglietto extra lusso e al ticketing selvaggio. Mentre, ripeto, per ascoltare la musica da qualsiasi supporto, non si vuole più pagare nulla.
