…pur non essendo un disco votato all’antropofagia culturale e deviante del jazz contemporaneo, riesce ad attualizzare il passato rinnovando il passaporto al tipico linguaggio dei «maestri», viaggiando nel tempo e nello spazio senza difficoltà alcuna, ma soprattutto senza fare compromessi, dover pagare dazi o affrontare barriere doganali.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Non appena partono le prime note di «Inside», nuovo album di Venanzio Venditti, edito da Alfa Music, si ha come l’idea che il jazz italiano abbia ritrovato la via di casa. Non è una boutade o una forzatura sostenere che il critico musicale, sovente, si trovi stordito e spaesato all’interno di una «schizzofonia» sonora fatta di situazioni centrifughe, dilatorie ed aberranti, talvolta completamente avulse dall’idioma jazzistico: nello specifico, passo in rassegna almeno un migliaio di produzioni discografiche all’anno. L’impatto con il CD del sassofonista abruzzese mi concilia immediatamente con Euterpe, che non un discografico ma, nella mitologia greca, impersona la musa ispiratrice dei cantori e dei musici, nonché la protettrice degli strumenti a fiato: per volere degli Dei e degli uomini, il sassofono di Venanzio Venditti, capitano di lungo corso con un curriculum multistrato, di storie ne ha sciorinate… e quante ne sciorinerà.
Nelle liner notes il sassofonista si premura immediatamente di precisare: «Come se fosse la prefazione di un libro, altrettanto dovrei poter dire per questo nuovo Album, ma non so davvero come iniziare e con esattezza cosa dire, e forse non lo saprò mai». La risposta può essere rinvenuta nella tipologia di scelta interpretativa e compositiva operata da Venditti e compagni, in quel loro essere consapevoli di sfidare le forze del tempo, di attingere dal passato e di trovare una piena assonanza con il presente: «Le idee che motivano e spingono, al fine di realizzare progetti di questo genere, sono diverse, ma innanzitutto è il sentirsi fuori luogo, ed è meraviglioso (…) è meraviglioso sentirsi fuori luogo all’interno di una società che spesso è distratta e confusa, dove sovente la mediocrità è padrona». Di certo, ogni dubbio viene dissipato dall’opener di Cedar Walton, «Ojos de Rojo», dove tutto sembra essere giustapposto ed allineato per fissare le regole d’ingaggio di un progetto che lambisce il nucleo gravitazionale della tradizione dei giganti del passato, senza mai sprofondarci o restarci impantanato, poiché «Ojo de Rojo», pur rispettando il dettato costituzionale dell’hard bop, viene rigenerato e riportato in superficie con un’aura di contemporaneità vivida e palpabile. Perché come sostiene lo stesso Venanzio: «L’idea trainante rimane sempre la stessa e legata indissolubilmente all’affetto e alla grande ammirazione dei musicisti del passato, per la loro umanità, le loro accattivanti prospettive e per i loro superbi modelli stilistici». Ammirazione che, però, non viene tradotta sistematicamente in ricalco o manierismo imitativo, ma sfruttata come incentivo all’evoluzione dinamica dell’ispirazione, tanto che al terzo step arrivano i componimenti originali ed il gioco di squadra cambia obiettivo, pur senza mutare metrica e metodologia espressiva. Il passaggio è indolore ed avviene subito dopo lo sfogo tributaristico di «A Night In Tunisia» di Gillespie – ben ricontestualizzata a sua immagine e somiglianza – in cui il sassofonista sembra dire: «Non potrà mai esistere nell’arte una vera e consapevole «modernità» senza la conoscenza della tradizione». A questo punto emerge tutta la tempra compositiva ed espressiva dei cinque sodali: oltre a Venanzio Venditti al sax tenore, Francesco Lento tromba, Roberto Tarenzi piano, Francesco Puglisi contrabbasso e Marco Valeri batteria.
Un sorta di fil rouge sembra legare idealmente il passato ed il presente, tra cool, bop e post-bop trasformando tale legame di sangue nel più adattivo e moderno jazz mainstream, facilmente metabolizzabile ed a presa rapida. Perfino la nona traccia «Seven Steps To Heaven», uno arcinoto standard di Miles Davis, riceve un accurato trattamento di bellezza ed un nuovo anelito di gioventù, poiché rispetto all’illustre precedente sono mutate le terapie d’urto e l’interattività tra gli strumentisti che, in tale circostanza, risultano meno stazionarie, intercambiabili e non sempre centrate sulla figura del band-leder. Le ponderate parole di Venditti, fungono solo da disclaimer: «In questo Album si racchiude e spero si percepisca quella meravigliosa e ostinata idea, con tre composizioni classiche del jazz e con altre composizioni originali, ma intimamente caratterizzate da tali modelli stilistici». Giunti così al capitolo tre del racconto, «Risonanza (MRI Magnetic Resonance Imaging)» con i suoi quasi otto minuti di esplorazione sonora diventa un collettore e uno stacco al contempo, ma non un distacco, mentre Venditti rispolvera tutta la sua arte di perfetto balladeer richiamando al proscenio celebri figure del passato quali paradigmi ispirativi, ma soprattutto condividendo una lezione di stile, dalle nuances vagamente cool, con la tromba di Francesco Lento. «Bardo Thodol» è un perfetto esempio di hard bop post-moderno, in cui il line-up opera in maniera sinergica, consentendo ai fiati di prima linee fughe improvvisative calibrate, mentre l’arcuato zampillare del pianoforte funge da collante e da rampa di lancio per il sax e la tromba. «Chick», presumibilmente Corea, è un veloce post-bop declinato fra linee fluenti e progressive, dove la trama tematica sembra dipanarsi all’infinito. «The Last Coffee», presente in una variazione sul tema anche come bonus-track, ha le sembianze di un hard bop dalla melodia immediatamente spendibile ed avvolta una fine confezione di latin-tinge. «Burn» è un bop facilmente infiammabile, caratterizzato da rapidi cambi di tempo e di mood, quasi sezionato in più parti, in cui il pianoforte fa da intercalare ai due fiati, sostenuto dalla forza dirompente della retroguardia ritmica, con Puglisi e Valeri sempre allo stato di veglia, i quali innescano le veloci divagazioni, quasi a schema libero, di Venditti e Lento, a cui nell’atto conclusivo si accoda anche il pianoforte di Terenzi. «Something Else…» fa leva sulle medesime corde creative ed espressive, a metà strada fra Gillespie e Parker. A conti fatti, «Inside» del Venanzio Venditti Quintet, pur non essendo un disco votato antropofagia culturale e deviante del jazz contemporaneo, riesce ad attualizzare il passato rinnovando il passaporto al tipico linguaggio dei «maestri», viaggiando nel tempo e nello spazio senza difficoltà alcuna, ma soprattutto senza fare compromessi, dover pagare dazi o affrontare barriere doganali.