Intervista esclusiva a Dado Moroni. Il 28 luglio il pianista presenterà a La Spezia il suo nuovo progetto “Kind of Bill”
// di Guido Michelone //
Domenica 28 luglio per il 56° Festival Internazionale del jazz della Spezia che inizia il mercoledì precedente con Goran Bregovic, Mike Stern, Randy Brecker, Irene Grandi e concludersi con Paolo Fresu, Uri Caine, Russell Crowe ha come evento centrale Kind of Bill ovvero l’Omaggio a Bill Evans da parte dei due terzi della formazione originale: oltre la strepitosa ritmica di Eddie Gomez (contrabbasso) e Joe LaBarbera (batteria) a fare le veci del compianto pianista di Plainfield (1929-1980) c’è il genovese Dado Moroni, che ci parla di questa e mille altre esperienze solo per Doppio Jazz.
D Dado cosa presenterai di bello a La Spezia?
R È un progetto dedicato all’eredità musicale che ha lasciato Bill Evans con i musicisti che hanno suonato con lui ed hanno contribuito allo sviluppo del suo linguaggio per tanti anni come Eddie Gomez e Joe La Barbera alla batteria. Non è un tributo esattamente a Bill Evans ma un tributo all’eredità che lui ha lasciato. È da puntualizzare il fatto che ha sicuramente creato un linguaggio importantissimo ed è un’artista di primissimo piano nella storia del jazz e non solo, però non l’avrebbe fatto da solo, senza questi musicisti. Per cui è un po’ un tributo anche a loro. Tant’è vero che nei dischi dove Bill Evans non suona con i musicisti coi quali si esibisce abitualmente, suona in maniera leggermente diversa. Lui sceglieva i musicisti che gli permettessero di esprimersi al cento per cento, e di poter esprimere la sua creatività ed il suo linguaggio al cento per cento. Eddie Gomez e Joe La Barbera, ad esempio, sono due musicisti fondamentali nel contributo alla creazione di questo stile meraviglioso.
D Esibirsi in una mega rassegna e in un piccolo locale: ti sarà capitato tantissime volte?
R Suonare in un festival e suonare in un club sono due cose diverse. Nel club c’è più contatto col pubblico, ci si è più vicini. Si è anche pagati molto meno. Il festival ha un suo prestigio perché comunque raccoglie molta più gente, però c’è un certo distacco. Tu sei sul palco le persone sono un po’ distanti. I festival hanno spesso cartelloni importanti, dove hai l’occasione di esibirti prima o dopo personaggi che magari sono stati anche i tuoi idoli. C’è un tipo di emozione diversa. Io a dir la verità cerco sempre di suonare eh allo stesso modo, mettendo tutto me stesso. Il mio modo di suonare resta sempre quello. Cerco sempre di portare la mia spontaneità, quello credo che mi contraddistingua. Festival o Club, per me non fa differenza, diciamo che un festival ha un altro tipo di portata, nel club c’è una condizione più intima e forse puoi osare un po’ di più. Dipende anche dal tipo di libertà che riesci ad ottenere con te stesso e nella tua espressione. Sicuramente suonare al Festival della Spezia è molto emozionante, ricordo quando da piccolino andavo al Picco con mio papà a vedere i concerti. Ancora adesso lo ricordo con grande affetto.
D Adesso, però dicci: chi è veramente Dado Moroni?
R Chi sono io? Boh. Io sono un musicista spontaneo. Mi piace molto affondare le mie radici nella tradizione, tenendo conto di quello che sta succedendo nel momento e sperando che magari, qualche cosa che faccio possa restare nel futuro ed ispirare magari dei musicisti più giovani. Già vedo, lo dico senza presunzione, dei musicisti molto più giovani di me che usano delle cose, utilizzano dei sistemi e dei linguaggi che sento appartenermi. Mi lusinga questo perché significa che hai lasciato un segno. comunque, sono molto spontaneo, cerco sempre di suonare quello che mi piace, quello che ho voglia di suonare. Prima fai di tutto per farti conoscere, quando raggiungi una certa età le cose cambiano. Mi piace sempre misurarmi con sfide nuove, però so quello che mi piace suonare, so quello che mi piace sentire e quando suono e cerco sempre di esprimere questa cosa. Sul mio epitaffio vorrei fosse inciso questo “Persona onesta che ha sempre cercato di fare quello che si sentiva di fare nel rispetto delle altre persone e suonare la musica che aveva nel cuore”.
D Come definiresti la tua musica?
R Wow che domanda! Non lo so onestamente, forse quello che ho detto prima. La mia musica è molto ancorata al blues. Io sono nato col blues e non ho lascerò mai. Magari è un po’ mascherato a volte, però la matrice afroamericana è sempre presente nella mia musica. Quando ero piccolino sentivo quella roba che usciva dai dischi, che non sapevo cosa fosse ma mi provocava delle sensazioni diverse da altri tipi di musica. ho cercato di interiorizzare e conoscere la cultura che l’ha prodotta. Mi sono immerso nella cultura afroamericana andando in America.
D Ci sono nella tua abbondante discografia tre-quattro album di cui vai fiero?
R Sì, ma non so se metterei li metterei in una biblioteca. Beh, chiaramente i primi che ho fatto, per una questione affettiva. Il primo quando avevo sedici anni, con Tullio De Piscopo e Julius Farmer, prodotto da Tito Fontana e il secondo, in cui avevo quasi diciotto anni, sempre con Tullio e Franco Ambrosetti. Questi a livello affettivo, poi ci sono tanti altri che comunque mi hanno lasciato un ricordo molto bello. Sono un paio di dischi che ho fatto in piano solo nel 2009. Uno si chiama “Solo Dado”, ne sono orgoglioso perché l’ho fatto tutto io praticamente. A parte vabbè la produzione, però l’ho inciso io senza avere nessun tipo di limitazione, da solo in studio. Ho cominciato a registrare in maniera completamente spontanea, suonando per un paio d’ore. Sono molto contento di quello che è venuto fuori. Anche la copertina l’ho disegnata io. Praticamente tutto un disco ideato sul momento da me. L’altro disco è “The Cube” con Andrea Dulbecco, Tom Harrell e Stefano Bagnoli. È un disco che mi sta molto a cuore perché ha celebrato un rapporto di amicizia ventennale.
D Che generi di musiche ascolti? E quale ami maggiormente?
R Mi piace tutta la musica. Sicuramente tutta la musica jazz quando è suonata bene. Non esisterebbe Keith Jarrett se non ci fosse stato Teddy Wilson o Oscar Peterson. Non esisterebbe Bill Evans senza Sonny Clark ed altri. Secondo me una responsabilità è quella dell’insegnamento. Molti ragazzi studiano appunto questi metodi che partono da Miles Davis e John Coltrane, che io adoro, però sono arrivati dopo tanti altri che avrebbero il merito di averli influenzati. Nessuno nasce dal nulla. Io cerco da parte mia di portare avanti questo discorso e di ascoltare la tradizione e usarla.
D Cosa vogliono imparare i miei allievi da te?
R Boh, alcuni non mi conoscono neanche a dire la verità e non ho la presunzione di essere conosciuto. Spesso si iscrivono al Conservatorio e non hanno interesse a sapere chi insegna, vogliono prendersi il diploma. Non sanno chi io sia ma non conoscono nemmeno James Williams o Tommy Flanagan. Conoscono, come dicevamo prima, molto i contemporanei. Io cerco appunto, come dicevo prima, di fargli apprezzare delle cose, fargli scoprire delle cose che magari quello che loro pensano abbia inventato Mehldau o Jarrett, era già stato suonato durante gli anni quaranta, ripeto che parte tutto da là e cerco di insegnargli questo.
D Secondo te, i ragazzi hanno possibilità di fare jazz oggi o domani?
R Sì e no. Son venuti a mancare soprattutto dopo il periodo del Covid, molti posti dove magari i giovani si potevano incontrare e suonare, già ce n’erano pochi. Secondo me la loro chance è quella di andare fuori nel Nord Europa a partire dall’Olanda e poi proseguire verso la Scandinavia per un periodo, anche se è cambiata anche lì. Per noi era più facile perché c’erano tanti locali dove si poteva incontrare musicisti. Noi Liguri ad esempio andavamo al capolinea. Forse ci sono delle dei centri a Bologna, Roma o Torino dove può succedere ancora qualcosa. Ci vuole costanza e pazienza. Dovrebbero cambiare le cose in questo paese dove anche per una persona che ha la passione e qualche possibilità, aprire un locale che possa fungere un po’ da palestra per i ragazzi comporta delle spese incredibili e lo stato sicuramente non aiuta. Negli altri paesi come Belgio, Olanda, ci sono degli altri tipi di condizioni che permettono e favoriscono la creazione di posti di questo tipo.
D Da docente, pensi che esista un filo rosso che unisce tutto la storia del jazz dal primigenio ragtime alle ultimissime avavnguardie?
R La musica jazz ha determinate caratteristiche che sono armonia, ritmo, melodia e un certo tipo di colori che provengono dalla musica africana. Oggi non sento molto spesso quelle sonorità, quando vado a sentire i concerti sento più della roba con radici popolari europee. Bella musica per carità, non stiamo facendo un discorso di questo. La musica buona è buona qualsiasi essa sia. Però il jazz ha delle caratteristiche che lo rendono tale. E per me senza queste caratteristiche non si può usare questa parola. Per me non esiste jazz italiano o francese o tedesco, il jazz è il jazz. Ci i sono degli italiani che lo sanno suonare molto bene sì che ci siano dei francesi, dei tedeschi, dei portoghesi, degli spagnoli eccetera. Esiste quella cosa che ha determinate caratteristiche…
D Cosa distingue l’approccio degli afroamericani da noi europei?
R Penso che sia la chiesa. Il fatto di aver frequentato la chiesa ha un’influenza fondamentale. Se ascoltiamo Cedar Walton ad esempio o Herbie Hancock, senti proprio chiaramente l’influenza della chiesa. Adesso le cose sono un po’ cambiate, molti giovani non vanno più in chiesa; infatti, nella musica si sente questa cosa. Una volta c’era una differenza più netta nel linguaggio ed approccio fra un jazzista nero americano e un musicista bianco, non era una cosa negativa. Potevi definire i musicisti automaticamente, da quelli che provenivano da un background più anglosassone o ebraico. Era una cosa bellissima. Oggi i musicisti suonano tutti allo stesso modo più o meno. Perché nessuno va più in chiesa. Dal punto di vista del ritmo forse c’è ancora qualcosa di diverso, perché comunque il ritmo fa parte della cultura americana. Non solo nel jazz ma anche nel rock o nel funk. Io credo anche che la musica debba essere completamente apolitica nel senso che non esiste il fatto che un musicista che ha un una certa fede politica non suoni in certi posti.