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// di Gianluca Giorgi //

Amalie Dahl’s Dafnie, Står Op Med Solen (2024)

Questi ultimi anni stanno mostrando una nuova entusiasmante generazione di giovani talenti vicini al jazz, fra questi c’è Amalie Dahl. Dopo un diploma al prestigioso JazzDepartment dell’NTNU di Trondheim, conferitole nel 2021, la musicista norvegese ha intensificato l’attività pubblicando moltissimi dischi grazie alle tante collaborazioni incrociate che legano la scena scandinava. “Står Op Med Solen” (Rising with the sun) è il secondo album del quintetto di Amalie Dahl, pubblicato a due anni di distanza dall’esordio “Dafnie”. Ad accompagnare Amalie, che suona sassofoni ed elettronica, ci sono Oscar Andreas Haug alla tromba, Jørgen Bjelkerud al trombone, Nicolas Leirtrø al contrabbasso e Veslemøy Narvesen alle percussioni e alla batteria. Con questo album, la band continua l’esplorazione del loro “suono collettivo”. Si sentono le influenze sia del free jazz della vecchia scuola che del jazz scandinavo contemporaneo come Fire! Orchestra e Christian Wallumrød Ensemble, oltre a un chiaro legame con l’ambiente di Trondheim, dove il gruppo è stato fondato nel 2020. Una florida scena quella free jazz norvegese, che non preclude comunque al quintetto di Amalie la libertà di cercare sentieri poco battuti nella personale rivisitazione dei canoni jazz. Come dimostra il blues spaziale della seconda traccia in scaletta, “Eco-Echoes”, con tromba e trombone a rubare il palcoscenico alla padrona di casa. Ancora più sorprendente l’esuberanza di “Algorythm”, dove il contrabbasso comincia a disegnare un ostinato che sembra voler introdurre una surreale cover di “Kashmir” dei Led Zeppelin, tra un assolo fulminante della Dahl e il groove ultraterreno sostenuto dalla batteria di Narvesen. La voce della giovane sassofonista è calda, sicura e graffiante allo stesso tempo. Nelle sue corde vibrano i ritmi di Steve Coleman, la spiritualità di Coltrane e una freschezza tutta personale, mentre la band è come sempre energica ed espressiva ma questo disco mette in evidenza il loro lato più ricercato.

Organico Di Musica Creativa E Improvvisata O.M.C.I., Contro (1975)

O.M.C.I. è l’acronimo di “Organico di Musica Creativa e Improvvisata”, uno dei gruppi seminali per la musica creativa italiana degli anni Settanta. Il gruppo ruota attorno al multi-strumentista Renato Geremia, il quale suonava con la stessa competenza il violino, il sax tenore, il soprano, il flauto, il sax alto, il clarinetto ed il pianoforte, quando venne coinvolto nel progetto O.M.C.I da Guido Mazzon e Tony Rusconi. “Contro” è il loro primo album, un progetto che, nell’Italia degli anni ‘70, s’inserisce nel filone della musica creativa ed improvvisata. Uno stive molto vicina al free jazz, ma che va comunque oltre come dimostra il bellissimo brano, “Itinerari” (Frammenti Per Flauto, Violino, Piano, Contrabbasso e Percussioni), che occupa tutto il lato B. Componimento che da solo vale l’intero disco.

The John Betsch Society, Earth Blossom (1974 ristampa tiratura limitata 1000 copie 2015)

Ristampato per la prima volta uno dei capolavori dimenticati dello spiritual jazz degli anni ‘70. Realizzato a Nashville, capitale della musica country, è uno dei dischi più rari dei mitici album della Strata East. L’album è stato registrato alla Glaser Productions di Nashville l’11 gennaio del 1974 da John Betsch (batteria, percussioni), Billy Puett (flauti, sax alto, sax tenore, clarinetto basso), Bob Holmes (pianoforte, piano elettrico, percussioni), Ed ”Lump” Williams (basso elettrico), Jim Bridges (chitarra, percussioni) e Phil Royster (congas, percussioni); fissato su nastro in un giorno e in una sola ripresa e risente delle esperienze psichedeliche di quel periodo. Nei temi e nel modo di suonare dei musicisti si sente una forma di sonorità meno violenta del free jazz radicale di New York o Chicago. Questo è l’unico album del batterista John Betsch e fu curiosamente inciso a Nashville, pur non avendo niente in comune con la musica country per cui la città del Tennessee è famosa: ”Earth Blossom” è un lavoro che incrocia la fusion meno commerciale con il post bop fluente e dai toni spirituali esplorato anni prima da John Coltrane (periodo ”A love supreme” e ”Kulu Se Mama”) e Pharoah Sanders. Lontano dalle dissonanze del free jazz sperimentale della scena di Chicago, come dalle derive commerciali che la fusion cominciava a prendere, è un disco a suo modo ”post psichedelico” seppure molto più jazz che rock (anche se accostamenti con i Grateful Dead del periodo 1972/74, aperti alle suggestioni del jazz sperimentale, non sono del tutto fuori luogo), nel quale l’atmosfera sognante e carica di trasporto coltraniano ed il feeling collettivo sono più in rilievo rispetto alle singole performance degli strumentisti. La natura e i temi ambientali sono l’ispirazione di brani influenzati dallo spirito di Coltrane ma anche dal Flower Power e ovviamente dalle idee afro-centriche del movimento studentesco e politico della UMASS; infatti in quel periodo John Betsch frequentava il famoso corso di Archie Shepp e Max Roach all’Università del Massachusetts Amherst (UMASS). Dopo Amherst, nel 1976 John Betsch si unisce al gruppo di Marion Brown, lascia definitivamente il Tennessee e si stabilisce a New York per una decina d’anni. Suona e registra con Dollar Brand, Kalaparusha Maurice McIntyre e molti altri, prima di partire per la Francia dove vive ancora. A Parigi negli ultimi vent’anni ha suonato nei gruppi di Steve Lacy, Mal Waldron e Archie Shepp, oltre a formare gruppi propri. Disco veramente bello!

Chris Potter, Eagle’s Point (2lp LTD ed Marbled Blue 2024)

Chris Potter, uno dei più rinomati sassofonisti post-bop, ha dato di recente alla luce la sua ultima creatura, “Eagle’s Point”, un apporto eccezionale allo scarno panorama del jazz moderno. Potter si avvale di un super gruppo “i migliori fra i migliori”, eccellenti musicisti presenti da decenni sulla scena. Al fianco di Potter ci sono Brad Mehldau al piano, Brian Blade alla batteria e John Patitucci al basso. Il sassofonista ha riunito questi quattro luminari del jazz per eseguire otto composizioni originali scritte appositamente per l’album in oggetto. Ciascuno dei strumentisti mette a disposizioni i propri talenti per creare un album che trascende la somma delle sue parti. Le nuove composizioni di Potter mostrano ancora una volta la sua abilità come autore di melodie. Nel disco, che spazia dall’esuberante all’introspettivo, sono presenti persino accenni alla musica classica, con momenti di interazione virtuosa e groove contagiosi, sfumature romantiche e la profondità espressiva, oltre alla versatilità di Potter sia al clarinetto basso che al sassofono soprano. Da ogni traccia emerge il genio dei singoli che porta ad un lavoro collettivo, una confluenza di talenti senza pari. Tutti che portano qualcosa di diverso al tavolo da gioco; le performance virtuosistiche di Brad Mehldau sul pianoforte donano un’eloquenza ineguagliata, le intricate linee di basso di John Patitucci e la finezza ritmica di Brian Blade forniscono lo sfondo perfetto per la narrazione strumentale di Potter: un gruppo da sogno. Nel disco non c’è solo la validità della scrittura di Potter e della sua capacità di suonare il sassofono, ma troviamo la musicalità dei quattro, i quali portano molto più di una semplice abilità creando una flusso sonoro ricco di passione ed emozione. Durante l’ascolto di un disco, che mostra una tale competenza e controllo, pensi solo a sederti comodamente e goderti la musica, felice di andare ovunque i musicisti desiderino condurti. Ci si potrebbe chiedere perché i quattro sodali, che si conoscono dagli anni ’90, non abbiano mai registrato insieme prima: un vero incontro di genialità per un doppio album stellare da inserire nel firmamento del jazz.

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