«The Clarinet In Jazz» del Salvatore Assenza Quartet, un entusiasmante viaggio a ritroso fino alle radici del jazz

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Il mood è quello di un film in bianco e nero che attraversa la storia del jazz in un susseguirsi di suggestive immagini sonore che si colorano progressivamente, infittendo di cromatismi molteplici il modulo applicativo adoperato dal clarinettista ragusano e dai suoi compagni di viaggio.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nelle dinamiche del jazz contemporaneo il clarinetto è certamente uno strumento poco praticato, nonostante la sua gloriosa storia. Il ridotto utilizzo, soprattutto da parte delle giovani generazioni, almeno in ambito jazzistico, non ne inficia di certo il valore strumentale e le caratteristiche peculiari che, a livello di suggestioni, riportano «all’infanzia del jazz». Negli anni passati si è parlato molto di eccellenti clarinettisti come l’israeliano Anat Cohen, una forza dominante che ha portato il clarinetto a livelli di notorietà vincendo otto DownBeat Critics Polls consecutivi e un Rising Star Jazz Artist of the Year nel 2010, per non parlare dell’americano Todd Marcus nuovo profeta del clarinetto basso. Esistono, comunque, nelle varie epoche successive alla ruggente epopea swing, molti specialisti del clarinetto, i quali hanno assicurato allo strumento un futuro evitando di farlo retrocedere al rango di «legno» di seconda classe. L’album «The Clarinet In Jazz» del Salvatore Assenza Quartet ne è una dimostrazione inconfutabile. Il musicista siciliano è riuscito a distillare un album vivace e godibile sulla scorta di nove standard riproposti in chiave contemporanea, sia pure con il periscopio puntato verso la tradizione. Tutto ciò ci consente di ripercorre la storia e l’evoluzione del clarinetto, prima di addentrarci compiutamente nelle spire del disco.

Nato come invenzione tedesca all’inizio del XVIII secolo, il clarinetto ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo e nella storia del jazz primigenio, con il massimo impatto ed una maggiore visibilità agli albori della musica sincopata afro-americana, quando New Orleans ne era la capitale e, successivamente, durante l’era swing anni ’30 e ’40. Ad esempio, a metà degli anni ’20, i primi lavori di Sidney Bechet sul clarinetto e le sonorità di Johnny Dodds con gli Hot Fives di Louis Armstrong furono piuttosto influenti; cosi come, dalla metà alla fine degli anni ’30, i clarinettisti Artie Shaw, Benny Goodman e Woody Herman assunsero il ruolo di figure di spicco in ambito jazz sia come strumentisti che come band-leader. Alla fine degli anni ’40, con la rapida ascesa del bebop – con l’eccezione di alcuni superlativi clarinettisti come Buddy DeFranco – lo storico legno fu ampiamente messo da parte a favore del più giovane «cugino», il sassofono, che divenne presto il principale strumento a fiato del periodo, grazie alle prodezze di Charlie Parker et similia. Nonostante i tentativi di Goodman e Shaw di avvicinarsi al bebop e il continuo utilizzo dello strumento da parte di Duke Ellington, il clarinetto divenne una diversivo tra gli artisti d’avanguardia degli anni ’40 e ’50 e, negli anni ’60, quando il geniale Eric Dolphy si esibiva regolarmente al clarinetto basso e Jimmy Giuffre emergeva come un incompreso innovatore. Presto il clarinetto divenne uno strumento per specialisti, man mano che gli stili e le definizioni del jazz cominciarono a frammentarsi in hard bop, avanguardia, soul jazz e in una miriade di altri sottogeneri. Esiste certamente un continuum negli anni Settanta, momento in cui il clarinetto trovò qualche devoto seguace all’interno degli sperimentatori, tra cui Anthony Braxton, Alvin Batiste ed il cofondatore del World Saxophone Quartet, David Murray, il quale univa il clarinetto basso al sassofono tenore, sino ad arrivare al cubano Paquito D’Rivera, un gigante del Latin Jazz, al revivalista swing Ken Peplowski e più tardi, dagli anni Novanta in avanti, a Don Byron, artista capace di oltrepassare i confini dei generi e dei metalinguaggi sonori.

L’excursus sonoro preferito da Salvatore Assenza e dai suoi sodali, Rosario Di Leo al pianoforte, Carmelo Venuto al contrabbasso e Giuseppe Tringali alla batteria, fa riferimento ad un repertorio di standard che vanno dagli anni Venti agli anni Quaranta, toccando differenti moduli espressivi, ad eccezione di «Manha De Carnaval» di Louis Bonfà del 1959, ma il mood è quello di un film in bianco e nero che attraversa la storia del jazz pre-bellico e moderno in susseguirsi di suggestive immagini sonore e di ornamenti contrappuntistici che si colorano progressivamente, infittendo di cromatismi molteplici il modulo applicativo adoperato dal clarinettista ragusano e dai suoi compagni di cordata. Partendo da «Burgundy Street Blues» di George Lewis e «Basin’ Street Blues» di Spencer Williams, l’album è un entusiasmante viaggio a ritroso fino alle radici del jazz senza barriere doganali, limitanti vincoli stilistici e dazi da pagare sul piano creativo: il quartetto suona, talvolta con piglio imprevedibile, come un affiatata combo bebop, riproducendo l’atmosfera swing e leggendaria di una big band. Basta cogliere l’essenza di un evergreen come «Tea For Two» di Vincent Youmans e «Body And Soul» di Johnny Green, oppure riuscire a perdersi nelle spire melodiche di «All The Things You Are» di Jerome Kern. Il quartetto di Assenza va oltre sfidando la turbolenza del passaggio di consegne epocale e del cambio di passo del jazz, dal swing al bop, tributando un doppio omaggio a Bird, proprio a quel rivoluzionario sassofonista, genio e sregolatezza, incurante delle regole ritmiche tradizionali, del perbenismo sbiancante di un certo «jazz ammaestrato» ed in giacca e cravatta del decennio precedente, nonché delle convenzioni accordali che – come abbiamo ampiamente raccontato – negli anni Quaranta aveva decretato la fine della supremazia del clarinetto. «Billie’s Bounce» e «Donna Lee», cavalli di battaglia della scuderia parkeriana, vengono ricollocati in un’ambientazione che riesce a gettare un ponte fra passato e presente dal jazz. Al netto di ogni suggestione, «The Clarinet In Jazz» del Salvatore Assenza Quartet è un disco geneticamente jazz con una perfetta catena cromosomica creativa, a cui il clarinetto con la sua aura di nativa classicità apporta un tenue lirismo, una morbida polifonia ed un vibrante afflato melodico piacevolmente retrò, mai però fuori dal tempo.

Salvatore Assenza

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