Umbria Jazz 2024: al Morlacchi vige sempre il mito dell’anacoreta
// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
I programmi di un festival jazz devono avere un senso e non devono essere ideati solo per compiacere coloro che hanno idoli cui rendere tributo ogni anno. Mi pare che al Morlacchi facciano quanto di più trito e risaputo, oltretutto montato senza capo né coda, il mainstream declinato attraverso protagonisti sicuramente di qualità ma che occupano da decenni gli spazi, come se dopo di loro vi fosse stato il nulla. L’unico concerto che può rivelare qualche sorpresa è quello di Charles Lloyd, artista che sta completando un percorso spirituale di grande rilevanza estetica.
Rava da tempo gioca a fare l’icona di se stesso. Gli viene bene perché egli rimane l’unico musicista italiano ad avere dato un senso a un approccio riconoscibile e certamente molto “locale” o, più in generale, mediterraneo alla musica improvvisata. Non tanto come strumentista (le sue doti tecniche sono sempre state limitate), ma come aderente a un’estetica compositiva assai riconoscibile e interessante. Rava è sempre stato autore più interessante come tale che come musicista, ha saputo mettere adeguatamente in contatto le sue ridotte doti espressive con la sua creatività e originalità di compositore. Detto questo, ha tutto il diritto di atteggiarsi a icona perché non ha avuto concorrenti e ancora meno successori e discepoli di pari intelligenza. Ascoltarlo oggi è però imbarazzante, non ha nulla da dire soprattutto perché non ha il fiato e la tecnica per potere dire qualcosa che non sia un flebile balbettare che un pubblico inconsapevole prende per espressione poetica. Vi è un momento in cui bisognerebbe saper lasciare il palcoscenico, piuttosto che fare l’anacoreta polveroso che ogni tanto infrange la Regola per incontrare i suoi fedeli. Rimane vero che nessun musicista italiano dopo di lui ha avuto un minimo di significato e ha rivestito un minimo di interesse.
Il resto del programma è semplicemente una scommessa sul dejá écouté: i fan saranno contenti di poter vedere i beniamini riconoscibili ancorché evanescenti, anche se tutto questo non fa fare un passo in più allo sviluppo di una manifestazione che ha sempre avuto una parte museale su cui giocare e da dedicare al mainstream più curato. Certo, trattasi in parte di ottimi musicisti, non ce n’è uno, compreso Rosenwinkel, che non abbia già detto tutto quello che aveva da dire e in modo più fresco e spontaneo. Barron sicuramente è un monumento (personalmente l’ho amato come sideman, come leader alquanto di meno, essendo molto acuto e sofisticato ma non altrettanto interessante), Rosenwinkel è eccellente anche come autore, talvolta piuttosto ondivago. Fare accelerare il polso a chi ascolta credo sia altra impresa. Non ho niente contro la musealità, ma resta un programmino banale, mediocre e raffazzonato, messo su un po’ furbescamente per i soliti Happy Few. Riempire il teatro è cosa che i direttori artistici di valore o di capacità (e in Italia sono pochi) sanno fare anche con artisti meno conosciuti e più liberamente creativi, altrimenti per fare il mestiere basterebbe conoscere qualche agenzia e farsi servire i loro piatti pronti. L’idea che il pubblico venga solo se attirato con il formaggio per topi è tipico di chi non vuole faticare a tirare su in proprio pubblico, ma vuole una kermesse da dare in pasto a chi capita. La differenza fra un 5 stelle di rango e la sfilza di 4 stelle più o meno ristrutturati.
D’altronde, non si può cavare il sangue dalle rape e ancora vige nel beato pubblico del jazz l’idea che il musicista abbia sempre qualcosa da dire persino quando non si regge in piedi. Le leggende, i Grandi Vecchi, i monumenti: ciarpame che fa parte di un fiorente business da RSA che le agenzie musicali coltivano meglio di Taffo.