…un controllo mercuriale degli strumenti, un sinergico flusso improvvisativo e un dinamismo di interscambio fra i sodali divincolato, mentre la struttura sonora si dispone come un’attrattiva tela dai cromatismi impressionistici.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Sembra ripetitivo sottolinearlo – l’abbiamo fatto più volte – ma la pandemia è stato un periodo di eccellente fermentazione creativa, per quanto paralizzante dal punto di vista delle esibizioni live. Molti artisti, durante quei lunghi mesi di oscurantismo sociale e relazionale si sono ripiegati su se stessi, scavando all’interno del proprio vissuto, fino a giungere al subconscio, quale contenitore di incubi, sogni, speranza ed emozioni. Tutte le opere giunte sul mercato dopo il periodo pandemico, a partire dal 2022, risentono molto di una sorta di ricerca interiore che favorito a dismisura i demoni generativi di tanti jazzisti. L’album «Sete» dell’Antonio Fusco Trio, non sfugge a tale catalogazione. Fermo restando, che ognuno abbia fatto riaffiorare in superficie una sensibilità del tutto personale ed esperienziale. Nel caso del batterista avellinese, la composizione risulta essere stata un valido medicamento per lo spirito e per il corpo esprimendo, al contempo, leggerezza, armonia, inquietudine, pathos e bellezza, soprattutto evidenzia la capacità di aver saputo strutturare un vocabolario sonoro alla portata dei propri mezzi strumentali, nonché dei due sidemen con cui Fusco condivide il proscenio: Manuel Magrini al piano e Ferdinando Romano al contrabbasso.

Le sette composizioni proposte nell’album, di cui una sola è prelevata dallo scrigno dell’AmericanSongBook, pongono il fruitore al cospetto del classico piano trio che legge e rimodula la sintassi jazzistica nella maniera più fluida e diretta, avvolgendola nella sua sorgiva circolarità, tra melodie invitanti e lievi eruzioni ritmico-armonico, peculiarizzate da un controllo mercuriale degli strumenti, un sinergico flusso improvvisativo e un dinamismo di interscambio divincolato, mentre la struttura sonora si dispone come un’attrattiva tela dai cromatismi impressionistici. Nonostante il materiale eseguito durante la sessione sia stato concepito in un periodo oscuro, emette una tenue, rilassante e piacevole luce che illumina il cammino espressivo dei tre sodali, alla medesima stregua di una rifioritura primaverile, senza mai cadere nella trappola dell’ovvietà. L’iniziale «Wave» si solleva lentamente in un carezzevole e delicato crescendo pianistico, come un’onda che s’inerpica dopo avere camminato per lungo tempo a fil d’acqua. «Quarantine», nonostante il nome e l’esplicito riferimento alla pandemia, emana una pacata compostezza e raggiunge un arioso approdo melodico, a cui la batteria, con la complicità del contrabbasso, fa da indicatore di marcia. Specie nella seconda parte, Fusco mette in movimento il suo kit abilitandone le tante sfumature timbriche ed espressive, mentre l’interazione fra le parti in causa diventa perfettamente circolare. In realtà, pur essendo Fusco il titolare dell’impresa il rapporto con Manuel Magrini al piano e Ferdinando Romano al contrabbasso è assolutamente paritetico, dialogante ed, in alcuni tratti, si assiste ad una sorta di simbiosi mutualistica. Ciò accade principalmente quando il band-leader è un batterista, predisposto ad offrire «più volentieri» un pezzo di gloria al pianista, che in un trio è deputato all’enunciazione e allo sviluppo melodico-armonico dei contenuti, nondimeno al bassista che s’incarica di abbellire e sostenere dalle retrovie l’impianto tematico, basta ascoltare «Pilgrim», componimento dall’andamento quasi rotolante, in cui i suoi assoli raggiungono costantemente un levato tasso melodico, mentre la batteria picchietta a martelletto come il pianoforte quasi che i due volessero inchiodare il tappeto sonoro nelle meningi del fruitore.

In fondo, come accadeva nel classico trio di Bill Evans con Scott Lafaro e Paul Motion, nessuno è regista, nessuno è primadonna, ma ognuno propone e dispone, chiunque suggerisce e recepisce le altrui istanze: l’influenza di Motian sul batterista campano è piuttosto evidente, mentre la sua forma mentis non si discosta molto dai concept evansiani. In «Sete» i tre compagni di viaggio agiscono ad orologeria su una struttura ariosa e larghe maglie, che privilegia la «cantabilità», mettendo al bando qualsiasi impulso eccessivamente virtuosistico, ridondante o intellettualoide che potrebbe far deragliare il convoglio e condurlo fuori dal centro nevralgico del progetto. Le fughe centripete ed improvvisative, per una sorta di magnetismo d’insieme, finiscono per diventare centrifughe e rientrare sistematicamente nell’alveo principale dell’idea di partenza. Ne è una dimostrazione lampante proprio la title-track giocata su una lenta progressione segnata da tanti cambi di passo, i quali vengono fissati dalla batteria come pietre miliari su un lunga strada aperta di cui non si conosce la destinazione; suggestivo il finale, verosimilmente free form, affidato a Fusco. «The Happiness Tango» si solidifica come un ballata lenta e brunita in cui l’apporto ritmico ne traccia i contrafforti, pur mantenendo un mood alquanto intimo e sotterraneo.

Va da sé che, l’accostamento a Bill Evans e soci, nasce da vari elementi: in primis dai precetti percussivi di Paul Motion assai cari ad Antonio Fusco; a seguire dalle dinamiche relazionali fra i tre musicisti e non ultima dalla scelta di uno standard come «Alice In Wonderland», proveniente dal mondo di Walt Disney e reso memorabile dalla versione che il pianista americano ne fece nel 1961, durante il seminale live-set del Village Vanguard. In «Sete», il classico dysneiano diventa un dichiarato legane ombelicale con la tradizione ed un manifesto programmatico di quelli che sarebbero stati i moduli espositivi dell’Antonio Fusco Trio. Evitando di scivolare sul tributarismo devozionistico, i tre sodali appongono molti tratti personali sul componimento di Fain /Hilliard, tentando di uscire dal cono d’ombra evansiano, soprattutto «Peaceful Mind» diventa un emendamento, il contraltare di quella forma mentis, che solo in apparenza potrebbe sembrare eccessivamente votata al culto del trio di Evans. A conti fatti, «Sete» di Antonio Fusco Trio è un lavoro in cui la profondità creativa e la complessità non sono mai sinonimo di complicanza e dove la linearità e la chiarezza esecutiva non sono di certo affini alla prevedibilità o alla scontatezza.

Antonio Fusco Trio

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