Max Roach

Max Roach «Deeds, Not Words» (Riverside, 1958)

// di Francesco Cataldo Verrina //

Max Roach è sempre stato un musicista con il baricentro spostato in avanti. Batterista iconico e punto di riferimento per chiunque si avvicini alla batteria jazz, Roach ha praticamente messo il «be» nel bebop, suonando con tutte le figure più rappresentative del jazz moderno, da Bird a Dizzy, da Miles Davis a Charles Mingus, da Sonny Rollins a Clifford Brown. Ad abundantiam, la sua personale visione della musica è stata implementata negli anni da numerose registrazioni come band-leader altrettanto rilevanti, se non più delle sue famose sessioni in veste di comprimario o di sideman. Roach non è mai stato un musicista statico o intrappolato in una zona comfort, difficile da tenere a bada in uno specifico recinto, costantemente animato dai demoni creativi con un piede nel passato, ma sempre pronto a trascinare il vernacolo jazzistico verso qualcosa di inedito e di futuribile.

Il primo impegno da solista per la Riverside, «Deeds, Not Words» (fatti non parole) del 1958, conferma uno dei meriti del decano della batteria, ossia il sapersi circondare di collaboratori in grado di piegare le note, i battiti e le frasi ai loro desideri, ma secondo i dettami e le indicazioni del leader. Le doti creative di Roach e le sue capacità di arrangiatore, compositore e capo branco sono tutte in bella mostra, ma ciò che colpisce sono l’equilibrio e la capacità di dosare la sua presenza, senza mai indossare le armi del comandante supremo; ciò che risalta in questo disco è l’utilizzo della batteria da parte di Roach che non risulta mai dominante: se ne colgono facilmente i ritmi innovativi ma il suo strumento è parte integrante del line-up, in cui spesso funge da collante e da alimentatore come una dinamo che dalla retroguardia mantiene vivo il fuoco dello scambio e dell’interplay fra i sodali. Persino il lungo assolo di batteria in «Conversation», che normalmente potrebbe apparire come un atto di vanità da parte del batterista-leader, ha una funzione rinvigorente e ben si amalgama al costrutto concettuale coerente dell’album.

Siamo alle prese con il primo quintetto guidato da Max Roach dopo la gratificante collaborazione con Clifford Brown e Sonny Rollins. Ad un primo fugace ascolto questa nuova esperienza potrebbe apparire meno efficace e impattante rispetto al recente passato discografico del batterista che, al contrario, dimostra di essere il collettore perfetto tra personalità diverse e differenti impostazioni stilistiche. Basterebbe ascoltare il suo dialogo con il sassofonista George Coleman in «It’s You Or No One», o il modo in cui la sua spinta propulsiva fa esplodere la tromba Booker Little in «Jodie’s Cha-Cha», per comprendere che Roach fosse in possesso di quella genialità tipica dell’assemblatore e del magnificatore di talenti. È probabile che George Coleman non fosse Sonny Rollins o che, forse, Booker Little non possedesse talune virtù di Clifford Brown, ma persino l’utilizzo della tuba di mingusiana memoria, utilizzata come strumento melodico in «Deeds, Not Words» diventa un valore aggiunto, così come la scelta di un impeccabile Art Davis al basso.

A conti fatti la tuba di Ray Draper, che aveva già suonato con Jackie McLean e con John Coltrane, pur non riuscendo sempre a reggere il tempo veloce e fulmineo di Roach, grazie agli arrangiamenti del leader riesce ad adattarsi allo spirito complessivo dell’album. Booker Little, morto di uremia a ventitré anni, era comunque un trombettista geniale che, se fosse vissuto, avrebbe potuto ridisegnare la storia del suo strumento. George Coleman era un superbo sassofonista tenore che, forse, non ha mai ottenuto il riconoscimento che meritava. Sia Little che Coleman sono sottili e inventivi. Dal canto suo Art Davis, bassista dal walking esemplare, inventivo nell’ assolo e sicuro nel lavoro accompagnamento, costituiva una garanzia per tutto l’ensemble: «You Stepped Out Of A Dream», ad esempio, è un riuscito tentativo di andare oltre il concetto di hard bop. Per il resto, l’album si basa sui medesimi precetti dei precedenti lavori di Max Roach di quel periodo, mentre il rischio calcolato di un terzo strumento a fiato come la tuba, per paradosso, non fa rimpiangere la mancanza del pianoforte: Ray Draper passa agevolmente dal supporto ritmico alla linea melodica a seconda delle necessità.

Scorrendo attentamente l’album è difficile non evidenziare il contributo di Little, a volte un po’ più avanti degli altri, mentre le sue linee melodiche costituiscono un punto di forza, così come la partecipazione al set gli garantisce un posto nel pantheon della tromba: tono, controllo e velocità denotano maturità e determinazione, al punto che risulta difficile pensare che durante quella sessione avesse solo vent’anni. George Coleman eguaglia Little assolo per assolo, mostrando la potenza e l’unicità del suo timbro. Anche Davis e Draper risultano in gran forma operando su due strumenti separati che lavorano sulla gamma bassa. Roach è deus ex-machina, ma anche un cortese, generoso e garbato anfitrione, contribuendo con numerosi ed efficaci assoli di batteria.

La maggior parte dei brani presenti si colloca in un range up tempo, a parte una sorta di groove latino, «Filide» un originale di Draper con la tuba in primo piano e una ballata, la title track «Deeds Not Words», la quale offre a Booker Little un ottimo veicolo per mostrare quanto possa fare con e su una melodia. È interessante notare come il drumming di Roach anticipi il modulo usato dai moderni batteristi: anziché tenere il tempo solo sul piatto ride, Max si muove su tutto il kit ed è piuttosto libero nel suo approccio, mantenendo un costante scambio con i solisti. Registrato il 4 settembre 1958 al Reeves Studio di New York con la produzione di Orrin Keepnews per l’etichetta Riverside, «Deeds, Not Words» è un sorprendente album hard bop avanzato che propone soluzioni inedite rispetto alle regole d’ingaggio tipiche di quegli anni, teso a creare un suono che colmasse il divario tra Bird e Ornette. I suoi collaboratori condividono una visione simile, in particolare Booker Little, evita di appiattirsi sui moduli espressivi tipici di Miles Davis o Lee Morgan optando per un approccio più complesso e spigoloso, molto simile a quello del suo compagno di avventure Eric Dolphy. Consigliatissimo!

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