Mastronardi_ModernArtTrioX

// di Guido Michelone //

La ristampa dell’album Modern Art Trio (1970) su vinile con un’eccezionale curatela tecnico-filologica è il presto per intervistare il deus ex machina di quest’operazione, Angelo Mastronardi, musicista e produttore, il quale racconta di sé svelandoci come si lavora seriamente nel mondo del jazz, un mondo, dove spesso, tutto o quasi avviene all’insegna dell’improvvisazione (non quella solista, fondamentale, dei jazzman stesso, bensì il dilettantismo di assessori, organizzatori, presentatori, pseudo-direttori artistici).

– Angelo, come ci si sente nelle duplice vesti di musicista e produttore?

La convivenza dei due è difficile in termini di gestione degli spazi che da un paio d’anni sono dominati dal mio ruolo di produttore. La mia personale progettualità musicale è in stand-by. Suono, studio e compongo sempre ma senza la possibilità a breve termine di tirar fuori nuovi dischi. Un aspetto che per altro vivo piuttosto serenamente. Sono sempre assorbito da questa ondata crescente e inaspettata dell’avventura discografica e ho deciso di assecondare il flusso della vita. Di sicuro il musicista è utile al produttore. Non solo nella valutazione d’impatto di una proposta musicale ma anche nella comprensione sul lungo periodo di quelle che possono essere le evoluzioni di percorso di un musicista. Capire in modo concreto dove un musicista vuole andare a parare perché semplicemente ne riconosci le scelte armoniche, ritmiche, di arrangiamento e di estetica è sicuramente una grande risorsa. Indirizzare la progettualità per far esprimere al meglio un artista è invece a mio parere più una qualità da produttore che ho scoperto di avere paradossalmente coltivando i miei progetti musicali.

– Come mai a un certo punto, lei pianista e compositore jazz decide di produrre dischi e aprire una propria casa discografica?

È stato in un certo senso casuale quanto inevitabile. Ho sempre avuto una certa facilità a prendere decisioni che mi ha portato a non voler aspettare l’approvazione altrui e inserirmi in un processo di scelte (artistiche, di immagine, grafiche etc.) sin dal momento in cui ho tirato le somme della mia prima produzione discografica nel 2014. Ho cercato di far tesoro di tutto quello che ho osservato riguardo alla gestione manageriale, promozionale e comunicativa di un progetto discografico partendo dalla mia esperienza e dal confronto con quella di altri artisti. Così, dopo aver registrato il mio secondo album, mi sono ritrovato per gioco a pensare quasi contemporaneamente ad una veste grafica, ad una palette di colori e soprattutto ad una parola breve, dal suono scorrevole, che esprimesse la mia progettualità anche nel suo significato. La parola GleAM significa “scintilla”, “luce”, “bagliore”. In tal senso esprime quello che cerco nelle proposte musicali e in senso più ampio la forza di una visione che posseggo, coltivo e perseguo. Casualmente la parola contiene anche le mie iniziali e questo mi ha convinto che potesse essere il nome giusto.

– Quali sono le linee – a livello artistico, musicale, tecnico e anche per così dire filosofico – che segue e seguirà la sua etichetta?

Mi muovo in un ambito musicale delimitato per scelta. Non amo le etichette dai cataloghi sconfinati e pieni di tanta roba estremamente diversa. È un’idea di pluralità che mi sa più di spersonalizzazione nascosta dietro una falsa inclusività. GleAM persegue due specifiche linee editoriali. Una è legata al jazz contemporaneo con una più marcata sperimentazione nel linguaggio jazzistico. Qui confluiscono i progetti in cui si osa sotto il profilo della ricerca ritmica e formale, in cui si improvvisa su strutture ma anche liberamente ma in cui si respiri una consapevolezza reale della storia di questa musica. L’altra linea è quella post-bop in cui confluiscono quelle produzioni in linea con la tradizione del jazz ma che hanno assimilato la lezione coltrainiana e le innovazioni del secondo quintetto di Davis.

Non sono interessato a produzioni schiettamente mainstream per quanto eleganti e ben confezionate. Anche in un disco di standards (che adoro tanto quanto le composizioni originali) voglio sentire una concezione personale nel portare avanti il drive ritmico di gruppo e una ricerca armonica e di fraseggio. Mi piace pensare che ci sia un’inesauribile possibilità di scavare dentro le forme e tirar fuori qualcosa di nuovo anche dalle canzoni più comuni del songbook americano.

– Ci vuole parlare delle prime uscite discografiche?

Le prime uscite discografiche di GleAM sono stati il mio disco in quartetto “New Things, Same Words”, “ART of The Messengers” del batterista Alex Semprevivo, il mio album in trio “Rough Line” il primo album del quartetto americano del sassofonista Daniele Germani, il mio settetto “MOBA” e “Xenya” con Germani, Cosimo Boni, Alessandro Lanzoni, Francesco Ponticelli e Roberto Giaquinto.

– Arriviamo ora al Modern Art Trio: perché ristampare oggi l’unico disco realizzato in 5 anni (1967-1972) di attività?

Si tratta in primis di una scelta di affinità verso la musica. Il mio progetto è quello di far vivere ancora a lungo un’opera che è alla quarta ristampa. Questo vuol dire che già con le precedenti c’è stato un rilevante interesse da parte della critica e del pubblico. I collezionisti cercano la copia in vinile del disco, al di là di quelli legati alla prima stampa originale. Il mio contributo è quello di un recupero in ottica storica e filologica, di mantenere viva questa opera, e poterne dare una visione più fedele possibile all’originale con le attuali tecniche di restauro audio e di remastering. Spero che anche le fasce più giovani che si interessano di jazz si possano avvicinare e conoscere quest’opera. Farò in modo che anche negli Stati Uniti e in Europa ci sia un nuovo interesse verso il Modern Art Trio.

– Che rapporto personale ha intrattenuto con quest’album prima di decidersi a ristamparlo?

Mi sono imbattuto casualmente in questo album alcuni anni fa. Possedevo una copia del testo di Stefano Zenni Storia del jazz: una prospettiva globale. Mentre lo sfogliavo mi sono imbattuto nella parte finale del volume che trattava le esperienze rilevanti del jazz in Europa. Tra le poche italiane, parlava in maniera lusinghiera del disco del Modern Art Trio. La mia curiosità è diventata irrefrenabile e ho cercato di rintracciarlo. Era il 2006. Prima l’ho ascoltato in versione digitale e poi mi sono procurato una copia. Era quella del 1978, la seconda ristampa. Non mi piaceva il suono. In seguito ho comprato la ristampa su cd del 2008 curata da Luca Bragalini e Marcello Piras. L’ho ascoltata accuratamente, e da pianista mi sono trascritto i brani perché mi interessava studiarli. Durante il biennio di Composizione Jazz al Conservatorio di Bari ho scelto come ricerca il serialismo nel jazz, quello strutturato di Giorgio Gaslini e quello applicato all’improvvisazione di Franco D’Andrea. La mia ricerca è andata al di là della tesi di laurea e si è sviluppata in un arco di tempo molto lungo. A febbraio del 2023 ho prodotto un pianista bresciano, Alberto Forino, che ho scoperto essere un allievo di D’Andrea. Lui mi ha messo in contatto con il maestro e gli ho raccontato di questa mia infatuazione per il Modern Art Trio. Gli ho scritto se gli piaceva l’idea di ristampare il disco e così è nato tutto.

– In copertina figurava l’espressione “Progressive Jazz” già usata trent’anni prima per il jazz di Stan Kenton, ma tornata in auge nel 1970 per certo rock. Condivide la scelta di quest’espressione per connotare il sound del Modern Art Trio?

Non saprei. Le parole sono oggetto di fraintendimenti e non possono indicare in modo univoco qualcosa. Di conseguenza dipende cosa intendiamo per progressive e assodato ciò dovremmo poi capire se quel qualcosa è presente nella musica del Modern Art Trio. Se si tratta dell’uso di dispositivi e tecniche compositive specifiche come l’atonalismo, il serialismo in qualche sua specifica forma o altro, potrei dire di sì ma è sempre la concreta applicazione di una tecnica e quindi gli esiti a definire il sound e di certo una definizione come “Progressive Jazz” non è esaustiva ma pertinente in parte.

– Benché sia un disco fortemente equilibrato fra i tre, chi prevale maggiormente? O in altre parole lo vede più come un disco di Franco D’Andrea, di Franco Tonani o di Bruno Tommaso?

Credo sia un disco “pensato” maggiormente da D’Andrea e Tonani sotto un profilo progettuale ma che non ci sarebbe potuto essere senza la capacità concreta di Bruno Tommaso di mettere in pratica con la sua preparazione ed intuito le concezioni sulle aree intervallari su cui iniziava a lavorava Franco. Allo stesso tempo tutti e tre si esprimono in modo sinergico nelle sezioni più free. Probabilmente nei brani dall’approccio più modale e dal drive più post-bop come “URW” o la versione del classico di Gershwin “It Ain’t Necessarily So” sembra prevalere un direzione pianistica ma ascoltando con attenzione il lavoro della ritmica si scoprono delle interessanti scelte non assimilabili ad un puro lavoro di retroguardia.

-Quale resta per lei il valore ‘attuale’ di un disco come questo?

Se pensiamo alla qualità della musica e al periodo in cui è stata registrato, senza ombra di dubbio il valore risiede nel coraggio di condurre una sincera ricerca e senza compromessi. Mi capita giornalmente di ascoltare proposte musicali di giovani artisti che cercano di fare arte plausibile, ben confezionata ma senza grossi rischi. Il Modern Art Trio ha cercato differenti regole di organizzazione dei suoni per improvvisare cercando un nuovo equilibrio tra libertà ed espressione personale e questo equivale per me a mettersi realmente in gioco e connettersi con il proprio presente. Nel loro caso questo esperimento ha superato la prova del tempo e può offrire interessanti punti di partenza per nuove ricerche.

– Infine che difficoltà tecniche avete incontrato nel rieditarlo con le nuove tecnologie?

Il restauro ha richiesto un ascolto attentissimo di ogni piccola porzione di musica per eliminare i segni del tempo che inficiavano il nastro che tuttavia era in un buono stato di conservazione. Io e Jeremy Loucas abbiamo lavorato fianco a fianco da fine gennaio fino a fine luglio di quest’anno. L’operazione di remastering è invece legata ai nostri personali obbiettivi estetici e in qualche modo alle condizioni in cui il disco fu registrato. Paolo Ketoff, il fonico originale dell’album trovò il modo di registrare senza cuffie per favorire un ascolto naturale. Per fare questo optò per una certa prossimità tra gli strumenti. Se da un lato questa scelta può offrire un suono ricco, dall’altro aumenta la quantità di rientri e una più difficile gestione dei suoni in fase di mix. Nel nostro caso, non potendo lavorare su tracce separate ma su un master chiuso, l’operazione di remastering ci ha posto nella posizione di gestire e preservare determinati equilibri e allo stesso tempo cercare un nostro suono. Tuttavia l’elevata qualità audio del nastro e la grande ampiezza dinamica ha permesso di ottenere un risultato a mio avviso ottimo con una certa spazialità e brillantezza.

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