Fra incarnazione ed evocazione: “Anthem” di George Lewis

// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
Nell’ottobre 2009, il gruppo di musica contemporanea Wet Ink contattava George E. Lewis per creare un lavoro che doveva far parte di un repertorio commissionato per l’uso di un “ensemble specifico”: flauto/i, sassofono tenore, pianoforte/fisarmonica, percussioni, voce, violino ed elettronica. In questo modo, l’ensemble avrebbe dovuto comportarsi come un’orchestra tascabile in grado di compiere agevolmente delle tournée senza soverchi costi di organico e di strumenti, soprattutto percussioni.
Come ricorda il compositore: Non scrivevo per voce da diversi anni e non volevo che questo pezzo emulasse la pratica convenzionale di “ambientare” un testo. L’altro problema, naturalmente, era la provenienza del testo stesso. Nel corso di alcune ricerche che stava facendo sull’improvvisazione, Lewis s’imbatte in un testo del 1947 di una suora cattolica, Suor Miriam Joseph, Shakespeare’s Use of the Arts of Language. Il libro di Joseph individua, raccoglie e analizza ordinatamente il vasto numero di dispositivi retorici che gli studenti elisabettiani dell’epoca di Shakespeare dovevano imparare a utilizzare nei dibattiti estemporanei.
Lewis ricorda che per Jane Freeman (Shakespeare’s Rhetorical Riffs, in Timothy J. McGee, ed., Improvisation in the Arts of the Middle Ages and Renaissance Medieval Institute Publications, Kalamazoo 2003) learning the figures of classical rhetoric is like learning the scales of music, pur evidenziando che le figure retoriche erano processi, secondo quanto già annotato poeticamente da Harry Peacham The Younger nel suo The Compleat Gentleman (1634): Hath not music her figures, the same which Rhetoric? What is a revert but her Antistrophe [AB, CB, DB]? her reports, but sweet Anaphoras [AB, AC, AD]? her counterchange of points, Antimetaboles [AB, BA]? her passionate airs, but Prosopopoeias with infinite other of the same nature. Così, la forma AABA di I Got Rhythm diventa diacope: Un cavallo! Un cavallo! Il mio regno per un cavallo! (“A horse! A horse! My kingdom for a horse!”). Lewis cita un altro esempio, tratto da Martin Luther King (I Have a Dream, 1963): Free at last! Free at last! Thank God Almighty, we are free at last! (“Finalmente liberi! Finalmente liberi! Grazie a Dio onnipotente, siamo finalmente liberi!”).
Per quanto egli non abbia usato consapevolmente figure retoriche specifiche, considerare le figure come processi algoritmici ha permesso all’autore di comporre sia il testo che le forme strumentali usando procedure cosiddette “concatenative”. Approfittando della commissione originaria, che ipotizzava per l’organico la flessibilità di una “band”, Lewis articola una pagina fortemente ibridata (e spesso caratterizzata da un peculiare senso ritmico) in cui taluni processi linguistici tipicamente africano-americani (ma da tempo entrati a far parte del vocabolario contemporaneo) si presentano a reclamare la loro originalità in un confronto fra l’incarnazione artistica da parte dei creatori africano-americani e l’evocazione dello stesso vocabolario da parte dell’avanguardia occidentale novecentesca: la cantante, ad esempio, agisce attraverso più tecniche vocali, fra le quali lo scat, stabilendo un tipico processo di call-and-response con il pubblico, cui scherzosamente essa si rivolge verso la fine con la scherzosa supplica We want to be your band. Please, baby, please. Altresì, il violino si esprime attraverso una tecnica che Lewis, in opposizione allo schoenberghiano Sprechstimme, definisce Sprechspiel: lo strumento evoca il suono del parlato, rifacendosi ad alcune caratteristiche degli ultimi lavori di Eric Dolphy. L’arte di Lewis può spesso sembrare astratta: da essa, invece, sempre di più traspare la volontà di rappresentare un’identità culturale usando mezzi e tecnologie a lungo esclusi agli africano-americani. A suo modo, Anthem trasfigura la “sigla” che molte band, africano-americane e non, utilizzavano come introduzione alle loro esibizioni, come una firma o un biglietto da visita.
