// di Guido Michelone //

Roberto Polillo, classe 1947, ‘ispirato’ dal padre Arrigo – il celebre giornalista e storico, nonché Direttore del mensile Musica Jazz e saggista di fama internazionale – fotografa, grosso modo tra il 1962 e il 1977, oltre un centinaio di concerti in Italia, Francia, Svizzera per la rivista milanese, realizzando indirettamente una galleria esaustiva di immagini sui grandi improvvisatori del momento di ogni stile o tendeza. Le fotografie, già all’epoca, vengono esposte in numerose mostre personali e fiere d’arte, dall’Europa agli Stati Uniti, e pubblicate su libri, magazine, e copertine di LP e CD. Ppoi per oltre trent’anni il silenzio, dovuto alla scelta di insegnare materie informatiche all’Università dove si laurea a pieni voti, abbandonando il jazz per occuparsi di fotografia di viaggio, esplorando inedite forme espressive con l’intento di rappresentare il genius loci di città e Paesi lontani. Tuttavia da quasi vent’anni torna al jazz sistemando il proprio ricco e fondamentale archivio, che confluisce in libro di pregio da Jazz Icons. Sixty Jazz Masters of the ’60s (2019) a Jazz dietro le quinte (2022), fino a questo Fografare il jazz (2023) edito da Mimesis.

Com’era quell’Italia del 1962 quando iniziasti a fotografare il jazz? E cos’era il mondo italiano jazzistico sempre in quel seminale 1962?

Nei primi anni ’60 l’Italia era un Paese molto più semplice, e molto più povero, anche se iniziavano gli anni del boom del dopoguerra. Ricordo, per esempio, quando per la prima volta arrivò in casa nostra un frigorifero – prima c’era la “ghiacciaia”, e bisognava comprare il ghiaccio in blocchi. Credo fosse verso la fine degli anni ’50. La differenza con oggi è enorme: la globalizzazione e soprattutto Internet ha cambiato tutto. Il mondo esterno era sconosciuto: si incominciava a saperne qualcosa attraverso la televisione, che era in bianco e nero e perdeva spesso la sintonizzazione. Anche la mia famiglia non era ricca: all’inizio non avevamo la televisione, e tutti i giovedì sera andavamo tutti dai vicini di casa per vedere “Lascia o raddoppia” di Mike Bongiorno. il jazz era un modo per conoscere un pianeta diverso, gli Stati Uniti. Che anch’essi erano completamente diversi da ora. Basta guardare i film degli anni 50, con le automobili lunghe sei metri, e le famiglie “felici” rappresentate nei film di Doris Day.

Ma casa tua (paterna) all’epoca era frequentata da critici e/o jazzisti?

No, mio padre non li portava a casa, anche perché, anche se la casa nostra, in Corso Italia 6 a Milano, era piuttosto grande, era piuttosto affollata: oltre a noi quattro (il quarto era mio fratello) ci viveva mio nonno paterno, Giuseppe Polillo, che aveva lì anche il suo studio di avvocato. Quando mio nonno morì, nel 1968, mio padre fece ristrutturare l’appartamento (che era sempre in affitto), e allora fummo più comodi. Ricordo un’intervista di Franco Fayenz con Joe Venuti nel mio salotto nel 1971, perché li fotografai, ma non ricordo altri incontri.

Ma che ricordo hai di tuo padre quando eri bambino?

Era un padre aperto, scherzoso, ma poco presente in famiglia. I ricordi sono concentrati soprattutto nei periodi estivi, quando andavamo in vacanza. Mio padre amava molto la montagna, e ci portava a fare un sacco di gite nei monti. Cambiavamo posto ogni anno, nelle Dolomiti o in Piemonte. Fra i miei dodici e i miei diciassette anni, organizzò numerosi viaggi, nei quali portava mia madre, me e mio fratello Marco a visitare l’Italia e un po’ anche l’Europa. Amava molto l’arte, soprattutto l’architettura romanica e gotica, e organizzava questi viaggi in cui visitavamo un sacco di chiese e castelli, in Italia, in Svizzera, in Francia, in Germania, Austria. Io ho visto l’Italia – praticamente tutta – soprattutto in questo periodo: quando poi ho viaggiato da solo sono stato soprattutto all’estero.

E ti ha mai invogliato a fare il critico, ossia a scrivere di jazz?

Assolutamente no, e non ne sarei stato proprio capace.

Arrigo era professionalmente un dirigente nell’editoria: ti parlava di quel mondo? Ti ha introdotto in quest’altra realtà culturale tanto vicina quanto lontana dal jazz?

In realtà no. Anche se la mia famiglia era molto legata al mondo dell’editoria (mio zio Sergio, il fratello di mio padre, passò la vita in Mondadori, di cui divenne anche il Presidente, e anche mio fratello Marco ebbe ruoli importanti in Mondadori e in Rizzoli e fondò poi una sua casa editrice), mio padre si sentiva molto più legato al mondo del jazz. Per quanto riguarda il suo impiego come direttore del personale della Mondadori, citava spesso il giudizio dei suoi colleghi, che lo ritenevano “la persona giusta nel posto sbagliato”. Lasciò la Mondadori anticipando la pensione per motivi di salute poco dopo l’”autunno caldo”, e da allora si occupò a tempo pieno di jazz.

Come hai maturato la scelta di seguire un percorso di studi assai diverso da quello di tuo padre?

Chissà. Forse per differenziarmi da una famiglia di avvocati umanisti (mio nonno paterno, quando ero al liceo, mi citava Orazio in latino…). Ma soprattutto mi interessava la filosofia, e pensavo che studiando Fisica avrei potuto capire meglio le cose dell’universo. Ma mi sbagliavo, ben presto mi accorsi che non ero portato alla matematica e non avevo quella famosa “sensibilità fisica” di cui parlavano sempre i miei professori, e che non ho mai capito in che cosa consistesse. Mi riorientai ben presto verso l’informatica, affascinato da un professore visionario, Gianni Degli Antoni. L’informatica allora era una disciplina nascente, e questa fu una scelta giusta, sicuramente dal punto di vista del successo economico. Ma non sono mai stato un appassionato di tecnologia, mi interessavano soprattutto gli aspetto concettuali e modellistici, ancora una volta più filosofici che ingegneristici.

E Arrigo come ha preso la tua decisione di smettere con la tua fotografia jazz?

Ho praticamente smesso nel 1975, anche se ho fotografato un concerto nel 1977. Dopo il servizio militare e la laurea nel 1971 ero rimasto come ricercatore all’Università di Milano, dopo qualche incertezza avevo deciso che non avrei fatto il fotografo. E poi nel 1973 conobbi Patricia, che sarebbe diventata mia moglie, e misi su casa con lei. Stavo iniziando la mia vita da adulto, e lasciai il jazz e la fotografia, che avevo sempre considerato un hobby. Mio padre non fece commenti su questa decisione, che era in un certo senso inevitabile.

Come hai vissuto l’uscita del volume di Arrigo Jazz ancor oggi ritenuto una pietra miliare?

Mio padre ha scritto questo libro dopo il suo pensionamento anticipato dalla Mondadori, e si è dedicato praticamente a tempo pieno per molto tempo, a casa. Per molto tempo la nostra sala da pranzo non è stata agibile: il tavolo era occupato dalle diecine di libri sul jazz, che mio padre consultava (la scrivania sulla quale lavorava a Musica Jazz era troppo piccola…). Mio padre mi faceva leggere le bozze di ogni capitolo, e mi chiedeva le mie impressioni. Sono molto orgoglioso di questo mio contributo. Molto piccolo, in realtà, perché poi decideva tutto in modo molto autonomo.

L’Arrigo Polillo che per te è stato il più geniale o autorevole? Direttore di «Musica Jazz» o critico o studioso o organizzatore di festival, concerti, eventi?

Mio padre è stato un po’ tutto questo insieme. Soprattutto era una persona solare, molto positiva e affabile, aperta al nuovo, sempre interessata a quello che accadeva nel mondo del jazz. Era molto sicuro del suo gusto e delle sue idee, anche quando si rivelavano poi troppo conservatrici. Allora riconosceva i suoi errori e ne scriveva apertamente. E soprattutto aveva una enorme capacità di raccontare la vicenda del jazz in un modo appassionante. Credo che abbia fatto moltissimo per il jazz in Italia, non solo portando i principali musicisti in Italia, ma soprattutto con il suo libro, che è ancora in libreria dopo quasi cinquant’anni.

Il tuo nuovo libro tenta anche delle teorizzazioni sul rapporto tra jazz e fotografia: lo facevi già allora?

Devo dire che, quando fotografavo i concerti, ero troppo giovane, ed ero troppo focalizzato sugli utilizzi per la rivista «Musica Jazz» per pormi domande teoriche sul mio lavoro. Ero molto influenzato dal mio amico Giuseppe Pino, insieme al quale ho fotografato moltissimi concerti, ed ero soprattutto molto attento agli aspetti formali delle mie fotografie. Giuseppe (che à scomparso un anno fa) era un grande fotografo, e mi ha insegnato molte cose (…) della fotografia jazz.

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