McPherson1x

// di Francesco Cataldo Verrina //

Scandagliando la variegata discografia di Charles McPherson, scopriamo una piccola gemma sfuggita al controllo dei radar, «Today’s Man». L’album fu registrato nel 1973 e pubblicato dall’etichetta Mainstream. Tenendo in considerazione alcuni fattori ambientali e culturali del periodo e le impervie e dissestate strade attraversate dal mainstream, si potrebbe pensare ad un’operazione nostalgia. L’ensemble, alquanto composito, soprattutto in alcune tracce, potrebbe far presupporre l’idea di aver voluto ricreare un’ambientazione stile big band: Charles McPherson sassofono contralto, Frank Wess flauto e sassofono tenore (tracce 1-3), Chris Woods flauto e sassofono baritono (tracce 1-3), Cecil Bridgewater, Richard Williams tromba e flicorno (tracce 1-3), Julius Watkins corno francese (tracce 1-3), Garnett Brown trombone (tracce 1-3), Barry Harris pianoforte, Larry Evans basso e Billy Higgins batteria. Nulla di più ingannevole: in primis perché l’insegnamento mingusiano trasudava ancora dai pori della pelle di McPherson; in seconda istanza, in tre tracce su sei, il line-up opera nel classico formato quartetto di parkeriana memoria. L’influenza di Bird sul sassofonista appare solo come la cornice di un quadro che si riempie progressivamente di colori nuovi, tinte audaci e tratti marcati da una personalità autonoma e ben definita. L’altoista non ha perso il suo guizzo felino da bopper, ma l’esperienza con il contrabbassista di Nogales ha arricchito il suo repertorio espressivo, attraverso un rispetto diverso della punteggiatura.

L’arte della collegialità e l’interesse per una partitura più ampia e complessa sono il contrassegno saliente di un album che meriterebbe ben altra considerazione e collocazione nell’economia globale del jazz moderno, specie in quello scorcio di anni ’70 quando distillare jazz in purezza era diventato quasi un esercizio clandestino e riservato a pochi eletti. Non si dimentichi che in quel decennio molti nomi della grande epopea bop vivevano raminghi per le contrade del Nord Europa, dove venivano trattati come esemplari in via d’estinzione da proteggere, mentre negli USA il jazz, almeno lo straight ahead, era stato relegato ad un ruolo subalterno e surclassato dall’elettrificazione tout court, nonché da nuovi fenomeni che estendevano a dismisura la progressione libera ed anarcoide o si piegavano cedendo all’elemento di fusione esterno.

L’album si apre con «Charisma», a firma McPherson, che dopo uno scrosciante inizio di fiati all’unisono, vede il contralto iniziare ad esplorare i sentieri di un bop intriso di elementi funky, a cui gli altri fiati fanno da sostegno e da contrappunto, imbeccati dal piano di Harris, mentre la sezione ritmica dalle retrovie macina chilometri senza sosta. A seguire una toccante versione di «Naima», dove il contralto di McPherson rifugge da ogni tentativo di clonazione dello spirito coltraniano, arrotondando ed attenuando i contorni con un suono morbido, nitido e spaziato, quasi a voler marcare la diversità, perfino il pianoforte di Harris diventa più lirico e narrante. L’arrivo di «Invitation» mette in luce tutti talenti di McPherson, il cui contralto emette una voce incantevole ed avvolgente in un rodato afflato con il pianoforte, il quale fertilizza un terreno di coltura assai riproduttivo per l’altoista che, a tratti, accoglie l’ondata fiammante della sezione fiati associata, che funge da spartiacque tra un assolo e l’altro.

«Stranger In Paradise», motivo molto in voga negli anni ’70, riceve un trattamento di bellezza, soprattutto in fase improvvisativa si trasforma in un mid-range dal movimento swing, per poi subire una piacevole metamorfosi e riapparire nei panni di una melodiosa ballata. «Cheryl» di Charlie Parker è un omaggio ideale al suo mito di gioventù, ma è il piano dell’esperto Harris a governare l’impresa, dettare il tema e le regole, soprattutto ad impedire al suo ex-allievo di lasciarsi prendere la mano e tentare qualche via di fuga, eccedendo nei cambi troppo veloci e negli accordi a raffica. L’improvvisazione di McPherson, quasi «disturbata» dagli innesti pianistici coadiuvati dalla retroguardia ritmica, si colora di tonalità melodiche mai sentite prima nell’esecuzione di questo tema. In chiusura «Bell Bottoms», un’altra chicca composta dal titolare dell’impresa che sottolinea quanto il pianismo e gli insegnamenti del maestro-sodale Barry Harris, nonché il gusto per la reciprocità di mingusiana memoria fossero determinanti sulla scrittura e l’esecuzione di McPherson più del modello parkeriano.

Charles McPherson

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