Nel progetto di Calò l’Africa (e non solo) diventa il catalizzatore di infinite suggestioni che si muovono trasversalmente sull’asse cartesiano di un costrutto jazz a volo libero che tocca Penisola Iberica, Balcani, India, Nord Africa, Medio Oriente e Sud America.

// di Francesco Cataldo Verrina //

L’indimenticabile incipit de «La mia Africa», romanzo di Karen Blixen, ci immerge subito nella natura del continente: «Vegetazione a perdita d’occhio e animali mai visti in Europa, desolazione e profumo di libertà, silenzio, l’essenza della vita e il cuore nero dell’Africa (…) Di giorno si sentiva di essere in alto, vicino al sole, ma i mattini, come la sera, erano limpidi e calmi, e di notte faceva freddo». L’Africa è da sempre un luogo dell’anima, una terra dalle tante suggestioni e contraddizioni, dove tutto è diretto ed immediato, soave e crudele al contempo. L’Africa, che ha ispirato poeti, narratori, pittori e viandanti a vario titolo, è da sempre il principale serbatoio di idee dei più rinomati jazzisti di ogni epoca, specie per la sua naturale e viscerale connessione con tutte le culture che si affacciano sul bacino del Mediterraneo ed ogni enclave sonora del Sud del mondo. Va detto subito che Pasquale Calò non ha cercato «un po’ d’Africa in giardino tra l’oleandro e il baobab», ma egli muove da una lunga esplorazione musicale condotta insieme al suo quartetto, lungo l’arco di un decennio, magnificando la scrittura e il sound dell’ensemble attraverso lunghe tournée in giro per il mondo. Il compositore-sassofonista ci tiene a precisarlo: «Le composizioni sono ispirate alla musica di tutto il mondo, inglobando suggestioni delle tradizioni musicali popolari mediterranee e sudamericane ed elementi dell’estetica musicale del Novecento. Pensiamo sinceramente che la biodiversità culturale sia essenziale per lo sviluppo antropologico della specie umana. Nella nostra vita e nella nostra musica portiamo l’eredità di culture diverse, popoli diversi ed epoche diverse, di cui abbiamo assorbito assiomi e peculiarità, nei viaggi e nella vita di tutti i giorni».

L’opener del progetto è affidato ad una Suite, «Supreme Being», di coltraniana memoria, divisa in due momenti differenti, ma perfettamente in analogia creativa e concatenati. La prima è quasi simile ad una fase esplorativa e sospesa, un’adunata di elementi armonici e spirituali che si riverberano sulla seconda parte attraverso una progressione verticale tesa al trascendente. Pasquale Calò la definisce così: «A Supreme Being è una preghiera. La prima parte è abbandono all’universo, deriva, connessione. La seconda parte è la stessa cosa, ma nella relazione di uomini tra uomini.» Con «Elefanti d’Africa» inizia un lento distacco dal «supremo» ed un avvicinamento all’immanente che sfiora il terreno ed una realtà più palpabile evidenziata da una cadenza di matrice afro che sembra catapultare il flusso sonoro all’interno di un’atavica tribalità. «The Rising Moon» , attraverso un’alterità ritmico-armonica elettrificata, descrive in maniera destrutturata una notte sotto il cielo d’Africa, il cui story telling è affidato al kit percussivo strisciante e magnetico di Alessandro Campobasso e da un trombone di Salvoandrea Lucifora che ulula quasi disperato in un deserto di solitudine, entrambi assistiti dal band-leader che sembra camminare sui carboni ardenti come un enigma avvolto in un mistero. «You And The Infinite» è sagomata dal piano elettrico e da una profonda e rassicurante progressione tesa alla ricerca di una dimensione altra, di un altrove dove trovare riparo o un approdo sicuro, mentre trombone e sax distillano cromatismi dalle tinte sfumate. La title-track, «Where I Come From», si cementifica come un cavalcavia tra Africa e Mediterraneo, dove suoni e nuances s’intensificano. Le parole di Calò sono piuttosto eloquenti in merito: «Where I come From è casa, è da dove vengo, la mia cultura e tutte quelle che sono diventate mie, o forse son io che son diventato loro. È tutte le persone incontrate, tutte le storie ascoltate, le strade percorse, tutti i pianti e tutti i sorrisi e tutto quello che è dietro di me, tutto ciò che c’è dietro ognuno di noi e che impariamo a conoscere prima e a capire sempre meglio quanto più ci allontaniamo, quanto più i nostri occhi si permeano di altrove».

In «The Sinner City» il line-up ritrova la dimensione più urbana, quasi cinematica: l’intrigo strumentale, sotterraneo e cuniculare, lascia intuire un’escursione metropolitana in una città fitta di misteri e di pericoli in agguato. «Cybernetic Prayer», ispirato ai film di fanta-horror anni ’70 e ’80 di Romero e Carpenter, con il suo procedere in levare, stringe il cordone ombelicale tra il Continente Nero e la Giamaica, terra di profonda spiritualità e fortemente legata alla Grande Madre Africa, dove i rituali apotropaici e l’arte auruspicina (o simile) sono una pratica giornaliera tesa a predire il futuro o a scacciare i malefici. «Cordoba» è un omaggio all’omonima città andalusa, dove Calò ha trascorso una significativa parte della sua vita. La cornice ispanica a base di flamenco pizzicato dal basso elettrico, lascia presto spazio a una dimensione coltraniana simile a quella contenuta dell’album «Olè», ma sono solo suggestioni. «Wake up Stand up», quasi un monito ad essere solerti e allo stato di veglia è magnificata da un piacevole abbrivio fischiato che introduce un costrutto sonoro ricco di vitalità e con un incedere quasi marciante.

Pasquale Calò tenor sax, rhodes e live electronics, Salvoandrea Lucifora trombone e effects, Carlos Ródenas Borja contrabbasso e basso elettrico e Alessandro Campobasso batteria con «Where I Come From» sono forieri di un lavoro originale e ben articolato, lontano dai i luoghi comuni del neo-barbarismo jazzistico tipico del mercato truciolare degli ultimi anni, drogato dai luoghi comuni di matrice scandinava; per contro nel progetto di Calò l’Africa (e non solo) diventa il catalizzatore di infinite suggestioni che si muovono trasversalmente sull’asse cartesiano di un costrutto jazz a volo libero che tocca Penisola Iberica, Balcani, India, Nord Africa, Medio Oriente e Sud America.

Pasquale Calò

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