// di Gianluca Giorgi //

Rino De Filippi, Oriente Oggi (1973 ristampa 2016)
Un disco che nella versione originale è molto ricercato ed estremamente costoso.
Musica d’archivio italiana o library music, dai toni orientali di Rino De Filippi. Registrato nel 1972 all’Orthofonic Studio di Roma dallo storico fonico RCA Pino Mastroianni, a cui hanno collaborato tra gli altri, il batterista Vincenzo Restuccia e Bruno Battisti D’Amario agli strumenti a corda ed etnici. Nel disco troviamo il brano funk-break mid-tempo “Oriente Contemplativo”. L’oriente mozzafiato incontra l’occidente, idee musicali di uno dei maestri assoluti della composizione italiana.
Veramente gradita questa ristampa in edizione limitata a 500 copie della italiana Cinedelic Records, sempre molto attenta a trovare perle sconosciute nello sterminato mondo musicale.

Stefano Bollani, Que Bom (2lp 2018)
Non amo particolarmente Bollani pur considerandolo un ottimo e poliedrico artista, ma questo disco si ascolta molto bene. “Que bom” ci consegna uno Stefano Bollani non solo virtuoso pianista e catalizzatore di talenti, ma anche un eccellente compositore tra il jazz e il pop. Tutti i brani, infatti, sono autografi eccetto Michelangelo Antonioni, brano che amo particolarmente e motivazione ulteriore che mi ha spinto nell’acquisto. Il suo stile pianistico molto ritmico lo porta inevitabilmente ad un jazz ibridato con la musica latina e, in particolare, con la musica brasiliana, un leit motiv che lo accompagna fin dagli esordi negli anni ’90. Que bom” esce dieci anni dopo “Carioca”, il primo disco inciso in Brasile, ed anche per questo disco Bollani è tornato in Brasile riunendo nuovamente gli stessi musicisti di dieci anni prima con l’aggiunta di alcuni ospiti speciali. Due brani necessitano di una menzione a parte: il primo è “La nebbia a Napoli” scritta appositamente dal pianista per Caetano Veloso, una canzone d’amore splendida che il cantante bahiano interpreta, come suo solito, con grande intensità, e poi “Aleijadinho Le O Codex Seraphiniaus Aqui’” divertentissment ispirato a quel capolavoro unico, e mai troppo lodato, che è il “Codex Seraphiniaus”, ovvero la surreale fantaenciclopedia dall’artista Luigi Serafini, che firma anche la copertina del disco. ., copertina veramente splendida! Disco interessante ma un po’ discontinuo.

Shabaka Hutchings. – Sons Of Kemet, Black to The Future (2021 2lp)

“Black to the Future” è un poema sonoro per invocare il potere, il ricordo e la guarigione. Rappresenta un movimento per ridefinire e riaffermare cosa significa lottare per il potere nero. Così Shabaka Hutchings presenta il quarto lavoro del suo gruppo Sons Of Kemet, probabilmente il suo progetto più politicizzato. Riparte da dove aveva lasciato con Your Queen Is a Reptile, il cui impianto ideologico qui viene ripreso e reiterato, forse anche estremizzato alla luce di ciò che è successo (nei tre anni che separano dall’album precedente) e che sta succedendo (praticamente senza soluzione di continuità) alla comunità nera americana (Black Lives Matter ma non solo). Il quartetto di Shabaka Hutchings formazione a forte trazione ritmica, due batterie, quelle di Edward Wakili-Hick e Tom Skinner, più la tuba di Theon Cross, il sassofono e il clarinetto del titolare (Hutchings parrebbe essersi concentrato più sul secondo, in questa occasione), ci propone una musica in cui il jazz qui fa da sostrato dei brani, ma è un jazz imbastardito e reso contemporaneo, innervato da tutto ciò che confluisce nella black music: funk, influssi caraibici, grime, dub, hip hop. Tutto questo contribuisce a rendere fluida e pluri-dimensionale la musica, che nelle intenzioni si propone come un concentrato di vari suoni della diaspora africana. Ad arricchire la band sono stati chiamati numerosi ospiti: da Steve Williamson a Angel Bat Dawid, da Moor Mother a MC D Double E, da Joshua Idehen a Lianne La Havas oltre all’attivista, musicista e poeta Joshua Idehen (Field Negus e Black) presente nei due (semi) spoken word che aprono e chiudono l’album. Ospiti che quindi aggiungono sfumature personali al sound del quartetto e a questo “nuovo jazz” che prende e fagocita new thing e dub, funkettone groovoso e accenni world, standard jazz e incedere quasi da big brass band funerea, mettendo sempre tutto al servizio del messaggio. Militanza, appartenenza, riconoscimento, radicalità, tutto questo si ritrova in un disco che è l’ennesimo puntino da unire in un percorso, quello delle musiche nere più coraggiose, riottose, politicamente impegnate, che va avanti più o meno da mezzo secolo. Ogni canzone è stata studiata per essere predisposta in uno specifico ordine e ognuna ha un titolo tale per cui, seguendo l’ordine, si svela un manifesto insieme sonoro e poetico. Un altro ottimo lavoro “jazz” che riesce sicuramente nel comunicare le prorie istanze sociali, ma forse un po’ meno nel portare originalità e freschezza, quindi leggermente inferiore per forza assoluta, dell’album precedente.

Clifford Jordan Quartet, Glass Bead Games (1974 ristampa 2019 Pure Pleasure 2LP)
Quinta uscita della Dolphy Series della Strata-East. Uno dei dischi più belli della Strata East e forse il gioiello della serie Dolphy, Questo è uno di quei pochi dischi in cui ogni elemento è perfetto, tutti i musicisti si elevano insieme a un nuovo livello di espressione. Il disco percorre un sentiero insolito tra post-bop, avanguardia anni 70 e spiritual jazz. Probabilmente la performance di sassofono più significativa su disco dai tempi di Coltrane. Il suono di Jordan, disinvolto mai forzato e di alto livello, cancella le distinzioni tra composto e improvvisato, solista ed ensemble, narratore e racconto. Anche il resto del gruppo non è da meno, con Stanley Cowell al piano, Bill Lee (padre di Spike) superlativo al basso e Billy Higgins come sempre unico alla batteria. In alcuni brani c’è Cedar Walton al piano che riesce a portare le cose in avanti con il senso di calore e immaginazione che lo ha sempre reso una delizia negli anni 70. Ogni pezzo è splendido! Ristampa Pure Pleasure come sempre superlativa!

EDDIE “LOCKJAW” DAVIS & PAUL GONSALVES: Love Calls (1968 ristampa 2014)
Chi non conosce bene i due protagonisti del disco, Davis spesso accostato a Count Basie e Gonsalves accostato a Duke Ellington, potrebbe nutrire non poche riserve circa il loro talento di interpreti di ballate, in quanto la fama di entrambi è legata a generi molto diversi. In questo disco, invece, viene messo in grande evidenza il lato meno conosciuto della loro personalità artistica. Il loro diverso approccio al genere della ballata contribuisce a rendere questo disco interessante e spesso addirittura sorprendente. Davis sfoggia un’articolazione chiara, sicurissima ed è tra i due il più trascinante ed appassionato. Gonsalves è morbido, insinuante e meno diretto, il suo fantasioso lirismo appare più tenero e talvolta malinconico, con un sound raffinato che cesella sottovoce i passaggi più delicati. In ogni caso, sia Davis sia Gonsalves passano con estrema disinvoltura dai toni più meditativi a scatenati empiti di energia. Senza ergersi mai a protagonisti fuori luogo, questi musicisti eseguono in maniera impeccabile la loro parte, con Hanna e Barksdale che prolungano e sottolineano gli spunti dei due solisti. Disco splendido da ascoltare a luce soffusa. Come sempre superlativa ristampa Pure Pleasure.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *