IL JAZZ EXTRALARGE: VINILI SFUGGITI AL CONTROLLO DEI RADAR

// di Bounty Miller //
Harold Mabern – «Rakin’ And Scrapin’», 1969
Registrato il 23 dicembre del 1968 al VanGelder Studio e dato alle stampe all’inizio dell’anno successivo, «Rakin’ And Scrapin’» di Harold Mabern fu il secondo di quattro album pubblicati per la Prestige come band-leader ed, insieme a «Greasy Kid Stuff!» del 1970, costituisce uno dei momenti più riusciti della sua discografia. Il disco fu realizzato con una validissima band di supporto: il trombettista Blue Mitchell, il sassofonista tenore George Coleman, il bassista Bill Lee e il batterista Hugh Walker. «Rakin’ And Scrapin’» non è un disco rivoluzionario, ma è un buon lavoro che segue il flusso e le coordinate del mainstream moderno dell’epoca, dove lo stile pianistico assai caratterizzato di Harold Mabern è sempre in primo piano, a volte aggressivo con accordi a raffica, altre capace di esprimere una profonda sensibilità. L’album si snoda su un tracciato in massima parte hard-bop. L’iniziale title-track, molto in odor di Jazz Messangers, lascia subito posto ad una lunga e flessuosa ballata, dal movimento esplorativo, che concede sia ai fiati di prima linea che al pianista di esprimersi con pathos e liricità, attraverso una piacevole alternanza. L’effetto è stupefacente, e forse solo gli otto e passa minuti di «Such Is Life» valgono il prezzo della corsa, soprattutto per gli animi più sensibili e i cacciatori di emozioni. La vera chicca dell’album è sicuramente «Aon», oltre nove minuti di eccellenza ed eccedenza pianistica, con la complicità di uno ispirato George Coleman al sax tenore, mentre la tromba di Blue Mitchell partecipa al torneo dell’hard-bop in maniera cavalleresca, ma con piglio deciso e determinato. Harold Mabern come al solito entra in modalità clustering alla McCoy Tyner. Il percorso sonoro del pianista leader non è mai prevedibile, con quel suo modo di suonare linee veloci in un’ottava a due mani e all’unisono, sempre con energia e lucentezza metallica. L’arrivo inatteso di una breve ma intrigante versione di «I Heard It Through The Grapevine» di Marvin Gaye, propone un Mabern molto «soul» alle prese con il piano elettrico. La conclusiva «Valery», è un bop up-tempo in cui Mabern solleva onde sonore alte ed increspate, quasi alla Art Tatun; i fiati sono in standby, mentre la basso e batteria fanno da propulsori alla progressione del pianista-leader. «Rakin’ And Scrapin’» è un disco piacevole, decisamente non prevedibile nella struttura, sicuramente da aggiungere alla vostra collezione.
Harold Ashby – «Scufflin’», 1978
Amanti del swing, armatevi e partite! Questo è un album che potete difendere a spada tratta e senza tema di smentita. «Scufflin’» fu il debutto come band-leader di Harold Ashby, talentuoso sassofonista tenore scomparso dai radar, sconosciuto alle masse e sottovalutato dalla critica; certamente uno dei migliori solisti al seguito di Duke Ellington durante il suo ultimo decennio. Harold Ashby, per il suon esordio come capitano di ventura in terra di Francia, portò sul set alcuni compagni di cordata, anch’essi forgiati nella fucina del «Duca»: il trombonista Booty Wood, il bassista Aaron Bell e il batterista Sam Woodyard, oltre al pianista Raymond Fol. Il risultato fu un ottimo album che si sostanzia in sei componimenti originali di Ashby dal vago sapore retrò, dove un semplice quintetto riesce a creare l’atmosfera delle grandi orchestre, tra cui spiccano in particolare la title-track, «Scufflin’», «Salty Mama», «Earma Jean» e «Quiet Nights». Harold si muove con disinvoltura e mano ferma, mescolando i vamp del suo potente tenore al colorato timbro del trombone di Booty Wood, distillando degli ottimi swing, alternati a ballate a base di zucchero filato ed intrise di sangue blues. Registrato al Sysmo Studio di Parigi il 17 maggio del 1978 e pubblicato dall’etichetta Black And Blue, «Scufflin’» è una moderna session di swing mainstream di alta scuola. Impossibile resistergli!
«Ethiopian Knights» di Donald Byrd, 1972
Siamo nel 1972 ed intorno al jazz regna il caos, ognuno cerca di trascinarlo da una parte e dall’altra, il free impazza, la contaminazione è forte, ma a volte diventa necessaria per sopravvivere all’interno di questo complesso universo musicale. «Ethiopian Knights» di Donald Byrd, pubblicato dalla Blue Note Records nell’aprile del 1972 e registrato presso gli A&M Studios di Los Angeles, è un ottimo disco di jazz a propulsione fusion, dove gli elementi di fusione diventano alcuni tracciati sonori che conducono alla Grande Madre Africa. In «The Emperor» della durata di oltre 15 minuti, le rimiche sono particolarmente incentivate, la componente melodica si muove tra flessuosi arabeschi e rimandi alle sonorità modali dei canti neri. «Jamie» esalta alla perfezione la confluenza tra stili e generi di matrice nera, l’incedere funkified e tagliente, in alcuni momenti, ci riporta in pieno clima metropolitano, dove magari è possibile trovare «un po’ d’Africa in giardino, tra l’oleandro e il baobab». Riflessi di cultura rastafari sono presenti in «The Little Rasti», la scelta dell’Etiopia come campo d’indagine, non è casuale. In questa lunga suite di quasi 18 minuti Donald Byrd lancia la sua infuocata tromba su una multi-dimensione ritmica assai interessante dove il tempo a volte cadenzato sembra procedere in levare, ma la strada e lunga ed i cambi di passo e di umore sono molteplici. «Ethiopian Knights» è basato solo 3 lunghi brani, impostati con un movimento concettuale espanso, i quali riempiono una piccola pagina della storia del jazz degli anni ’70.
Curtis Counce – «Complete Studio Recordings: The Master Takes», 2006
Curtis Counce, contrabbassista di notevole talento, è un altro di quegli incredibili personaggi da scoprire. Morto a soli 37 anni, nella sua breve carriera ebbe modo di incidere solo quattro album come band leader, un disco postumo venne dato alle stampe nel 1989, mentre la sua attività si sostanzia attraverso la partecipazione ad innumerevoli set in qualità di sideman specie sul versante West Coast del jazz. Questo doppio CD antologizza alcune pubblicazioni degli anni ’50 quando Counce guidava un quintetto con il trombettista Jack Sheldon, il sassofonista tenore Harold Land (poco dopo aver lasciato il gruppo di Clifford Brown/Max Roach), il pianista Carl Perkins ed il batterista Frank Butler. Il doppio CD contiene essenzialmente tre album: «Landslide», «You Get More Bounce» e «Carl’s Blues» con l’aggiunta di alcune take alternative e qualche variazione di line-up: ventisei tracce in tutto.. ed è magia, dalla prima all’ultima nota.
Count Base Orchestra – «High Voltage», 1970
Quando nel gennaio del 1970 Count Basie entrò nello studio con la suo ensemble di 17 elementi per registrare «High Voltage», diede inizio ad una nuova fase artistica. L’orchestra aveva lasciato la propria impronta negli anni sessanta registrando con contanti del calibro di Frank Sinatra ed Ella Fitzgerald. Altri album con vocalist a vario titolo non mancarono anche a partire dagli anni ’70, ma i lavori puramente strumentali caratterizzeranno l’ultimo decennio di attività di Count Basie. A quel tempo Basie aveva ingaggiato il compositore e arrangiatore cubano Chico O’Farrill per la direzione musicale di album come «Basie Meets Bond» e «Basie’s Beatle Bag», a cui aveva conferito un sound ed uno stile inconfondibile. In «High Voltage» Chico O’Farrill dimostra la sua affinità con il progetto di Basie, lavorando essenzialmente su un repertorio standard. Per questo album, Basie indicò dei classici che la sua orchestra, in 30 anni di attività, non aveva mai eseguito prima. Il repertorio scelto copre quasi tutta la storia del jazz, dall’età dello swing al bop degli anni ’50 e ’60. Il batterista Harold Jones spinge «Chicago» di Fred Fisher con una propulsione energica oltre ogni immaginazione. Il classico di Rogers e Hart «Have You Met Miss Jones» presenta accattivanti linee di sassofono che toccano il registropiù profondo dello strumento ed un pianoforte dal sapore languido. Intrigante il flauto di Eric Dixon in «The Lady Is A Tramp». Il tenore di Eddie Lockjaw Davis domina in «Bewitched» con fumosa e brunita eleganza, mentre l’assolo in sordina di Joe Newman, trombettista ospite, emerge in tutt ala sua magnificenza nell’esecuzione di «Day In Day Out». Lo stesso Basie fa un passo avanti nello stile, particolarmente nell’intro di «I’m Getting Sentimental Over You» di Fats Waller. In «If I Were A Bell» le note sono assai giocose, mentre il confidenziale approccio di «Reminiscent Of The Las Vegas» dimostra che quella compagine di eccellenti strumentisti, in passato, si era esibita con Frank Sinatra. In «Get Me To The Church On Time» il dialogo magistrale tra le sezioni fiati è un esempio di alta accademia della musica. Un album imprescindibile per chi ama il jazz nel formato big band.