MORTO A 92 ANNI AHMAD JAMAL, UNA DELLE FIGURE PIÙ CONTROVERSE DEL JAZZ MODERNO
// di Francesco Cataldo Verrina //
Dopo una lunga malattia, si è spento il 16 aprile ad Ashley Falls, nel Massachusetts, il pianista Ahmad Jamal.
Ahmad Jamal, morto ‘all’età di 92 anni, è stata una delle figure più controverse del jazz moderno. Per molto tempo considerato un personaggio minore e, da alcuni critici, un «buon pianista da cocktail bar», fu uno dei primi ad allontanarsi dallo stile tipico imposto dai pianisti bebop nel solco di Bud Powell. Al netto di ogni giudizio di valore sul suo operato, Jamal è stato capace di forgiare un pianismo originalissimo: risulta davvero difficile poterlo omologare ad una determinata corrente di pensiero, ad una ben precisa area d’influenza o individuare un predecessore di riferimento: uno, nessuno, centomila. A mio avviso, esistono vari fattori che condizionarono il giudizio sul pianista di Pittsburgh. Proviamo ad enuclearne qualcuno: in primis il fatto che fosse «nero» in un momento in cui la stampa di settore, specie la critica euro-centrica, aveva iniziato a magnificare alcuni jazzisti bianchi portatori di un pianismo classicheggiante e stucchevole: in seconda istanza il fatto di avere scelto per la propria identità religiosa un nome «musulmano», un contrassegno saliente che spaventava molto la lobby giornalistica e l’editoria giudaico-cristiana. Ahmad Jamal nasce nel 1930 come Frederick Russell Jones in una famiglia assai modesta della working-class. Sarà la madre a noleggiare un vecchio pianoforte su cui il giovanissimo Frederick inizierà a esercitarsi ed a studiare. Tra il 1950 ed il 1951, due avvenimenti saranno determinati per la sua carriera: il trasferimento a Chicago e la conversione all’Islam. Passerà molto tempo prima che a Jamal vengano riconosciuti taluni meriti: finalmente, all’età di sessantaquattro anni, dopo un quarantennio passato a suonare in lungo ed in largo tra Europa ed America, incidendo decine di album, nel 1994 è nominato Jazz Master dal National Endowment of the Arts.
Su Ahmad è stato detto e scritto tutto ed il contrario di tutto, ma il giudizio di Miles Davis (individuo scontroso per natura e non certo prodigo di complimenti) vale molto più di quello di centinaia di critici messi insieme. Jamal fu uno dei pianisti preferiti da Miles, tanto da influenzare lo stile dello storico primo quintetto del trombettista, il quale raccontò: «Mia sorella mi chiamò da una cabina telefonica del Pershing Lounge di Chicago e mi disse (…) Senti, c’è un pianista che sto ascoltando in questo momento, si chiama Ahmad Jamal e penso che ti piacerà. Lo andai a sentire quando fui a Chicago e mi entusiasmò con il suo uso dello spazio, la sua leggerezza, il suo understatement, il suo lirismo e il suo fraseggio». Si racconta che un bel giorno (situazione verosimile, conoscendo il soggetto) pare che Miles avesse perfino detto al suo pianista Red Garland: «Suona come Jamal». Storia o leggenda, non è dato di sapere, ma sta di fatto che Davis, in quegli anni, tenesse il musicista di Pittsburgh in grande considerazione difendendolo dagli attacchi della stampa: «Tutta la mia ispirazione viene da Ahmad (…) Ho sempre pensato che Jamal fosse un grandissimo pianista che non ha mai avuto il riconoscimento che gli spettava». Miles aggiunse al proprio repertorio «But Not For Me», «Billy Boy», «The Surrey With The Fringe On Top», secondo gli arrangiamenti e i trattamenti operati da Jamal.
Il produttore discografico John Hammond fu uno dei primi ad intercettare il talento di Jamal mettendolo sotto contratto nel 1951 con la Okeh, sussidiaria della Columbia Records, quando il pianista aveva appena ventun anni. Tra il 1951 e il 1955, Jamal registrò per l’etichetta di Hammond alcuni classici intramontabili, oggi raccolti in un doppio CD «The Legendary Okeh & Epic Recordings» (Columbia Legacy, 2005). Solo nel 1958, però, grazie al successo dell’album dal vivo «But Not For Me: At The Pershing» (Argo/Chess), Jamal iniziò ad aprirsi un varco nell’affollata scena jazz statunitense. Il disco vendette due milioni di copie, raggiungendo il terzo posto della classifica nazionale degli album e rimanendo per oltre due anni tra i più venduti, merito soprattutto di una straordinaria versione di «Poinciana» lunga oltre otto minuti, ma che per paradosso, solo quando venne ridotta alla lunghezza di un singolo ed inserita nei juke-box, iniziò a trascinare tutto l’album verso la vette dalle charts. Nel suo film «I Ponti di Madison County» del 1995, Clint Eastwood, noto appassionato di jazz, utilizzò due brani tratti da «But Not For Me»: la celeberrima «Poinciana» e «Music, Music, Music».
Il Pershing Hotel di Chicago, situato tra la 64esima strada e Cottage Grove, negli anni Cinquanta, durante il giorno veniva utilizzato principalmente per ospitare militari in trasferta, ma di notte si trasformava in uno dei jazz club più influenti al di fuori del perimetro newyorkese. Il pubblico, quasi completamente di colore, aveva il piacere di ascoltare la crema del jazz, tra cui Charlie Parker, Sun Ra e Dizzy Gillespie. Per paradosso, però, il locale assurse agli onori delle cronache soprattutto per essere stato il luogo in cui venne concepita l’opera magna di Ahmad Jamal, «But Not For Me». Quel trio composto da Jamal al pianoforte, dal bassista Israel Crosby e dal batterista Vernel Fournier, nel 1958, era la house band del Pershing Hotel, tanto che questo disco fu fissato su nastro durante una normale serata nel salone dell’albergo. Durante il set si può sentire la gente che si agita e che ordina persino da bere. L’atmosfera della lounge si adatta bene alle vibrazioni di Jamal, permettendo all’ascoltatore di farsi un’idea del mood contenuto nella registrazione e di apprezzare la capacità del trio nel saper intercettare l’umore ambientale. A livello di percezione epidermica, si ha la sensazione di un piano-jazz relativamente poco impegnativo. In realtà, Jamal e soci stavano concependo un modello differente di piano-trio, certamente alternativo a quello dilagante e manieristico, attraverso una performance che va considerata come un case-study. Non si può fare a meno di percepire qualcosa di radicalmente nuovo nelle regole d’ingaggio di Jamal e compagni. Il modo in cui il pianista usa lo spazio, le pause ed silenzio sono ancora oggi sorprendenti. Un metodo che aveva sedotto letteralmente Miles Davis, il quale non amava il pianoforte invasivo e ridondante.
Un successo annunciato, poiché Jamal il cui virtuosismo ben nascosto era in agguato, per lunghi anni si era tenuto dentro un potenziale che ora in quella dimensione minimale e con due sodali molto gregari e poco protagonisti, ma funzionali come un orologio svizzero, iniziava a debordare. Un successo, altresì, da molti ritenuto eccessivo a fronte di un album dal vivo che dura solo ventinove minuti, caratterizzato da un’interazione molto stretta e formale tra i musicisti che si dilettano ad intrattenere il pubblico con una manciata di standard, soprattutto mentre cercano di sbarcare il lunario con un concerto di routine, da cui non traspare nessuna tensione o ansia da prestazione da live-set registrato: è come se i tre musicisti non ne avessero consapevolezza o come se qualcuno li stesse registrando a loro insaputa; si tratta solo della singolare istantanea di una serata normale. A prescindere dalla sua genesi, «But Not For Me» ha finito per diventare un classico, nonché un long seller del jazz moderno, fissando nella mente di molti i punti di ancoraggio di una sonorità distintiva, inequivocabilmente attribuibile ad Ahmad Jamal. Per i «grossisti», ossia per coloro che giudicano i dischi a minutaggio, esiste una seconda uscita con altri brani tratti dagli stessi live-set. Entrambi gli album, pubblicati separatamente su vinile, sono stati accorpati in un CD come «But Not For Me: Ahmad Jamal Trio At The Pershing e Jamal at the Pershing Volume Two», a dimostrazione che quelle due serate al Pershing Lounge di Chicago avevano molto di più da offrire: si tratta di venti brani per oltre settanta minuti di musica.
Ci siamo chiesti più volte perché l’approccio unico di questo trio pianistico e il materiale scelto non siano mai diventi un modello, un paradigma ispirativo per una pletora di pigia tasti venuta dopo. Probabilmente perché quei precisi cambi di ritmo, di velocità, di umore e quella riduzione minimalista avrebbero richiesto esecutori dalle attitudini non convenzionali e poco scolastiche. Nel 1958 il jazz moderno si preparava a nuove sfide, molto si basava ancora sull’esecuzione e sulla libertà interpretativa del singolo performer: in tanti iniziavano a prendere le distanze dal «gregge», caratterizzandosi attraverso un preciso modus agendi. All’epoca, Jamal non era un rivoluzionario o un uno sperimentatore (lo è stato di più quando è stato apprezzato dagli artisti hip-hop), ma aveva un tratto unico, quello che piaceva a Miles: in lui c’era sempre una moderazione quasi «avventurosa», una forza tranquilla negli accompagnamenti che consentiva ai sodali di emergere, ma senza eccessi competitivi e sovrapposizioni di tipo hard-bop. Nello specifico, «At the Pershing: But Not for Me» è completamente incentrato su Jamal. Sia Crosby che Vernel Fournier fanno un ottimo lavoro di sostegno, ma l’obiettivo del trio sembrerebbe quello di evidenziare l’inequivocabile il singolare tocco del pianista.
Il modo di suonare di Jamal è superbo e moderato al contempo, costantemente alla ricerca di uno spunto evasivo, sempre emozionante. È incredibile quanto quel pianoforte, a volte cauto, spaziato e razionale, riesca a trasportare la mente del fruitore lontano ed a zonzo per una dimensione spazio-tempo non circoscrivibile. Prendiamo la sua versione di «But Not for Me»: un altro pianista avrebbe potuto allungare il brano, esplorarne i cambi di accordi, trasformare la melodia. Per contro, Jamal arriva direttamente al cuore emotivo del componimento, mettendone a nudo tenerezza e malinconia. L’album inizia in maniera relativamente rilassata con la suddetta «But Not for Me» e «Surrey With The Fringe At The Top». Entrambe le rielaborazioni sono giocose e mettono in mostra la capacità di Jamal di intercettare in modo impeccabile i punti di forza dei due sodali. In alcuni momenti traspare la sua natura di sperimentatore e cesellatore di note singole e ricercate come in «Surrey With The Fringe At The Top» ma, per lo più, tutte le tracce si mantengono nel solco della tradizione. «Moonlight In Vermont» è una delle esecuzioni più riuscite, in cui la mano destra e quella sinistra di Jamal sembrano strumenti completamente diversi: mentre la destra tintinna delicatamente sulle le note più alte del pianoforte, la sinistra mescola un complesso sistema di melodie, creando un paesaggio intricato e seducente. Il pianista ha l’abilità di mantenere il costrutto melodico-armonico sempre vivace, perfino durante i cambi di tempo e i momenti di silenzio. È il silenzio l’elemento topico in cui l’abilità di Jamal emerge e si mette in mostra: in lui c’è alcun desiderio di riempire o infittire ogni anfratto del costrutto sonoro, tanto da lasciare alcuni secondi di «aria ferma». L’esempio più lampante è «Poinciana». Mentre la batteria e il basso suonano ritmi ripetitivi e swinganti, Jamal entra ed esce dall’inquadratura del set principale, scompare per alcuni secondi e poi torna come se non fosse mai andato via, creando un intrigante aura di sospensione.
«But Not For Me: Ahmad Jamal Trio At The Pershing» è un disco ideale come sottofondo per le più svariate circostanze intime, private o collettive, ma anche come ascolto con un potente impianto hi-fi a tutto volume: le ultime ristampe sia in vinile che CD sono di eccellente qualità audiofila. Un consiglio: il disco va ascoltato per intero e nella sequenza programmata, diversamente si perde l’armonioso incanto del costrutto sonoro, soprattutto non c’è da stupirsi se questo lavoro, dopo sessantacinque anni, ancora oggi suoni fresco ed attuale. Con il supporto discreto e non invasivo di Israel Crosby e Vernell Fournier, il pensiero eterodosso di Jamal corre ad Erroll Garner, ma solo nel suo approccio esecutivo al buon umore ed nel ricorso a vasti tratti del Great American Songbook, punteggiato da qualche occasionale brano bop; per il resto il pianista di Pittsburgh è rimasto per tutta la sua carriera «un uomo a sé stante» e non può essere confuso o allineato a nessun altro musicista.