L’ ARTE DEL TRIO. ANTONIO ARTESE TRIO CON “TWO WORLDS” (ABEAT, 2022)

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Two-Worlds_Copertina_CD

// di Roberto Biasco //

Antonio Artese, classe 1961, è un pianista, compositore e didatta di lungo corso, la cui carriera, sempre a cavallo tra una solida formazione classica e l’amore per il Jazz, lo ha condotto in un lungo percorso tra l’Italia e l’America, o per meglio dire tra il natio Molise e l’Università di Santa Barbara in California, presso la quale la quale ha risieduto per lunghi periodi tra il 1992 ed il 2003, conseguendo nel 2000 il titolo di Doctor of Musical Arts sotto la guida di Peter Yazbeck e Paul Berkowitz. Ed i “due mondi” cui rimanda il titolo del suo ultimo lavoro potrebbero avere una doppia valenza. Da una parte, come afferma l’autore: “La mia musica è un frutto ibrido: un crossover fatto di assidue frequentazioni di musica “colta”, la classica per intendersi, di jazz, e di improvvisazione. Alla mia formazione classica devo la tecnica pianistica, la lettura a prima vista, l’orecchio per i dettagli, l’approccio al suono, e l’umiltà di doversi misurare con un repertorio infinito e le lezioni dei grandi interpreti. Al jazz devo il senso e il gusto per la complessità armonica, per l’improvvisazione nelle forme, il ritmo e lo swing, e soprattutto l’eterno gioco di interplay, una gioia unica che si prova ogni qualvolta si suona con i compagni di avventura”.

L’altra chiave di lettura è proprio quella geografica, che a ben guardare è l’altra faccia di quella culturale appena enunciata: i “due mondi” potrebbero essere proprio l’Europa della tradizione classica colta, e l’America del Jazz, in un incontro che si realizza in questo disco che, parafrasando Dvorak, potrebbe chiamarsi il “Trio dal Nuovo Mondo”. Antonio Artese si inserisce quindi nella lunga storia del classico “modern trio” di pura tradizione jazzistica, con un approccio “colto” che- semplificando – ha avuto il suo capostipite nella rivoluzione copernicana operata da Bill Evans negli anni a cavallo tra il 1958 e il 1960, quando il contrabbasso e la batteria furono definitivamente liberati dalla schiavitù del ruolo di pura sezione ritmica, per essere proiettati all’interno di un rapporto interattivo “inter pares”. In questa sede possiamo ricordare, in una rapida volata, almeno l’enorme eredità del Trio di Keith Jarrett, e poi, tra gli altri, l’E.S.T. – Esbjörn Svensson  Trio – e, in anni più recenti, quello di Brad Mehldau, senz’altro il più significativo punto di riferimento in ambito contemporaneo.

Il Trio di Antonio Artese si muove quindi nel solco di questa grande tradizione, affidando appunto a Stefano Battaglia al contrabbasso e ad Alessandro Marzi alla batteria il compito di interlocutori privilegiati. Lo dimostra il brano di apertura che dà il titolo al disco, che ci introduce da subito nelle atmosfere dei “due mondi” dell’autore, lasciando spazio ad un incisivo assolo al contrabbasso di Stefano Battaglia. “Prelude” si dipana su tempo dispari in un sognante volo pianistico a metà strada tra Chopin e Bill Evans. “Julita” a firma del pianista, e il tradizionale “Lila”, sono due suadenti ballads che dimostrano le qualità di Artese sia come compositore che come arrangiatore, impreziosite dal suo tocco lieve, di alta classe, sui tasti del pianoforte. “Icarus” è invece un classico pezzo modale basato su un pedale di basso continuo, ancora su tempo dispari, sul quale il trio può sviluppare tutte le sue capacità improvvisative stimolate dai cambi di atmosfera che caratterizzano il brano.

La sezione ritmica è nuovamente in bella evidenza con batteria di Alessandro Marzi e il basso di Stefano Battaglia che incalzano il pianoforte sul tappeto ritmico dagli accenti rock di “Niente”. Ulteriore valore aggiunto all’opera è il fatto che – salvo il tradizionale “Lila” – non ci sono rivisitazioni dei classici standard dell’American Songbook, l’album si snoda attraverso tutte composizioni originali a firma del pianista. L’unica eccezione, l’arrangiamento di “Un Bel Dì Vedremo” , celeberrima aria dalla Madama Butterfly di Giacomo Puccini, quasi un manifesto programmatico del lavoro di sintesi operato da Artese, nel tentativo – in questo caso riuscito – di fondere la poetica dei “due mondi” del titolo; come afferma il musicista stesso : “Per molti il mondo dell’opera e quello del jazz sono distanti e inconciliabili.  Eppure nella mia vita questi due mondi hanno sempre convissuto in maniera armonica, senza sopraffarsi, anzi, arricchendosi reciprocamente”. “Voyage”, una composizione già incisa in quartetto nel precedente album del 2019, va a chiudere in bellezza con uno dei pezzi forti del disco, riportandoci alle atmosfere di apertura di “Two Worlds”. In conclusione un album di notevole spessore compositivo, ma anche di grande eleganza e piacevole ascolto, che grazie alle sue atmosfere sognanti possiede le potenzialità per raggiungere un pubblico più ampio di quello dei cosiddetti cultori del genere.

Antonio Artese

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