UNO DEI LIVE PIÙ BELLI DELLA STORIA DEL JAZZ: DEXTER GORDON CON «HOMECOMING / LIVE AT THE VILLAGE VANGUARD», 1977

// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel corso di una lunga attività Dexter Gordon è stato protagonista di tre cosiddetti come back home: il primo nel 1960, quando iniziò la collaborazione con Blue Note, il secondo dopo una tormentata battaglia per uscire dalla tossicodipendenza e il terzo nel 1986 quando, dopo aver partecipato come attore al film omonimo, decise di reinterpretare «’Round Midnight». La lunga versione di oltre tredici minuti, presente nel doppio «Homecoming – Live At The Village Vanguard», documenta in maniera palese la linfa vitale ritrovata da un gigante del sax tenore, la cui stella sembrava oramai tramontata.
L’album segnò il suo trionfale ritorno negli Stati Uniti dopo quasi quindici anni di esilio europeo autoimposto. Nessuno, specialmente Dexter, al suo ritorno a New York, avrebbe potuto immaginare la reazione dei giovani cultori del jazz americano, quasi in adorazione, che si accalcavano letteralmente in massa per sentirlo suonare. È difficile per noi immaginarlo ora, ma Dexter era diventato una figura sbiadita nei ricordi. Il bop e l’hard bop dei pionieri erano caduti in disuso, andando fuori moda, spinti ai margini da inclinazioni più commerciali come la fusion e lo smooth jazz, che rappresentavano le pietanze del momento. In quegli anni di magra per il jazz moderno, non ci si aspettava che il suo ritorno producesse ondate di entusiasmo, anche se parliamo di un capofila che aveva influenzato personaggi come John Coltrane e Sonny Rollins. La prima esibizione allo Storyville Club fu un successo eclatante, come lo stesso Gordon ebbe a commentare: «Fu semplicemente travolgente, ho notato che in Europa, dove vivo e lavoro, ci sono molti nuovi giovani sostenitori del jazz, ma non ero preparato per questa accoglienza in patria, cosa posso dire?». Chiunque si aspettasse che Gordon, allora cinquantatreenne, potesse aver perso qualche colpo, fu rapidamente smentito dai fatti. Le note di copertina descrivono una scena al Village Vanguard in cui Charles Mingus, (i due avevano suonato insieme ai tempi del liceo a Los Angeles), lo aveva osservato durante quella settimana di prove, sollecitandolo con urla e risate e proclamando: «Sì, sì, stai insegnando a New York alcune cose, amico mio, lezioni di jazz e di vita!». Onore e merito al lavoro di Dexter, ma l’altro contrassegno saliente di questo album fu la presenza di Woody Shaw, una scelta azzeccata al fianco del sax tenore.
Woody Shaw viene spesso definito l’ultimo grande innovatore della tromba jazz. In «Homecoming» non delude: il tono infuocato e la sua messa a punto della partitura completano perfettamente il lavoro di Dexter. Il rispetto che egli ebbe per Shaw fu evidente, scegliendo di registrare due delle composizioni del trombettista da includere nell’album: «Little Red’s Fantasy», seconda traccia sulla prima delle quattro facciate, che si muove sul mezzo-tempo, dove il call-and-response fra il sassofono del capo e la tromba del socio di maggioranza diventano un esempio di alta scuola jazz. Dexter sembra contenuto e frena il sassofono spaziando i tempi come se fosse una tromba e spianando il terreno al sodale, il quale suona la tromba come un sax, allargandone gli spazi, in particolare in «In Case You Haven’t Heard», un classico hard bop, senza troppe concessioni alle pause di riflessione, quasi in odor di Coltrane. Shaw, nella sua carriera, aveva rivoluzionato le capacità tecniche e la concezione armonica della sintassi improvvisativa del proprio strumento, introducendo degli andamenti melodici solitamente impiegati nel sassofono, ovvero l’utilizzo frequente di intervalli di quarta e di quinta durante l’improvvisazione. Questi elementi di modernismo fecero di lui uno degli innovatori della musica afro-americana.
Gli otto brani dell’album sono delle progressioni estese della durata di più di dieci minuti ciascuno, il che equivale a due tracce per lato in un doppio album. Questo permette a tutti musicisti di muoversi da protagonista ed esprimersi liberamente. Gordon lascia cadere molti dei suoi «riferimenti» negli assoli, mentre i veterani Ronnie Matthews, Stafford James e Louis Hayes (che avevano suonato insieme a Shaw in varie occasioni negli anni ’70) sono in uno stato di grazia ed apportano entusiasmo ed inventiva. La facciata A del primo disco inizia con una dichiarazione d’intenti: si capisce subito che i «vecchietti» fanno sul serio: «Gingerbread Boy» è un irrequieto hard bop condotto a briglie sciolte dal capo branco, al cui fianco si schierano tutti i sidemen con uguale importanza di peso e di portata, soprattutto in maniera tradizionale: uno lascia e l’altro prende. La vera novità è l’energia ritrovata. Uno dei momenti più riusciti dell’album è la prima traccia della seconda facciata, «Fenja», qui ritroviamo Gordon in tutto il suo splendore esecutivo e creativo: è una sua composizione e lo stile è quello del suo album forse più celebre, «Go!» del 1962; mentre la tromba di Woody Shaw al momento dell’assolo centrale, per quanto impeccabile, sembra non voler sfidare troppo il sassofono che a certe latitudini sonore procede sicuramente più spedito; la sezione ritmica sembra invece assecondare con disinvoltura il gioco del leader.
Ognuno di essi aveva attinto energia viva dal pubblico festante ed erano stati tutti al climax delle loro possibilità espressive, rendendo «Homecoming» non solo la testimonianza documentata del ritorno di Dexter Gordon in America, ma anche un impareggiabile disco di jazz moderno. Quando «Homecoming» venne pubblicato nel 1977, il bop era riservato ad un ristretto gruppo di cultori, per lo più attempati e nostalgici, la scena musicale mainstream lo aveva quasi abbandonato come una reliquia del passato. Eppure, come abbiamo imparato negli anni, gli stilemi jazz più praticati ed influenti, ancora oggi, non sono la fusion o il free jazz, ma il bebop (e la sua componente evolutiva, ossia il post bop) in tutta la sua imperitura gloria, attraverso personaggi immortali come Charlie Parker, Sonny Rollins, John Coltrane. Ancora una volta, Dexter Gordon appariva come un innovatore, o meglio un «rinnovatore», solo che questa volta non guardava al futuro, ma stava ricordando al mondo come certa musica non fosse passata mai di moda, ma era sempre lì che aspettava, pronta ad essere riscoperta da una nuova generazione di appassionati. Non solo i critici elogiarono il sassofonista come non era mai accaduto prima, anche nel passato, quello dei giorni migliori alla Blue Note, ma il tributo di interesse e di simpatia da parte dei giovani, che si sottoponevano a code lunghissime per vedere le sue esibizioni, fu davvero una manna dal cielo e un corroborante naturale per un manipolo di musicisti non proprio di primo pelo.
«Homecoming – Live At The Village Vanguard», proposto in un album doppio come era consuetudine negli anni 70, fu il frutto delle registrazioni del suo primo tour americano, di ritorno dall’esilio europeo. Capo guerriero in un quintetto con il trombettista e flicornista Woody Shaw, il pianista Ronnie Mathews, il bassista Stafford James e il batterista Louis Hayes, Gordon rispolvera il suo potentissimo mantice e soffia nello strumento con una vitalità unica, suonando con la forza di un vulcano e l’esuberanza di un ventenne, ma con tutta l’esperienza dei un vecchio marpione, il quale sa quando è il momento di arretrare e come condividere la scena con i suoi preziosi partners, dando il senso della collegialità. Come già precisato, i brani si srotolano su lunghezze non comuni: c’è spazio per tutti ed ognuno sa come colmarlo. L’eccitazione di quei concerti, racchiusa nell’album come in uno scrigno prezioso, è ancora viva e può sicuramente essere percepita.
