«Vocativo (Live at Concertgebouw»: la polifonia culturale di Stefano Bellon, tra jazz, avanguardia e poesia (Caligola Records, 2025)

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La capacità di coniugare strumenti occidentali e tradizioni strumentali asiatiche, permette a Bellon di dare corpo ad una scrittura che non si limita alla citazione esotica ma si nutre di un’autentica traslazione culturale.

// di Irma Sanders //

Il tracciato sonoro di Stefano Bellon, compositore padovano nato nel 1956, si colloca all’incrocio di molteplici eredità e tensioni culturali che hanno attraversato la musica d’arte europea della seconda metà del Novecento. Formatosi dapprima sotto la guida di Wolfango Dalla Vecchia e poi perfezionatosi accanto a Franco Donatoni presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e l’Accademia Chigiana di Siena, Bellon ha potuto beneficiare di un apprendistato in cui il rigore della tradizione contrappuntistica si annodava all’audacia speculativa delle avanguardie. Nondimeno, la sua evoluzione ha beneficiato della frequentazione dei seminari di Salvatore Sciarrino, Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen, nonché corsi di analisi con Giacomo Manzoni. nomi che da soli basterebbero a disegnare una mappa delle tensioni estetiche più radicali del secondo Novecento, fra lirismo rarefatto, architetture seriali e dissoluzione timbrica. Parallelamente, la sua giovinezza fu segnata da un rapporto viscerale con il jazz, dapprima praticato come pianista, poi rielaborato attraverso il lavoro di arrangiatore; elemento che ritornerà carsicamente nella sua scrittura, in particolare nel dialogo con forme orchestrali non convenzionali e con la dimensione improvvisativa. Da molti anni docente di composizione presso il Conservatorio Cesare Pollini di Padova, Bellon ha inoltre intrattenuto un fitto rapporto con l’elettronica, grazie alla collaborazione con Alvise Vidolin, personalità cardine della sperimentazione italiana in tale ambito.

Il suo percorso compositivo, inizialmente vicino alle posizioni donatoniane ed alla lezione di Luciano Berio, si caratterizza per un’apertura dialettica verso linguaggi eterogenei, inclusi materiali provenienti da culture extraeuropee, con particolare predilezione per il mondo asiatico. Tale attitudine non è riducibile ad un semplice sincretismo di superficie, bensì si sostanzia in un’accurata assimilazione di idiomi e procedimenti, trasfigurati all’interno di una grammatica post-seriale che conserva la ricchezza analitica ma la piega ad un nuovo lirismo, spesso segnato da un’ironia colta e da un gusto per il paradosso. Non a caso, uno dei suoi lavori più noti resta «Paul McCartney Commentaries», tributo beriano tanto per il titolo quanto per l’atteggiamento, eseguito alla Biennale Musica di Venezia nel 1995, in cui la riflessione sull’immaginario pop si traduce in uno smottamento continuo delle coordinate linguistiche. «Vocativo (Live at Concertgebouw)», pubblicato dalla Caligola Records, costituisce il primo titolo interamente consacrato al catalogo belloniano, benché la sua musica sia già apparsa in numerose antologie ed incisioni collettive. Il lotto, che riunisce quattro lavori composti in un arco temporale di circa un decennio, si presenta come un autentico compendio della poetica del compositore: da «Paul McCartney Commentaries» (1995) ad «Alfabeto Deserto» (2006), passando per la suite vocale «Vocativo» e per il concerto «Snakes, Skin And Strings». Si tratta di registrazioni dal vivo realizzate in contesti di assoluto prestigio, in particolare al Concertgebouw di Amsterdam, luogo simbolico in cui il canone sinfonico europeo è stato continuamente messo alla prova e rinegoziato da generazioni di interpreti.

La presenza dell’Atlas Ensemble, formazione unica nel suo genere per la capacità di coniugare strumenti occidentali e tradizioni strumentali asiatiche, permette a Bellon di dare corpo ad una scrittura che non si limita alla citazione esotica, ma si nutre di un’autentica traslazione culturale. In «Snakes, Skin And Strings» spicca la partecipazione della virtuosa cinese Yan Jiemin all’erhu, strumento il cui timbro acuto e tagliente viene incastonato in un contesto orchestrale che ne esalta tanto le qualità liriche quanto le asperità. L’opera si presenta come un concerto che non è mai mera esibizione solistica, ma piuttosto un fitto gioco dialettico, in cui le risonanze della tradizione cinese si confrontano con la grana orchestrale europea, creando una tensione che risulta al tempo stesso attrito e sintesi. Altro vertice del disco è la composizione eponima. «Vocativo», affidata alla voce di Pino Mango, interprete in apparenza lontano dall’universo della sperimentazione contemporanea, ma capace di restituire con sorprendente efficacia la tessitura poetica dei testi di Andrea Zanzotto. La vocalità di Mango, ricca di sfumature e di una naturalezza timbrica non comune, diviene veicolo di una poesia scabrosa e frammentaria, restituendone l’inquietudine e l’arduo impasto fonico. L’inedita convergenza fra un cantautore dalla vocalità inconfondibile ed una scrittura infarcita di stratificazioni intellettuali rappresenta uno degli episodi più riusciti dell’intero disco, inducendo a riflettere su quanto il repertorio contemporaneo possa trarre linfa vitale da contaminazioni insolite e non programmatiche. «Alfabeto Deserto», concerto per flauto, corno inglese ed orchestra, si colloca agli antipodi di questo lirismo vocale. L’opera articola un intricato ordito, generato da due strumenti a fiato dalla diversa fisionomia timbrica, l’uno trasparente e guizzante, l’altro scuro e pastorale, che Bellon conduce in un viaggio in cui la dialettica si traduce in evocazioni di paesaggi sonori aridi, costellati di silenzi, sospensioni e rapide fioriture. La metafora dell’alfabeto e del deserto suggerisce una scrittura che si interroga sul senso stesso della comunicazione musicale, quasi un laboratorio fonetico tradotto in orchestrazione. Infine, «Paul McCartney Commentaries» appare come il tassello più ironico e meta–musicale del ciclo, testimonianza di un atteggiamento che Bellon condivide con Berio, ossia quello di un compositore abile nel confrontarsi con l’immaginario della cultura di massa senza scadere nella parodia, ma vergando tali riferimenti all’interno di un sistema di allusioni e deformazioni. L’esecuzione del Nieuw Ensemble, catturata in presa diretta, restituisce con precisione la dimensione teatrale e performativa di una partitura che sembra costantemente oscillare fra la riflessione critica e l’irriverenza.

Il merito dell’album risiede non soltanto nell’eccellenza delle interpretazioni, tutte di altissimo livello tecnico e di rara sensibilità estetica, ma anche nella capacità di mostrare il ritratto a più facce di un autore ingiustamente marginale nel panorama italiano. L’auspicio è che tale pubblicazione possa restituire a Stefano Bellon la visibilità che merita, portando nuova attenzione ad un percorso compositivo che non ha mai rinunciato al rischio ed alla complessità. Degno di nota, infine, il richiamo ad altre recenti esperienze dell’autore, come «Note sui Sillbari (omaggio a Goffredo Parise)» del 2022, in cui il dialogo con la parola letteraria si rinnova grazie ai testi di Vitaliano Trevisan, testimonianza ulteriore di un itinerario sempre teso a misurarsi con la polifonia delle arti e delle culture.

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