Fabio Bagatin tra Classica, Jazz e Intelligenza Artificiale

Fabio Bagatin
// di Guido Michelone //
D In tre parole chi è Fabio Bagatin?
R Musicista, informatico, curioso
D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?
I miei ricordi sono in parte influenzati dai racconti di mia madre, che mi descriveva come un bambino di pochi mesi che, appena sentiva della musica alla radio, cercava subito la sua mano per ballare, e crescendo passava il tempo a cantare mentre giocava. Tra le memorie più vive della mia infanzia c’è però il suono dell’organo: quello strumento, con i suoi molteplici registri e la potenza del ripieno, ha avuto sicuramente un ruolo importante nel mio avvicinamento all’orchestra. Un altro momento catartico è stato assistere a un concerto di Pollini con Abbado nell’“Imperatore” di Beethoven: l’intesa tra pianista, direttore e orchestrali, la loro comunione di intenti, la precisione e la bellezza del suono mi hanno profondamente colpito, lasciandomi un ricordo indelebile
D Come definiresti la tua attività? Musicista, musicologo, organizzatore, direttore d’orchestra o tutto insieme o altro ancora?
R Definire la mia attività non è semplice, perché il ruolo di direttore d’orchestra comprende, e va ben oltre, quello del semplice musicista o musicologo. Oltre a conoscere a fondo la musica e la sua storia, un direttore deve essere capace di molte altre cose. Come racconta Leonard Slatkin nel suo libro “Conducting Business”, il direttore d’orchestra è allo stesso tempo padre, madre, psicologo, insegnante, CEO, team leader, supervisore alla produzione, e persino una sorta di “farfalla sociale”. Personalmente, mi riconosco in questa visione: ogni progetto richiede di saper cambiare “cappello” a seconda delle necessità. Forse, quindi, più che un’etichetta precisa, mi piace pensarmi come un “artigiano della musica”, sempre pronto a mettersi in gioco su più fronti e a imparare qualcosa di nuovo da ogni esperienza.
D Come sei arrivato a dirigere un’orchestra?
Come direbbe Pierre Boulez, sono arrivato a dirigere “per volontà e per caso”. In realtà, la mia storia musicale è iniziata al pianoforte, ma la mia curiosità mi ha sempre portato oltre l’aspetto esecutivo. Mi sono sempre fatto domande come: “Perché l’autore ha scritto questa composizione? Cosa c’è prima e dopo quest’opera? Quali sono stati i suoi modelli e le sue influenze? In che modo il suo contesto storico e sociale ha plasmato la sua musica?” Queste domande mi hanno spinto a studiare non solo composizione, ma anche musicologia all’università. Fin da giovane ho cominciato a dirigere cori amatoriali e piccoli ensemble con gli amici del conservatorio, spesso per provare insieme le nostre “avventurose” composizioni. Tuttavia, la vera svolta è arrivata quasi per caso, come risposta a un commento che sentivo spesso quando accompagnavo cantanti e strumentisti al pianoforte: “Suoni come un direttore d’orchestra.” Non ho mai capito se fosse una critica o un complimento, ma quel dubbio mi ha incuriosito. Così, quasi per gioco, appena ho avuto l’occasione, dopo il settimo di composizione, mi sono iscritto ai corsi di direzione d’orchestra al conservatorio di Bologna. Da lì è nata una vera e propria illuminazione: tutto ciò che avevo intuito leggendo le partiture ora poteva trasformarsi in musica viva, dirigere significava comunicare direttamente ai musicisti, attraverso il gesto e la parola, il mio pensiero, la mia interpretazione di ogni segno sulla pagina e insieme trasformare ogni esecuzione in un’esperienza unica, dove la partitura prendeva vita sotto i miei occhi e attraverso le mie mani. In fondo, posso dire che sono arrivato a dirigere spinto dalla voglia di capire, di approfondire e soprattutto di condividere con altri il senso profondo della musica.
D Per te ha ancora un senso oggi la parola musica?
R Assolutamente sì, la parola “musica” ha ancora un senso profondo oggi, forse più che mai. La musica continua a essere un linguaggio universale, capace di esprimere emozioni, raccontare identità e trasmettere cultura, adattandosi ai cambiamenti della società ma senza perdere la sua forza comunicativa. È vero, si può discutere sulla qualità di molta della musica prodotta oggi, soprattutto quella di massa, che spesso riflette la superficialità e la povertà culturale del nostro tempo. In Italia, poi, il problema si aggrava perché l’educazione musicale è stata per troppo tempo considerata secondaria e questo fa sì che tanti giovani siano sommersi da stimoli musicali, ma non abbiano gli strumenti per riconoscere ciò che ha davvero valore. Nonostante tutto, però, la musica resta un punto di riferimento: un luogo in cui emozionarsi, riconoscersi, riflettere. Finché ci sarà qualcuno disposto ad ascoltare con attenzione e curiosità, la parola “musica” continuerà ad avere senso, forza e significato.
D Nel tuo repertorio prevalgono i compositori tra fine Ottocento e primo Novecento: perché questa scelta?
R La mia scelta di concentrarmi sui compositori attivi tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento nasce da una forte affinità personale e da un desiderio di riscoperta. Credo che questo periodo della storia della musica sia ricchissimo di fascino, idee e sperimentazioni, ma purtroppo, almeno in Italia, sia ancora poco valorizzato e quasi ignorato dal grande pubblico. Basta sfogliare i programmi dei nostri teatri e delle stagioni musicali per accorgersi che sono pochi, anche tra gli appassionati di musica classica, a conoscere i tanti compositori attivi tra il 1850 e il 1920. Ci si limita spesso ai soliti grandi nomi, lasciando nell’ombra autori che hanno dato un contributo fondamentale all’evoluzione della musica occidentale. Le cause di questo oblio sono principalmente due. Da una parte, in Italia tra Ottocento e primo Novecento il melodramma ha dominato la scena culturale, relegando la musica cameristica e sinfonica a un ruolo marginale, quasi dimenticato dal grande pubblico. Dall’altra, durante il fascismo, la politica culturale ha promosso solo la produzione considerata autenticamente “italiana”, ostacolando la diffusione di movimenti e autori internazionali: dal Jazz all’espressionismo, fino a tutto ciò che poteva sembrare “straniero” o “decadente”. All’estero, invece, è normale trovare nei programmi nomi come Bloch, Bridge, Gade, Hamerik, Nielsen, Parry, Fuchs, Schreker, Vaughan Williams e tanti altri, che qui da noi sono praticamente sconosciuti. E spesso non si conoscono e programmano neppure compositori italiani di grande valore come Martucci, Sgambati, Golinelli, e perfino Respighi. Eppure, questi autori hanno contribuito in modo decisivo alla nascita dei linguaggi musicali moderni: sono stati un ponte tra il romanticismo maturo, il nazionalismo, l’impressionismo e le prime avanguardie. Senza il loro lavoro, la musica di Mahler, Strauss, Debussy, Ravel, Dvořák, Grieg, Sibelius e di molti altri non sarebbe stata la stessa. Per me, quindi, dirigere e far conoscere questo repertorio significa offrire al pubblico la possibilità di scoprire un universo musicale sorprendente, ricco di emozioni, novità e storie ancora tutte da ascoltare.
D Come mai la cosiddetta classica contemporanea trova ancora molte difficoltà a conquistare il pubblico che più comodamente preferisce Vivaldi, Mozart, Beethoven o Chopin?
R La prima difficoltà che incontra la cosiddetta musica classica contemporanea è già nella definizione: oggi non esiste più una sola direzione, ma una vera e propria costellazione di linguaggi, ciascuno con la sua estetica, le sue regole e la sua visione del mondo. Si passa dai rigori quasi matematici del serialismo alla spiritualità del minimalismo mistico, dal gioco eclettico del postmodernismo ai crossover con jazz e musica da film. Questa ricchezza, che dovrebbe essere un punto di forza, finisce spesso per disorientare chi si avvicina da ascoltatore. Al di là delle etichette, ci sono però ragioni più profonde che spiegano il difficile rapporto tra la musica contemporanea e il grande pubblico. Storicamente, la musica classica si è sempre evoluta in dialogo con i suoi ascoltatori. Un canto gregoriano, una sinfonia di Beethoven o un notturno di Chopin sono ancora oggi immediatamente riconoscibili e comunicano emozioni attraverso temi chiari e uno sviluppo narrativo che coinvolge anche chi non ha una formazione specifica. Anche quando l’armonia veniva portata ai suoi limiti—penso alla “Verklärte Nacht” di Schoenberg o alle “Metamorphosen” di Strauss—restavano comunque elementi riconoscibili che permettevano al pubblico di orientarsi emotivamente. Dal secondo dopoguerra, però, molte avanguardie hanno rotto i legami tradizionali con melodia, armonia e ritmo: il serialismo, l’atonalità, la musica aleatoria hanno richiesto un ascolto totalmente nuovo, incentrato su timbri, tessiture, spazi e processi sonori che spesso risultano freddi o astratti all’orecchio non abituato. In parole semplici: se un macellaio dell’Ottocento poteva fischiettare un’aria della Traviata dopo averla ascoltata una sola volta, oggi è praticamente impossibile che qualcuno riesca a ricordare o canticchiare un passaggio della Suite op. 25 di Schoenberg, anche dopo molti ascolti. Senza una chiave di lettura o una preparazione specifica, l’ascolto diventa faticoso e poco gratificante. In più, molta musica contemporanea nasce come riflessione o critica sul linguaggio stesso: il compositore diventa un filosofo del suono, mentre l’ascoltatore cerca ancora emozione, bellezza e riconoscibilità. Questa divergenza di scopi ha creato uno scarto fra chi scrive e chi ascolta. Il risultato è che il repertorio “classico” precedente si è cristallizzato (il pubblico vuole sentire ciò che conosce e gli enti programmano ciò che attira), mentre la musica nuova rimane marginale e spesso viene percepita come elitaria o inaccessibile. Anche le istituzioni e i media hanno spesso contribuito a questa distanza, trascurando la musica contemporanea nei programmi scolastici e nelle proposte culturali. Così il pubblico non viene educato ad ascoltare, né incuriosito ad avvicinarsi al nuovo.
D So che sei molto interessato alla IA (Intelligenza Artificiale); come la relazioni alla musica?
R Oggi viviamo una nuova rivoluzione industriale che sta trasformando ogni settore, inclusa la creatività. L’Intelligenza Artificiale Generativa è uno strumento potentissimo che rende molto più facile produrre opere artistiche. Ciò che prima richiedeva anni di studio e pratica, ora può essere creato anche da chi non ha una formazione specifica. Chi studia composizione musicale, ad esempio, sa quanto sia impegnativo imparare le regole del contrappunto, dell’armonia e della strumentazione. Bisogna conoscere a fondo gli stili di grandi compositori come Bach, Mozart, Beethoven, Chopin, Wagner, Ravel, Berg o Nono. Questi studi richiedono tempo, fatica e attenzione ai dettagli. L’Intelligenza Artificiale usa invece un approccio diverso. I grandi modelli di linguaggio, come ChatGPT, generano testo scegliendo ogni parola in base a quelle già scritte. In musica si usano modelli chiamati “modelli di diffusione”, che funzionano in modo simile ma sui suoni: partono da un rumore casuale e, passo dopo passo, lo trasformano in una musica strutturata, aggiungendo dettagli musicali fino ad arrivare a un risultato chiaro e riconoscibile. Quindi, l’IA non “compone” come un essere umano, ma rielabora ciò che ha imparato da milioni di brani diversi. Con semplici istruzioni testuali (i cosiddetti prompt), chiunque può chiedere a programmi come MuseNet, MusicLM o Suno di generare, ad esempio, un minuetto nello stile di Mozart, una canzone alla Bob Marley o una colonna sonora alla Zimmer. I risultati sono spesso sorprendenti. Questo sta già cambiando il mondo della musica. Su Spotify, esistono “band” completamente virtuali, come “The Velvet Sundown”, con più di un milione di ascoltatori. È una novità che solleva molte domande sulla creatività, sul diritto d’autore e sul futuro della musica. Le case discografiche hanno già iniziato a intentare cause legali sull’uso dei loro brani per addestrare queste intelligenze artificiali. Come per le altre rivoluzioni industriali, alcune professioni scompariranno, altre cambieranno e ne nasceranno di nuove. L’automazione di mixaggio, mastering e arrangiamenti renderà più economiche e rapide le produzioni semplici, come quelle per video, pubblicità o videogiochi. Tuttavia, l’IA non è ancora in grado di “creare” nel senso pieno del termine. C’è una domanda centrale: un processo statistico, come quello dell’IA, può davvero essere definito creativo? Anche la creatività umana si basa su esperienza e memoria, ma gli esseri umani sanno dare valore all’errore e all’eccezione, rendendo unico ciò che fanno. L’IA, invece, cerca sempre il risultato più probabile e coerente, non quello più originale. Forse è proprio questa la differenza che mantiene la creatività umana insostituibile. Nel tempo, i creativi hanno sempre usato i nuovi strumenti per esprimersi in modi nuovi. Anche l’IA dovrebbe essere vista come uno strumento, un collaboratore, non un sostituto. L’IA può velocizzare il processo creativo e permettere di sperimentare rapidamente, ma ancora non sa replicare la profondità emotiva e la consapevolezza umana. Rick Rubin, famoso produttore musicale, ha detto in un’intervista di non saper suonare strumenti o leggere musica. Il suo talento sta nel chiedere ai musicisti di provare cose nuove, seguendo l’istinto e il gusto personale. Secondo lui, l’innovazione nasce spesso proprio dall’istinto, non dalle regole. L’istinto e la vera creatività restano ciò che ci distingue dalle macchine. Come i contadini hanno imparato a usare il trattore al posto della vanga, anche i musicisti dovranno imparare a usare l’IA per esplorare nuove possibilità.
Restano però alcune domande aperte:
• L’IA sarà solo un partner per sviluppare idee o qualcosa di più?
• Se un brano nasce da un prompt e un algoritmo, chi è l’autore? Chi dà il prompt? Chi ha composto i brani usati per addestrare il modello?
• Come proteggere e riconoscere il lavoro degli artisti umani nell’era dell’IA?
Secondo molti, il vero criterio sarà sempre l’emozione che un’opera riesce a trasmettere, non la tecnologia che c’è dietro. La differenza la fa sempre la capacità dell’artista di esprimere la propria umanità. Quando parliamo di arte, usiamo parole come anima, cuore, vita. Anche se a volte ci emozioniamo davanti a opere “fredde” o “asettiche”, è perché chi le ha create ha scelto consapevolmente di trasmettere proprio quel tipo di sensazione.
D Una domanda anche sul jazz: ti piace? Ti interessa? Come lo vedi in rapporto alla classica? Conflitto o collaborazione o altro ancora?
D Pur non praticando il jazz direttamente e non potendomi considerare un esperto, lo ascolto volentieri e, quando se ne presenta l’occasione, mi fa piacere assistere a un concerto dal vivo. Ho diversi amici jazzisti che stimo molto per la loro creatività e competenza. Ritengo che il jazz sia una delle forme più vitali della musica del Novecento. La sua influenza su compositori “classici” come Gershwin, Milhaud, Stravinsky e Shostakovich è innegabile. Allo stesso tempo, possiamo riscontrare l’influenza della musica classica, e in particolare di Bach, nelle opere di autori come Bolling o Loussier. Questo dimostra che già nel secolo scorso c’era un dialogo tra i due mondi, lontano dall’essere impermeabili. Per molto tempo, soprattutto in ambito accademico, il jazz è stato snobbato e considerato “musica leggera”, mentre molti jazzisti vedevano la musica classica come troppo rigida e intellettuale. Oggi questi conflitti appaiono del tutto superati. Basta pensare a jazzisti come Keith Jarrett o Chick Corea, che provengono da una solida formazione classica, o a compositori come Max Richter o Johnny Greenwood, che mescolano influenze jazz, classiche e rock. Il crossover tra gli stili è ormai una caratteristica della musica contemporanea. Per questo motivo, credo che il rapporto tra jazz e musica classica possa essere visto come un dialogo creativo: due modi diversi ma complementari di esplorare la complessità e la bellezza del suono.
D In che modo la musica si rapporta (se si rapporta) alla politica? Vuoi farci esempio storico e, se possibile, anche presente?
R La musica ha sempre avuto un legame profondo e articolato con la politica. Si è spesso rivelata uno strumento potente, usata sia per sostenere il potere che per contestarlo, sia per rafforzare identità collettive che per dare voce alla protesta.Da un lato, i regimi totalitari hanno spesso sfruttato la musica come mezzo di propaganda e di costruzione dell’identità nazionale o ideologica. Pensiamo, ad esempio, alla musica “ottimista e comprensibile” promossa dal realismo socialista in Unione Sovietica, all’autarchia e al mito di Roma nell’Italia fascista, o all’esaltazione di Wagner e della tradizione tedesca nella Germania nazista. Dall’altro lato, la musica è stata una delle principali forme di resistenza, protesta e affermazione di identità culturale. Le canzoni di Bob Dylan o di Fabrizio De André, il jazz come simbolo della lotta per i diritti afroamericani, il rock e il punk come espressioni di ribellione e critica al sistema: tutti questi generi e artisti hanno dato voce a istanze politiche, sociali e culturali spesso ignorate dal potere. Se in passato anche la musica classica aveva un impatto politico diretto—basti pensare al “Va pensiero” di Verdi, che divenne simbolo di aspirazioni nazionali—oggi la sua portata mediatica è minore. Il compito di trasmettere messaggi politici o sociali è passato in gran parte ai generi popolari come il pop, il rap e la musica leggera. Proprio nella musica leggera, in Italia, negli ultimi anni, troviamo numerosi brani musicali che hanno trattato temi politici o sociali di attualità. Per esempio, “Tocca a me” sostiene i diritti LGBT, “La crociata dei bambini” riflette sulla guerra in Ucraina, “Amaremare” affronta la questione ambientale, mentre “Rinascerò, rinascerai”, scritta durante la pandemia, ha avuto un grande impatto emotivo e sociale. “Non ci credo più” è un appello alla resistenza contro le ingiustizie, e “Grazie, ma no grazie” usa l’ironia per riflettere sulla società italiana e le sue strutture di potere. Abbiamo poi l’esempio di musica istituzionale utilizzata per valorizzare l’identità nazionale e il patrimonio storico: “Ai Fori” commissionata dal Ministero della Cultura. In definitiva, la musica resta uno strumento fondamentale di riflessione collettiva, di espressione politica e sociale. Che sia al servizio del potere o come voce di protesta, la musica continua a rappresentare, interpretare e influenzare i cambiamenti della società.
D Come vivi tu la musica in Italia anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?
R Vivere la musica in Italia, dal mio punto di vista, è spesso una sfida, soprattutto a causa di alcune scelte storiche che hanno pesantemente influenzato la cultura musicale del nostro paese. Una delle cause principali è la riforma Gentile della scuola: influenzato dall’idealismo di Croce e Hegel, Gentile considerava formative solo le materie intellettuali come latino, filosofia e matematica, e ha così eliminato l’insegnamento sistematico della musica dalle scuole elementari e medie. Di conseguenza, la musica è stata relegata a un ruolo marginale, decorativo e opzionale, non parte integrante della formazione dei giovani. Il risultato è che intere generazioni di italiani sono cresciute senza una vera alfabetizzazione musicale di base, aumentando il divario tra la cosiddetta cultura “alta” e quella “popolare”. Solo negli ultimi vent’anni si è iniziato a parlare seriamente di educazione musicale obbligatoria—ad esempio con i licei musicali e il potenziamento delle ore di musica nella scuola media—ma la frattura resta profonda e la maggior parte degli italiani continua a non ricevere una formazione musicale adeguata. La differenza con altri paesi europei è evidente: in Germania, Francia e Inghilterra l’educazione musicale accompagna gli studenti lungo tutto il percorso scolastico, spesso con attività pratiche come orchestra e band scolastiche. Questo rende la musica una parte viva della cultura di tutti, e non solo di una minoranza. Nel mio percorso personale e professionale, questa situazione si riflette continuamente. “Fare il musicista” in Italia viene ancora percepito da molti come un passatempo e non come una vera professione. Quante volte, alla domanda “che lavoro fai?”, ci siamo sentiti chiedere subito dopo: “sì, ma di lavoro vero?” Questo riflette una mentalità ancora poco aperta al valore professionale della musica. Anche a livello territoriale, spesso si nota una certa confusione da parte degli amministratori e del pubblico nel distinguere tra attività amatoriali (come cori parrocchiali o bande di paese) e il lavoro dei professionisti della musica. Non è raro che ci si aspetti che i concerti siano sempre gratuiti, o che si dia poca importanza alla qualità e all’innovazione dell’offerta musicale. A parte poche eccezioni, come le fondazioni lirico-sinfoniche che hanno un pubblico d’élite e possono permettersi programmi più innovativi, la maggior parte degli eventi musicali segue la logica di proporre solo ciò che è già conosciuto e apprezzato dal pubblico. Questo rende molto difficile proporre novità, sperimentazioni o nuovi linguaggi musicali, che finiscono spesso ai margini della programmazione culturale. All’estero la situazione è molto diversa: il lavoro del musicista è rispettato, considerato difficile e degno di ammirazione. Il pubblico, grazie a una maggiore educazione musicale, è più curioso e aperto alle novità, e soprattutto è normale pagare un biglietto per accedere a uno spettacolo, riconoscendo il valore del lavoro artistico. In sintesi, vivere la musica in Italia significa spesso lottare contro pregiudizi culturali e istituzionali, e confrontarsi con una diffusa mancanza di riconoscimento professionale e di educazione all’ascolto. Tuttavia, malgrado queste difficoltà, sono molti i musicisti che cercano nuove strade e insistono nel promuovere la cultura musicale, anche a livello locale, nella speranza che in futuro la musica possa tornare a essere sentita come un valore centrale della nostra società.
