steviewonder

La padronanza degli strumenti e il dono dell’orecchio assoluto hanno conferito alla sua attività concertistica e discografica un non comune senso ritmico, un gusto particolare dell’armonia ed una sensibilità melodica, in parte frutto della tradizione soul-gospel respirata in famiglia.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Stevie Wonder, nome d’arte di Stevland Hardaway Morris, è stato da sempre uno dei personaggi chiave per l’evoluzione dell’R&B, per l’affermazione del Motown style e per il suo sviluppo in termini aziendali ed economici. Sin dal suo primo apparire i dischi di Stevie Wonder incontrarono i favori di un pubblico trasversale e multirazziale. Egli rappresentava la quintessenza della blackness, l’esplosione del soul, il simbolo del riscatto degli Africani-Americani che, grazie alla musica, riuscivano a superano ogni barriera politica, sociale e razziale: Stevie Wonder fu anche uno degli artisti più importanti della disco music ante-litteram, intesa come musica da ballo ed evoluzione del soul-boogie. Nella prima metà degli anni ’70, sono proprio artisti come Wonder, che grazie ad una popolarità planetaria, riescono a trascinare l’oramai stantia musica soul verso la modernità, sfruttando il nuovo mezzo di massima divulgazione musicale tra i giovani: la discoteca. Sono di questo periodo alcuni classici del genere. «Higher Ground» «Superstition» «Uptight (Everything is Alright)».

Nato il 13 maggio del 1950 nel Michigan, figlio di un pastore battista, cieco dalla nascita, venne denominato Little Stevie Wonder, nome d’arte di Steveland Judkins Morris, dopo il sensazionale debutto nel 1963 a soli 13 anni con «Fingertips», singolo di successo contenuto nell’album «12 Year Old Genius». Musicista completo Stevie Wonder suona l’armonica, il piano, l’organo, le tastiere elettroniche, il clarinetto e la batteria. La padronanza degli strumenti e il dono dell’orecchio assoluto hanno conferito alla sua attività concertistica e discografica un non comune senso ritmico, un gusto particolare dell’armonia ed una sensibilità melodica, in parte frutto della tradizione soul-gospel respirata in famiglia, ma a cui non è forse estranea la condizione di cecità che generalmente acuisce il senso della percezione auditiva. La sua casa discografica seppe comunque lavorare altrettanto bene dal punto di vista del marketing e della promozione, lanciando con un’ottima scelta di tempo la costante idea di «The Sound Of Young America» in tutti i suoi comunicati pubblicitari, usando una tecnica non dissimile al modo di agire sul mercato delle vicine di casa, quali la Ford, la Chrysler e la General Motors, che facevano di Detroit la capitale mondiale dell’automobile. La Motown sfruttò abilmente il momento sociale di rivalutazione e di accettazione del popolo nero («Black Is Beautiful», era lo slogan ricorrente), proponendo idoli di colore per i teen agers afro-americani e facendo centro con una serie di artisti, tra cui spiccava appunto Stevie Wonder scoperto da Ronnie White dei Miracles, il quale ne aveva fiutato immediatamente il talento ed il potenziale di mercato.

Dal momento del suo debutto in pubblico, all’Apollo Theatre di Harlem, con la gente che andò in delirio completamente conquistata ed eccitata dal giovane Stevie, fu tutto un susseguirsi di trionfi. Il che, al di là del suo valore musicale, rivelò in Wonder anche grandi doti di showman, capace di saltare letteralmente da uno strumento all’altro, a seconda dei brani, o di esibirsi in frenetici virtuosismi, i quali lo coinvolgevano psico-fisicamente con un notevole dispendio di energie.

Nel 1965 venne organizzato un tour in Inghilterra, che non fu, però, non molto fortunato: il giovane Stevie, non ancora conosciuto dalla grosso pubblico, dovette esibirsi in locali semivuoti, ma il viaggio nella Vecchia Albione fu molto proficuo per la Motown dal punto di vista promozionale, al fine di stabilire anche in Europa delle relazioni dirette relazioni con radio, TV e stampa. Nel 1967, con «I Was Made To Love Her», Wonder si affina maggiormente, sostituendo il ruvido R&B con uno stile più ecumenico e sofisticato, già anticipato con «A Place In The Sun» contenuto nell’album «Down To Earth» della fine 1966. Bisognerà attendere il 1971, anno del rinnovo contrattuale con la Motown per assistere al radicale cambiamento dell’artista che con «Where I’m Coming Iron», in cui si può scorgere una decisa sterzata in tema di indirizzo musicale. Dopo un tour con i Rolling Stones e varie jam session con musicisti quali Jeff Beck, Eric Clapton e Steve Stills, Wonder esce nel 1972 con «Music On My Mind», un melting-pot sonoro fatto di soul, rock, gospel e funk: in parole povere, quello stile variegato e ricco di influenze stilistiche con cui Stevie Wonder caratterizzerà la sua carriera di artista maturo ed universalmente accettato.

Da quel momento in poi l’eclettico Stevie inizierà a mietere consensi oceanici e fare man bassa di riconoscimenti: anche con i due album seguenti, «Taiking Book» (1972), da cui vennero estratti due singoli, «Superstition» e «You Are The Sunshine of My Life», i quali ottennero anche il plauso delle nascenti discoteche; mentre «Innervisions» (1973) diventò disco di platino in sole cinque settimane. Nel 1974 Wonder porta ancora in casa Motown un album di successo, «Fulfillingness’ First Finale». Dopo due anni di silenzio, nel 1976, arriva il suo capolavoro assoluto, il doppio «Songs In the Key of Life» contenente la celeberrima «Isn’t She Lovely» dedicato alla figlia Aisha, componimento di forte impatto emotivo. Fu proprio negli anni ’70 che Stevie diede il meglio di sé sul versante della musica da ballo, come non ricordare, la tagliente e funkeggiante «I Wish», o la travolgente «Sir Duke» fino ad arrivare all’intramontabile «Master Blaster» (dedicata a Bob Marley) un capolavoro di moderno reggae metropolitano, interpretato con un’impronta soul-funk. A partire dagli ottanta, l’uomo delle meraviglie è diventato un artista ecumenico ed aperto a tutte le contaminazioni musicali e collaborazioni con musicisti di differente estrazione; dal rock al blues, dal funk al jazz.

Stevie Wonder Anni ’70

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