«Mingus Speaks»: il contrabbassista parla come un torrente in piena. Un contributo prezioso alla storia del jazz del XX secolo

Charlie Mingus (Photo by David Redfern/Redferns)
Il contrabbassista di Nogales riteneva che il rock e la sua influenza stessero distruggendo la purezza del jazz come genere e criticava in particolare l’uso di strumenti elettronici negli ensemble jazz: «Non ho ancora sentito suonare niente di meglio di uno Steinway, in tutto il mondo. Non ho sentito niente di meglio di un violino».
// di Francesco Cataldo Verrina //
Con «Mingus Speaks», John Goodman ha dato un contributo prezioso alla storia del jazz del XX secolo. A differenza di una biografia standard, in cui l’autore si basa su articoli, testimonianze indirette e libri precedentemente pubblicati, Goodman ha utilizzato un registratore. Quarant’anni fa, seduto in un jazz club, un bar, o un ristorante, persino a casa di Mingus, ha sottoposto il contrabbassista ad un fuoco di fila di domande sulla sua vita privata, la formazione musicale, il suo punto di vista sulla musica nera, i critici musicali, il colleghi, la vera definizione di «jazz» e molto altro. Le interviste si svolsero tra il 1972 e il 1974, quando Mingus aveva appena fatto il suo ritorno all’attività discografica, dopo essere stato lontano dalle scene per circa sei anni a causa di difficoltà personali e per via di una lunga lotta contro la depressione. Fino ad allora, il genio di Nogales era stato inquadrato con lo stereotipo di «nero arrabbiato»; le sue stesse parole tratteggiano perfettamente il carattere dell’uomo e del musicista, lasciando trasparire un’innata genialità musicale, talvolta deviata da complessità intellettuali, fisime e problemi relazionali. I nastri registrati hanno richiesto poco editing. Tutto il materiale trascritto è uscito dalla voce del protagonista e dai brevi commenti di persone a lui molto vicine.
Il 1971 fu un anno fruttuoso per Mingus: ricominciò a esibirsi in pubblico sia negli Stati Uniti che in Europa. Avendo appena registrato «Let My Children Hear Music», gli fu chiesto di tenere un concerto a New York al Lincoln Center, al quale Goodman partecipò con l’intento di scrivere una recensione per la rivista Playboy, con cui all’epoca lavorava. Dopo il concerto l’autore incontrò il contrabbassista, che accettò di rilasciare più interviste per uno o più articoli, poiché interessato a pubblicare un altro libro. Dopo la sua controversa autobiografia «Beneath The Underdog», il genio di Nogales aveva bisogno di soldi e non vedeva l’ora di parlare di sesso, visto che Playboy sarebbe stato l’editore. In seguito, le oltre venti ore di interviste registrate sono diventate veramente materiale per un libro: «Mingus Speaks», i cui contenuti risultano, per certi aspetti, illuminanti, non solo per gli appassionati, ma anche per gli storici e i critici jazz.
I tredici capitoli sono organizzati attraverso un sistema organico di domande e risposte e i nastri trascritti, al fine di decriptare lo slang mingusiano, a volte da hipster, a volte da cittadino modello, il quale descrive gli artisti che non gli piacevano, i litigi con i tassisti che trovava scortesi, facendo, altresì, un’analisi degli stili esecutivi di famosi colleghi come Charlie Parker, Coleman Hawkins, Miles Davis, perfino i Beatles che trovava simili ad un surrogato della musica dei neri. Mingus spiega bene perché fosse critico nei confronti della musica d’avanguardia degli anni Sessanta, poiché mancante di disciplina e di struttura; parla dell’importanza di ricevere una formazione musicale classica; lamenta i magri guadagni della maggior parte dei musicisti jazz, mentre attribuisce un merito al lavoro svolto per un certo periodo in un ufficio postale di New York, e racconta le difficoltà incontrate durante la registrazione di «Let My Children Hear Music» alla Columbia Records sotto la produzione di Teo Macero. L’ascolto di una selezione dei nastri e dell’intervista podcast di Goodman (sul sito web della UC Press qui, dove è possibile leggere anche il capitolo 1 del libro) consente di apprezzare la profondità e la ricchezza delle conoscenze musicali di Mingus.
Le domande e le risposte di ogni capitolo sono seguite dai commenti di uno o più amici e collaboratori di Mingus, tra cui George Wein, Dan Morgenstern, Paul Jeffrey, Bobby Jones, Sy Johnson (che ha fornito anche le fotografie), Sue Mingus e il defunto proprietario del Village Vanguard, Max Gordon. L’autore aggiunge anche qualche commento occasionale. Tutti attestano che Mingus era violento, crudele e instabile, ma allo stesso tempo affettuoso, premuroso e generoso, e soprattutto un genio inquieto incapace di separare la vita privata dall’attività musicale. Parlando in prima persona, Mingus rivela la profonda conoscenza dello scibile sonoro, degli altri jazzisti e delle loro composizioni. I suoi commenti sulla musica d’avanguardia, sui gestori e proprietari di locali, sui critici, sulla necessità per i neri di abbracciare una forma di musica propria – il blues, che secondo lui rifletteva meglio l’esperienza dei neri rispetto al rock ‘n’ roll e al rhythm and blues – per rendersi conto dell’importanza del jazz. Il contrabbassista di Nogales riteneva che il rock e la su influenza stessero distruggendo la purezza del jazz come genere e criticava in particolare l’uso di strumenti elettronici negli ensemble jazz: «Non ho ancora sentito niente di meglio di uno Steinway, in tutto il mondo. Non ho sentito niente di meglio di un violino».
Mingus pensava che il jazz non dovesse essere apprezzato solo dagli afroamericani, dagli intellettuali e dell’alta borghesia bianca che poteva permettersi di andare nei club ad ascoltare Billy Taylor, Max Roach e simili. Il blues, secondo Mingus, avrebbe dovuto essre un modello di riferimento per tutti i neri. Soprattutto prima e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, i musicisti jazz viaggiavano insieme per tenere i concerti in lungo e in largo, imparando gli uni dagli altri, una pratica che andava scemando. Quindi racconta di aver viaggiato con Lionel Hampton, nella cui band era presente il suo amico cubano Fats Navarro, personaggio da rivalutate. Il contrabbassista spiega perché aveva fondato una propria casa discografica con Max Roach e la sua ambivalenza nei confronti di George Wein, che lo considerava un talento simile a Duke Ellington ma senza la disciplinata capacità di Ellington di sostenere una big band.
L’ottavo capitolo, forse uno dei più importanti del libro, ha un titolo emblematico «I critici»., in cui il genio di Nogales si toglie molti sassolini dalle scarpe. Mingus era arrabbiato con Barry Ulanov, che lo aveva definito un avanguardista, con John Wilson del New York Times, che evidentemente aveva assistito ad un solo concerto scrivendo scritto una recensione negativa e non approfondita, tanto da spingerlo ad affermare che i critici bianchi non capivano il jazz e che avrebbero dovuto prendersi il tempo di ascoltare con maggiore attenzione. Nel commento, Teo Macero dichiara che i critici avevano distrutto il sostentamento degli artisti jazz, togliendo il pane a molti di essi, a causa delle loro recensioni negative. Goodman lo interrompe- quasi a volerlo tranquillizzare – per dichiarare che non avrebbe scritto più critiche sul jazz, poiché non intendeva distruggere le carriere dei musicisti. I restanti capitoli trattano delle difficoltà personali e finanziarie di Mingus, tra cui lo sfratto da una residenza di New York per svariati motivi; dei suoi rapporti con le donne in generale e, in particolare, con Sue Mingus, che si preoccupava convintamente di lui, lo accudiva e lo capiva. Le discussioni sui disordini civili, comprese le ragioni della rivolta di Watts del 1965, diventano uno spaccato storico-sociale che focalizza, con dovizia di particolari, i tempi convulsi che il musicista aveva attraversato: anni ostici soprattutto per la popolazione di colore
Mingus era sempre stato in anticipo sui tempi, arso dal desiderio che il jazz potesse essere riconosciuto come una forma d’arte originale e nazionale. Tra le sue ambizioni risalta soprattutto quella di voler fondare una scuola di arti dello spettacolo per giovani afro-americani, simile alla Duke Ellington School Of The Arts di Washington, dove i bambini dei quartieri poveri e di ogni provenienza, potessero ricevere una formazione adeguata che li portasse a diventare musicisti, cantanti, ballerini e persino direttori di orchestre sinfoniche di prima classe. Infine, l’autore, Goodman, fa una distinzione tra il Mingus mitizzato e il Mingus reale, che aveva subito angherie e discriminazioni per il colore della pelle affrontato ostacoli come il razzismo e il sospetto verso i giovani neri. Al netto del suo coinvolgimento con la storia jazz del secondo dopoguerra, Charles Mingus è stato uno dei massimi compositori del ‘900: direttore d’orchestra, band-leader e bassista, protagonista dell’epopea d’oro del bebop, quando le «divinità del jazz» passeggiavano per Harlem o Broadway, soprattutto per Cinquantaduesima strada Ovest, tra la quinta e la settima Avenue di Manhattan, detta la la «swing Street». Per questo motivo, si consiglia di leggere «Mingus Speaks», ma soprattutto di ricercare le perle della sua discografia. Molto è presente, soprattutto a livello di indicazioni discografiche , nel mio libro: «Mingus, il Meglio di un Bastardo» / Kriterius Edizioni, 2021.