Lorenzo Cimino, il jazz alla Spezia. A colloquio con il trombettista e direttore della nuova edizione del Festival

Lorenzo Cimino
// di Guido Michelone //
Nato a La Spezia, 17 settembre 1967, Lorenzo Cimino è uno di quei rari esempi in cui la musica classica e la cultura jazz risultano di sua competenza, se si pensa a un curriculum che, dopo il Conservatorio (dove si diploma in Tromba) comprende studi di perfezionamento con Pierre Thibaud, Mauro Maur, Antoine Curè, svolge un’intensa attività concertistica, fondando e suonando per dieci anni con l’Ensemble Giacinto Scelsi, anche con numerose composizioni in prima esecuzione assoluta. Molti noti compositori scrivono brani per la sua tromba come ad esempio Giorgio Gaslini, Luciano Chailly, Pietro Grossi, Giovanni Sollima, Marco Betta, Piero Luigi Zangelmi, Claudio Josè Boncompagni, Fernando Mencherini, Gaetano Giani Luporini, Giuseppe Bruno, Paola Ciarlantini, Andrea Nicoli. Nel jazz invece riesce a esibirsi accanto a Lester Bowie, il citato Gaslini, Massimo Urbani, Tony Scott, Fabrizio Puglisi e molti altri. In questi giorni è alle prese, in qualità di Direttore, con la nuova edizione del Festival Jazz di La Spezia, secondo alcune fonti, il più antico in Italia. Quest’intervista è concessa in esclusiva per “Doppio Jazz”.
D In tre parole chi è Lorenzo Cimino?
R Difficile rispondere, sono una persona che ama suonare e insegnare la Tromba, al tempo stesso mi piace esplorare e ascoltare tutto ciò che posso.
D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?
R Mio Nonno, che era un contadino e di cui porto il nome, suonava il bombardino nella banda di Cefalù. Passavo le estati con lui e mentre suonava lo imitavo, suonando delle grosse zucchine che aveva in casa. Quando ci lasciò io avevo quattro anni e nel suo testamento decise di lasciare a me il suo strumento.
D E i tuoi primi ricordi del jazz in assoluto?
R Ricordo il mio primo concerto, avevo quattordici anni e studiavo al Conservatorio. Andai a sentire il quintetto di Woody Shaw, al Teatro Civico della Spezia, nelle edizioni invernali del Festival Jazz; un concerto che ha cambiato la mia vita. Pensa che da allora provo a imitare ciò che Woody Shaw faceva e a distanza di più di cinquant’anni di tentativi non ci sono ancora riuscito. Nel suo gruppo suonava un trombonista di nome Steve Turre, che spesso durante il concerto usava delle conchiglie. Mi sono cimentato anche in questo, ma il confronto con questi grandi è ahimè implacabile.
D Come definiresti la tua attività? Musicista, jazzman, organizzatore, direttore o tutto insieme o altro ancora?
R Faccio un mestiere artigianale. La musica, il jazz in particolare, è per me una bottega dove si lavora con le mani, con le orecchie e con il cuore. Sono musicista, certo, ma anche un insegnante nel senso più profondo; uno che vive dentro questa musica, la studia, la suona e la condivide. L’organizzazione e la direzione artistica del Festival della Spezia sono un’estensione naturale di questo percorso. È come costruire uno strumento insieme ad altri, scegliere i legni migliori, accordare suoni e visioni. Quindi sì, potrei dire che sono tutto questo insieme, ma sempre con l’anima dell’artigiano che ama il proprio materiale e lo lavora con rispetto e passione.
D Parlaci ora di questa nuova edizione del Festival.
R Questa 57ª edizione del Festival Internazionale del Jazz della Spezia è il frutto di un lavoro paziente e appassionato. Il cartellone del 2025 è costruito con cura, con l’idea che ogni serata debba essere un’esperienza unica, capace di parlare al cuore del pubblico e della città. Abbiamo voluto intrecciare grandi maestri internazionali – da Marcus Miller a John Scofield, passando per l’incontro speciale con Danilo Pérez, John Patitucci e Adam Cruz – con artisti che esplorano i confini del linguaggio, come gli Incognito o Stewart Copeland che reinventa il repertorio dei Police in chiave orchestrale. E poi ci sono i momenti che sorprendono, come la presenza dei Jethro Tull, un ponte con la grande tradizione del rock progressivo, o l’eleganza senza tempo di Fabio Concato. Quello che ci guida non è mai la somma dei nomi in cartellone, ma la visione complessiva: costruire un festival che sia ogni volta un luogo vivo, aperto, contemporaneo. Un laboratorio a cielo aperto dove il jazz – nelle sue mille forme, e con tutte le contaminazioni che sono la natura della musica afroamericana incontra la città, la sua storia, il suo presente. Il jazz qui alla Spezia non è un genere, è un modo di stare al mondo: curioso, libero, appassionato.
D Alla luce del programma del Festival, per te ha ancora un senso oggi la parola jazz?
R Ha senso parlare di jazz oggi se smettiamo di considerarlo un recinto stilistico e torniamo a vederlo per quello che è sempre stato; un linguaggio vivo, aperto, meticcio, in continuo dialogo con il mondo. Il jazz nasce dall’incontro, dall’urgenza di raccontare, di trasformare il dolore in bellezza e la tecnica in libertà. È una musica che cambia perché il tempo cambia, ma non perde mai la sua natura più profonda: quella di ascoltare e di rispondere. La programmazione di quest’anno riflette proprio questa idea: non è un festival nostalgico, ma una mappa di incontri, esperienze, visioni. Dai maestri storici ai nuovi progetti contaminati, dai groove urbani di Incognito all’orchestra sinfonica che reimmagina i Police, il jazz è ovunque ci sia libertà creativa. Per questo non solo ha senso parlarne: è necessario. Il jazz oggi non è un museo, è un laboratorio umano. E noi cerchiamo di tenerlo acceso.
D Gli inserimenti nel Festival di musicisti pop e rock – come fanno quasi tutti del resto – da cosa sono motivati?
R Gli inserimenti di artisti di questo tipo non nascono da un’esigenza commerciale, ma da una visione culturale più ampia. Il jazz, fin dalle sue origini, è una musica di dialogo, contaminazione, apertura. Non ha mai avuto paura di confrontarsi con altri linguaggi, anzi, si è sempre nutrito di quello scambio. Quello che ci interessa, più che l’etichetta di un artista, è la qualità del progetto, la sua forza espressiva, il suo potenziale di incontro con il pubblico. Quando invitiamo un musicista come Stewart Copeland o una band come i Jethro Tull, non stiamo facendo un’operazione di ‘varietà’, ma stiamo aprendo il festival a percorsi musicali che parlano la stessa lingua del jazz fatta di libertà, invenzione e spirito di ricerca. È un modo per allargare il cerchio, per includere sensibilità diverse senza snaturare la direzione del festival. Anzi, il nostro compito è proprio quello di costruire ponti. L’artigianato culturale si fa anche così! Scegliendo gli ingredienti con cura, anche se arrivano da cucine diverse.
D Te lo chiedo da musicista, si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste per te qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?
R Da musicista, ti rispondo che sì, esiste un jazz italiano. Non perché sia un genere a parte, ma perché c’è un modo tutto nostro di abitare questa musica. Il jazz italiano non è una copia di quello americano, né una derivazione europea ‘colta’: è un’identità ibrida, nata dal dialogo tra il linguaggio del jazz e la sensibilità mediterranea. Una musica che respira con la nostra lingua, con il nostro senso della melodia, con un certo gusto per lo spazio, per il silenzio, per la liricità. Negli ultimi decenni si è formata una vera scuola: non accademica, ma poetica. Da Enrico Rava a Stefano Bollani, da Paolo Fresu a giovani autori e autrici che scrivono con grande libertà, il jazz italiano è riconosciuto nel mondo proprio per questa voce unica, che non rinnega il passato ma sa essere profondamente personale. E poi, forse, è proprio questo il jazz italiano: la capacità di non assomigliare a nessuno, pur parlando una lingua che tutti possono capire. Una forma di artigianato sonoro che ha radici qui, ma lo sguardo sempre altrove.”
D Cosa distingue appunto l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei?
R La differenza sta prima di tutto nella radice. Per gli afroamericani il jazz non è solo un linguaggio musicale, è una forma di memoria, di resistenza, di identità. È nato da una ferita storica – la schiavitù, la segregazione – e si è trasformato in un grido creativo, in una voce collettiva che ha saputo inventare bellezza dove c’era dolore. In America, il jazz è parte di una storia sociale, politica, personale. C’è dentro la terra, le chiese, le strade, la lotta. Noi europei, invece, siamo entrati in questo linguaggio da ascoltatori prima, da interpreti poi. Abbiamo accolto il jazz con grande curiosità e rispetto, ma inevitabilmente lo abbiamo filtrato attraverso la nostra cultura. Il nostro rapporto con la melodia, con la forma, con il silenzio. Abbiamo spesso messo in gioco una dimensione più ‘pensata’, più astratta, a volte più cameristica. Non è un giudizio di valore, è un diverso punto di partenza. Io credo che oggi l’approccio europeo al jazz – e in particolare quello italiano – sia diventato maturo proprio quando ha smesso di imitare e ha cominciato a raccontarsi. Il jazz resta un linguaggio nato altrove, ma è anche una casa aperta. E se ci entri con rispetto, portando la tua voce, può diventare anche tua.
D In che modo la musica si rapporta alla politica?
R La musica non fa politica nel senso dei partiti, ma è sempre un atto politico quando prende posizione nel mondo. Ogni volta che scegli un suono, un silenzio, un testo, una collaborazione, stai dicendo qualcosa su come vedi la realtà. E anche decidere di non dire nulla è una scelta politica. La musica ha il potere di costruire immaginari, di creare ponti, di dare voce a chi non ce l’ha. Il jazz, da questo punto di vista, è una musica profondamente politica fin dalla nascita è nato dall’oppressione e si è fatto voce di libertà. Ha attraversato epoche, battaglie, ingiustizie, sempre con un senso forte di dignità e di bellezza. Oggi forse non c’è più il fuoco della lotta sociale esplicita, ma ogni musicista che cerca verità nella propria arte – senza inseguire solo il mercato, la vetrina o la moda – sta già facendo una scelta politica. Per me, dirigere un festival, scegliere chi suona, che storie racconta, che tipo di ascolto si propone al pubblico… è una responsabilità culturale. E quindi, inevitabilmente, anche politica. Ma è una politica fatta di cura, inclusione, memoria e visione.
D Come vivi tu il jazz in Italia anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?
R Lo vivo come un gesto quotidiano, non come un genere. È un modo di abitare il suono, di ascoltare gli altri, di cercare uno spazio autentico in mezzo al rumore. È una pratica artigianale, fatta di mani, di relazioni, di errori, di intuizioni. Non lo vivo da turista o da teorico, lo vivo nel territorio, nei teatri di provincia, nei laboratori con i ragazzi, nei festival che cercano bellezza senza urlare. Qui alla Spezia, il jazz diventa anche un modo per ricucire, per costruire una comunità attorno all’ascolto. Non è sempre facile, ma è vero. Il mio lavoro, come musicista e come direttore, è questo: creare condizioni perché la musica accada. E quando accade davvero, anche solo per pochi minuti, capisci che il jazz – oggi, qui – ha ancora tutto il senso del mondo.”
D Cosa pensi tu dell’attuale situazione in cui versa la musica in Italia a livello di istituzioni?
R In Italia la musica vive spesso in equilibrio precario. Manca una visione istituzionale forte, continua, capace di riconoscere alla cultura il ruolo che merita. Troppo spesso si agisce per emergenza, non per progetto. Ma per fortuna esistono realtà virtuose. Alla Spezia, ad esempio, grazie al sostegno convinto del sindaco Pierluigi Peracchini, la cultura è tornata centrale nella vita della città. L’investimento fatto sul Festival e su molte altre iniziative lo dimostra: quando c’è una politica culturale seria, i risultati arrivano, e parlano alla comunità.
