«Solid Jackson» di MTB, un discorso musicale dove ogni nota pesa quanto una parola in un trattato filosofico (Criss Cross, 2024)

Non si esce da questo ascolto appagati nel senso più immediato del termine: ci si scopre, invece, lievemente modificati, come dopo la lettura di un trattato non risolto, o il confronto con un interlocutore sottile. « Solid Jackson» non tenta di lasciar traccia: è la traccia, silenziosa, sottopelle, ma irriducibile.
// di Francesco Cataldo Verrina //
« Solid Jackson» di MTB, acronimo dietro cui si celano tre figure cardine del jazz newyorkese: Brad Mehldau (pianoforte), Mark Turner (sax tenore) e Peter Bernstein (chitarra). Ad affiancarli in questo dialogo intergenerazionale sono presenti il contrabbassista Larry Grenadier, accorato sodale di Mehldau ed il batterista Bill Stewart, subentrato a Leon Parker. L’album, inciso nel novembre 2023 presso il Samurai Hotel Recording Studio di Astoria, rappresenta non solo un ritorno « fisico» sulle orme dell’iconico « Consenting Adults» (1994), è una reunion che sfugge al sentimentalismo sterile e s’impone piuttosto come atto critico di revisione identitaria: l’arte di re-incontrarsi senza cercare di replicare sé stessi. « »
C’è, infatti, nella genesi di « Solid Jackson» un senso implicito di convergenza mai reclamata ma inevitabile, come se il tempo – non lineare, ma spiraliforme – avesse deciso di riprendere un discorso lasciato in sospeso, sospingendo alcuni strumentisti affini a riaffacciarsi sullo stesso orizzonte sonoro che un trentennio addietro li aveva visti compagni d’intuizione. Brad Mehldau, Mark Turner, Peter Bernstein: nomi che oggi non evocano solo maestria, ma una grammatica interiore del fraseggio, una maniera di articolare il pensiero jazzistico che rifiuta la sovraesposizione e privilegia, al contrario, la cesura elegante, il sottinteso, la porosità. Il ritorno al fianco di Larry Grenadier, e l’inserimento calibrato di Bill Stewart in luogo dello storico Leon Parker, completano un consesso sonoro che ha il pregio raro di non inseguire né la perfezione tecnica, né la compiacenza revivalistica. Nel concept non vi è nulla che sappia di « opera seconda»; è invece un episodio necessario, un punto di equilibrio tra ciò che fu e ciò che, maturando silenziosamente, aspettava l’occasione per uscire dal guscio ed essere espresso. C’è in questo disco una sorta di « filologia creativa», un’adesione rispettosa alla tradizione che si traduce in un superamento organico, mai polemico, dell’eredità afro-americana del jazz. Non c’è alcuna volontà di stupire, né bisogno di dimostrare nulla. È questa la prodezza silenziosa di « Solid Jackson»: il suo non voler essere epocale, il suo farsi quasi clandestino, come certe poesie che tendiamo a ricordare non per i versi più noti, ma per una cadenza interna, un’armonia segreta che ci rimane addosso.
Mehldau apre le danze con la traccia eponima, « Solid Jackson», costruita come una spirale armonica che non esplode mai, ma irradia stabilità e gravità interiore, un ostinato dal respiro modale, tonicamente ancorato al Si-bemolle, che non cerca l’effetto spettacolare bensì la sedimentazione progressiva del gesto musicale. È una sorta di portale d’accesso: un’intonazione collettiva più che una dichiarazione d’intenti, dove ciascun elemento dell’ensemble si aggancia e si sgancia con naturalezza, senza attriti, senza smanie. Segue « The Things That Fall Away», elegia minimale composta da Bernstein, dove la chitarra sembra parlare in punta di dita e Turner risponde senza interrompere, ma semplicemente declinando il medesimo lemma in una lingua affine, in cui tutto si riflette in una sintassi spezzata, fatta di respiri e sospensioni, dove la chitarra è quasi una voce che sussurra nella notte. L’armonia si avvolge su sé stessa come un pensiero ricorrente, mentre la materia sonora si disfà e si ricompone come fiato sulla superficie dell’acqua: mai insistente, sempre presente.
Il corpo centrale del disco si dipana tra riferimenti che potrebbero apparire accademici – Shorter, Mobley, Land – ma che nelle mani di questi interpreti diventano veri e propri centri di gravità rotanti, spunti per un esercizio di reinvenzione calibrata. « Angola» si anima di un vigore controllato, dove Turner affonda il timbro senza brutalità e Mehldau imprime direzioni oblique senza mai rendere la struttura opaca. La sintassi musicale è a tratti serrata, quasi incalzante, ma mai caotica: c’è un ordine interno, una grammatica dell’assalto, in cui ogni solista affonda il colpo senza mai travalicare l’equilibrio corale. Stewart è il protagonista silenzioso: scandisce, infuoca, e poi si ritrae con la stessa eleganza con cui è entrato. « Soft Impression», a dispetto del titolo, non indulge in facili languori: è un moto costante, un’iterazione sussurrata che trova compimento nel suo stesso non finire. L’ariosità malinconica di Mobley viene filtrata attraverso la lente meditativa del gruppo. Sintatticamente, si tratta di una ballata che imposta ogni frase sulla pausa più che sulla nota. Turner danza sulle pieghe del tempo con un tono che richiama Lester Young in controluce, mentre Mehldau distende i suoi accordi come chi sistema lenzuola pulite su un letto antico: gesto rituale, e dunque sacro. L’emozione è quella dell’abbandono consapevole: si ascolta il passato senza cadere nella malinconia, come un vecchio amore che si ricorda senza più dolore. « 1946» è come una data da ricordare appuntata su un calendario. Turner opta per l’essenzialità: cellule semplici, pochi suoni ben scelti, e un uso sapiente dello spazio vuoto. Sintassi rarefatta, asciutta, quasi haiku jazzistico. L’emozione è duplice: da una parte un senso di nostalgia implicita, dall’altra una calma accettazione. Non c’è pathos, ma lucidità. Una serenità che nasce dalla sottrazione.
Tra le composizioni originali spicca « Maury’s Grey Wig», la cui natura paradossale – il titolo è quasi beffardo e surreale per una musica così assorta – rappresenta forse la cifra più veritiera di Mehldau: la capacità di alludere senza enunciare, di ridurre l’intensità a meditazione senza cadere nella rarefazione, trovando un rispecchiamento nella sintassi armonica: ambigua, accennata, ricca di doppi fondi. Bernstein sfiora il suono come un pittore che lavora con i colori pastello. L’emozione è quella del sorriso che nasconde un ricordo struggente: leggerezza con la punta amara. Per contro « Ditty For Dewey», Bernstein, crea invece un piccolo organismo pulsante, che sembra oscillare tra il gioco infantile e la costruzione sofisticata, tra la filastrocca e il canone vernacolare, una dedica, un piccolo esercizio di gioia contenuta. L’andatura è « discorsiva»: temi brevi, ripetitivi, quasi infantili nella loro immediatezza, che si aprono però a uno sviluppo ricco, pieno di pieghe sottili. Emotivamente ci troviamo di fronte a una malinconia solare: una celebrazione della memoria non come perdita, ma come continuità. È jazz che cammina, che si muove, che sorride. Il saluto finale è affidato a « Ode to Angela», in cui la compagine si raccoglie attorno ad un’idea di respiro collettivo. Nessuno svetta, tutti agiscono. Mehldau costruisce un tessuto armonico che richiama le iridescenze del vibrafono di Bobby Hutcherson, non per emulazione, ma per affinità di luce. Si chiude così il cerchio, o forse lo si lascia volutamente aperto, come si fa con certi racconti che rifiutano il punto fermo, lasciando presagire un sequel.
Per tutto l’album, Mehldau non domina, guida. Turner non urla, canta. Bernstein non brilla, vibra. E attorno a loro, Grenadier e Stewart fungono da colonne d’aria e fondazione armonica: il primo con una sapienza tonale che è quasi calligrafica, il secondo con un fraseggio percussivo che sa di respiro più che di impatto. « Solid Jackson» è un’opera che non chiede attenzione ma la merita, perché ci restituisce l’utopia di un tempo condiviso: quello dell’ascolto profondo, dell’intesa fra pari, della musica come esercizio di pensiero. Non si esce da questo ascolto appagati nel senso più immediato del termine: ci si scopre, invece, lievemente modificati, come dopo la lettura di un trattato non risolto, o il confronto con un interlocutore sottile. « Solid Jackson» non tenta di lasciar traccia: è la traccia, silenziosa, sottopelle, ma irriducibile.
