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// di Cinico Bertallot //

Nato e cresciuto in una famiglia della working class di Los Angeles, Dolphy era figlio unico e fin da piccolo si concentrò esclusivamente sullo studio regolare della musica. I suoi genitori lo sostennero senza riserve, fornendogli i migliori insegnanti e trasformando il garage di casa in uno studio per le prove. La sua carriera da band-leader si concentrò in pochi anni, con solo cinque sessioni di registrazione in studio, tra il 1960 e il 1964, mentre il resto del suo percorso fu arricchito da live e collaborazioni con alcuni dei più accreditati nomi del jazz. Il destino, però, fu crudele con lui: il 29 giugno 1964, a seguito ad un malore avuto in un club di Berlino venne trasportato in ospedale, dove una grave forma di diabete, non riconosciuta e curata erroneamente per tossicodipendenza, lo portò via a soli trentasei anni. In Europa, Dolphy aveva trovato menti più aperte ed un ambiente più accogliente per le sue idee non convenzionali, ma il tempo non gli concesse di svilupparle fino in fondo. La sua eredità, però, rimane indelebile. Ho intervistato Francesco Cataldo Verrina, per avere alcuni piccoli chiarimenti sul suo libro «Eric Dolphy, Il Magnificatore», pubblicato da Kriterius Edizioni.

D. Il termine magnificatore è poco usato in Italia. Come lo descriveresti nel contesto musicale?

R. Direi che un magnificatore è un artista capace di elevare e amplificare ogni sfumatura sonora con cui entra in contatto. Eric Dolphy non si limitava a suonare, ma trasformava ogni nota in qualcosa di nuovo e potente, proprio come D’Annunzio fece con le parole. Tuttavia, il riconoscimento nel suo Paese non fu all’altezza del suo talento: la rivista Down Beat lo etichettò come «anti-jazz», dimostrando quanto il suo stile fosse considerato troppo innovativo per i puristi del genere.

D. La carriera di Dolphy si è sviluppata in un periodo in cui il jazz sembrava statico. Qual è stato il suo contributo per superare questa stagnazione?

R. Eric Dolphy era un musicista fuori dagli schemi. Non fumava, non beveva, non si lasciava trascinare dagli eccessi che spesso accompagnavano la vita di molti jazzisti del suo tempo. La sua dedizione alla musica era assoluta: passava le notti non a divertirsi, ma a suonare e perfezionare il suo talento. A differenza di tanti bopper che lo avevano preceduto, non incarnava quell’aura tormentata e maledetta, né aveva vissuto un’infanzia segnata da difficoltà. Negli anni Cinquanta e Sessanta, il jazz viveva un momento di ripetitività manieristica. Dolphy, insieme ad altri musicisti visionari, rimodulò le sintassi musicali e le regole d’ingaggio. Il suo approccio sperimentale e la sua tecnica esecutiva innovativa lo resero un punto di riferimento per chi voleva andare oltre il bop tradizionale.

D. Alcuni colleghi erano intimoriti dal suo stile, mentre altri ne riconobbero il talento. Cosa lo rendeva così particolare?

R. Dolphy non si conformava ai canoni del jazz della sua epoca. Il suo modo di suonare sembrava quasi divorare le note, creando un linguaggio atipico e completamente nuovo. Per questo fu criticato da alcuni colleghi, come Miles Davis, ma apprezzato in particolare da Coltrane e Mingus, che ne intuirono le potenzialità e lo integrarono nei loro progetti. Dolphy fu un artista che ha abbracciato l’eccentricità come scelta consapevole, cercando di mettersi continuamente alla prova in contesti nuovi e inaspettati. Suonava il flauto, lasciandosi ispirare dal canto degli uccelli che trascriveva con passione, mentre, contestualmente, si cimentava anche con il sax alto, ma il clarinetto basso fu lo strumento in cui si identificò di più e con il quale trovò la massima compliance, portandolo a livelli di virtuosismo mai raggiunti prima. La sua formazione, radicata nell’influenza parkeriana, è legata ad una sorta di bebop più evoluto. Ciononostante, la sua ricerca lo spingeva verso una maggiore libertà armonica. Ciò si traduceva in un approccio più libero nella relazioni tra le note, più vicino, però, alla musica classica contemporanea che al free form, con una struttura compositiva che, a dispetto delle apparenze, era molto studiata e condizionata dalla sua formazione scolastica. Dolphy amava combinare i musicisti in formazioni audaci e innovative, passando dai duetti ai quintetti classici, dai brani per solisti ad ensemble più estesi con sei fiati nell’organico. Non deve sorprende se, all’epoca, la critica, le case discografiche e i locali non gli abbiano sempre reso la vita facile. Soprattutto alcuni colleghi, quelli con una visione più stantia e tradizionale, temevano di suonare e di misurasi con lui. Per contro, con altri temerari, i quali battevano le impervie ed accidentate strade dell’avanguardia, Dolphy condivideva la trasversalità, l’imprevedibilità ed il desiderio di cambiamento, senza assumere mai atteggiamenti intellettualoidi e troppo seriosi.

D. Con Mingus, Dolphy ha avuto un rapporto speciale. Come si sviluppò questa collaborazione?

R. Mingus vide in Dolphy un alter ego, qualcuno capace di compensare le carenze di altri musicisti e di suggerire soluzioni musicali sempre innovative. Lo impose come uomo di punta nei suoi capolavori, contribuendo a trasformarlo in un’icona del jazz sperimentale. Era davvero difficile reggere il confronto con lo scontroso contrabbassista o stare nel suo entourage se non si possedevano taluni requisiti. Senza togliere nulla ad altri strumentisti di talento, a parte Dannie Richmond, il fedele batterista di sempre, che Mingus definiva «il battito del mio cure», colui il quale seppe assecondarne le mosse e magnificarne talune partiture fu senza dubbio Eric Dolphy. Oggi, ex-post, è possibile affermare con certezza che Mingus possedesse il dono di tirare fuori il meglio da ogni musicista con cui entrava in contatto, e questo non era solo il segno tangibile di un band-leader dotato di un forte senso dell’orientamento pratico e musicale, ma anche sinonimo di un’innata capacità di assemblare sempre il gruppo collaboratori adatto allo scopo e con cui condividere il viaggio. Mingus era un ispiratore, oltre a possedere una mente dinamica, sempre ispirata e in movimento, che in Dolphy trovò una sponda ideale capace di riverberare la sua musica, locupletarla e tenerla a stretto contatto con il linguaggio evolutivo del jazz moderno sempre in fermento, specie in quel singolare scorcio degli anni Sessanta. Come accennato, lo stesso Coltrane, sempre alla ricerca della pietra filosofale, dopo averlo praticato, frequentato e suonato con lui per un certo periodo, iniziò a dare una svolta al suo modus agendi.

D. Nonostante fosse osteggiato dalla critica in vita, oggi Dolphy è un punto di riferimento per le avanguardie. Cosa possiamo imparare dalla sua eredità artistica?

R. Qualcuno disse ironicamente – forse il solito Miles Davis che lo aveva in uggia – che Dolphy sarebbe finito a comporre partiture per quintetti d’archi. Non è da escludere, ma questo ha dato vita ad una leggenda metropolitana, la quale narra di alcune di queste partiture scomparse o conservate chissà dove e che molti pseudo-musicologi, pur paventandone l’esistenza, non sono mai riusci a scovare o mostrare. La sua storia ci insegna che l’arte deve evolversi e sfidare le convenzioni. Dolphy era un esploratore instancabile e il tempo gli ha dato ragione. Ascoltando la forza espressiva e la bellezza degli assoli di Eric, nessuno avrebbe mai scommesso su una sua prematura dipartita. Oggi è celebrato non solo per la sua tecnica, ma per il suo impatto «rivoluzionario» sulla sintassi jazzistica.

2 thoughts on “Un libro cult: «Eric Dolphy, Il Magnificatore», intervista all’autore Francesco Cataldo Verrina

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