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Alf Clausen

// di Guido Michelone //

Dice Alf Clausen – nato a Minneapolis il 28 marzo 1941 – compositore, jazzman, direttore d’orchestra, nonché unico autore dello score dei Simpson dal 1990 al 2017: “Noi non consideriamo i Simpson un disegno animato. Quelle sono persone reali. Più importante ancora, ciò che ho scoperto in questo disegno animato è che il montaggio è molto più stretto che in un tipico show drammatico. Resta difficile trovare uno spazio adeguato per inserirvi la musica. Le storie sono dettagliate e il montaggio è stretto. Talvolta ho soltanto uno, due o tre secondi per eseguire qualcosa di triste prima che si cambi registro e si vada da qualche altra parte”.

In effetti il jazz in questa serie televisiva è strettamente funzionale al ruolo di servizio da prodotto mediologico, come accade in ogni altra realizzazione seriale (cartoonistica e non) per il piccolo schermo. Ma la differenza tra I Simpson di Matt Groening e altri cartoon, sul piano dell’uso della colonna musicale (e di altri codici precipuamente audiovisivi), è che da un lato gli autori sono doppiamente coscienti della natura ambigua del loro prodotto e che dall’altro lato, di conseguenza, giocano a strutturarlo proprio sui limiti estremi e fragilissimi che, oggi, separano l’opera massiva da quella autoriale. Ne fuoriesce una musica al quadrato, nel senso dell’engagement metalinguistico della colonna sonora, che diventa operazione jazz postmoderna, veicolo citazionista, messaggio autoreferenziale per i fruitori contemporanei in possesso delle chiavi di lettura del linguaggio delle immagini in movimento: immagini che sono anche uditive, giacché l’uso del sonoro (nella triplice ripartizione codica di voce, rumore, musica) connota profondamente lo sviluppo narrativo. E dunque, analogamente al segno visivo, anche quello musicale brandisce l’arma del paradosso, dell’ironia, della presa in giro.

Sempre l’impiego del soundtrack nei Simpson fa il verso a qualcos’altro: innanzitutto al cinema e alla televisione, di cui è l’erede legittimo, perché è dai media visuali intesi come filtri della realtà che prende spunto per rappresentare ‘il’ mondo e ‘quel’ mondo. Quando allude all’iperrealismo dei Simpson, Clausen non a caso fa riferimento al modo di rappresentazione che si fonda su tipici elementi drammaturgici (il montaggio tirato in causa, quasi alla Ejsenstejn, è fin troppo chiaro). Se dunque l’uso della musica serve a ricordare allo spettatore ‘quel’ qualcos’altro di cui ogni giorno egli è ritualmente partecipe (la quotidiana festività televisivo-mediologica), a maggior ragione anche l’impiego dello score a proposito di un singolo argomento (l’amore, per esempio), diventa ulteriore segno meta-cinematografico e autoriflettente. Quando infatti uno dei produttori-autori, Jay Kogen, sostiene che “la musica aiuta più a rendere lo show realistico che a giocare un ruolo comico, dal momento che i personaggi sono disegnati, e spesso, quando i disegni non sono in grado di veicolare ogni cosa, la musica aiuta enormemente” non solo esprime il convincimento sulla spinta dello spettacolo verso un realismo a oltranza, ma soprattutto rammenta che questo effetto di profonda verosimiglianza non può che ottenersi transitando dentro gli artifici di ricreazione fantastica che l’immagine audiovisiva, quasi per legge di ‘natura’ (più che per logica evoluzione ‘culturale’), contiene al proprio interno e va esprimendo, di continuo, al di fuori di sé.

Come nei più famosi serial americani – di cui i Simpson sono la caricatura estrema – l’uso del jazz è ridotto al minimo indispensabile: e anche nelle rare scene amorose, dei pur frequenti episodi in cui emerge un intreccio sentimentale oppure un tributo più o meno diretto ad esempio alla festa di San Valentino, non risaltano che pochi accorgimenti sonori, comunque essenziali alla resa drammaturgica della scena medesima. Però, senza dubbio, il piano della sottolineatura, parodisticamente emotiva o sentimentale, capovolge l’assunto mélo dello score che si prende troppo sul serio, come avviene appunto nei coevi feuillettons televisivi; dal cinema invece il jazz dei Simpson eredita, anche qui col gusto postmoderno già nominato, il senso della magniloquenza, del guizzo, del rimando, dell’archetipo intellettuale.

Bastano pochi esempi, tratti da alcuni episodi, per verificare come, nelle scene amorose il jazz di Clausen funzioni sia come un normale soundtrack cinematografico, sia soprattutto come la versione al quadrato, in senso parafrastico, di questa stessa ritualità che vuole una tipologia ben definita di stereotipi musicali per gesti, sguardi, frasi, comportamenti fra innamorati. In La carica delle due dozzine e uno (2F18) il cane di casa Simpson, che risponde al buffo nome de Il Piccolo Aiutante di Babbo Natale, è innamorato di una cagnetta che partorirà ben venticinque cuccioli, in una divertente parodia del disneiano La carica dei 101: nella prima parte dell’episodio si assiste alla messa in scena dell’innamoramento che, come sempre accade in questa serie, viene eseguita in termini caricaturali: il protagonista infatti fugge di casa per dirigersi a un cinodromo dove si svolge la tipica corsa alla volpe meccanica; quando gli spettatori presenti (i tifosi, i Simpson, tutti facenti le veci di quello televisivo) osservano l’animale che supera gli avversari, per un attimo hanno il sentore che sia lì per vincere la gara, ma, con una brevissima azzeccata ellissi temporale, giustificata nell’ottica cartoonistica del ‘politcally correct’ televisivo, non senza una sottile ironia contro le esagerazioni di tale perbenismo, l’immagine mostra solo gli astanti che vedono invece l’accoppiamento con la sua amata, la quale è ovviamente in testa alla sfida.

Questa scena però evidenzia appieno l’originalità e l’intelligenza della trovata espressiva grazie a uno squillo di trombe dalla chiara enfasi trionfalistica, dall’attimo in cui il predatore conquista la sua ‘preda’, fino alla spiegazione con una battuta (di proposito volgare) che, a sua volta, rende esplicito l’accaduto al telespettatore. In questo caso la musica così volutamente retorica serve a rimarcare la comicità del machismo, quasi in una sorta di coronamento della ‘bestia in calore’. A un atteggiamento dunque bestiale fa però seguito, in un rovesciamento logistico di percorsi amorosi, una scena composta da tante piccole sottosequenze che parlano visivamente dell’innamoramento tra i due animali, ancora una volta alludendo alla presa in giro del mito disneiano (in particolare a un lungometraggio come Lilli e il vagabondo). I due infatti si comportano da teneri fidanzatini in un mondo roseo che sembra, altrettanto simpaticamente, disposto a corroborare i loro sentimenti: tutto ciò infatti viene sottolineato sia dall’affettuosa disponibilità dei negozianti e dei ristoratori a donare gli avanzi di cibo a mo’ di leccornie sia soprattutto dalla musica che riproduce i più vieti stereotipi hollywoodiani, dalle sviolinate pseudo romantiche all’uso dei mandolini, per connotare l’ambiente italoamericano: e proprio sull’abbondante vitto offerto dal pizzaiolo accade l’imprevisto, con i due animali a disputarsi accanitamente uno spaghetto.

Anche gli episodi aventi come protagonisti gli umani contemplano una funzione smitizzante della pesante retorica musicale che commenta le immagini in quasi tutti i film statunitensi. L’episodio Io amo Liza (9F13), in cui proprio nel giorno di San Valentino Ralph Winchester si innamora di Lisa Simpson, vede la messa alla berlina dei maggiori stereotipi adoperati dal cinema di genere o dai b-movies e ora citati appunto in chiave parodica e irnonizzante. Dall’inizio alla fine si susseguono esilaranti scenette, il cui humour prorompe appunto attraverso i registri jazz dispiegati: Ned Flanders il vicino puritano di casa dei Simpson intona un canto d’amore (stonato, pudico, ridicolo anche nella versione italiana tradotta) alla moglie travestendosi da chitarra a forma di cuore; il momento delle letterine, che Liza e i suoi compagni in classe dedicano alla ricorrenza, nel gesto simbolico di imbucare nelle cassette di carta da loro stessi costruite, è accompagnato dal pizzicato degli archi, che rinvia citazionisticamente alla frenesia del giorno di festa di tante commedie brillanti ‘made in Hollywood’. E via via, nelle scene successive, un magniloquente tocco da poema sinfonico è usato per il cartoon pulp Gratachecca e fighetto che i giovani Simpson guardano con assiduità e trasporto: il gatto e il topo festeggiano San Valentino nelle loro solite maniere truculente, coadiuvati appunto dall’esibizione di una sonorità che rappresenta l’esatto contrario dell’immagine schermica. E l’episodio si conclude con la recita scolastica in cui la scena della morte di George Washington (che serve ai due bambini come ennesima baruffa amorosa) è punteggiata musicalmente da poche autorevoli note ‘alla maniera del’ commento solenne, come l’accenno alla marcia funebre sul letto di morte del protagonista, quasi a regolare una doppia finzione rinfragente del jazz stesso.

Per concludere, Clausen va a buon diretto annoverato fra i grandi compositori di colonne sonore, come del resto sostiene l’esperto Doug Adams sulla rivista Film Score Monthly analizzando proprio il lavoro sui Simpson: “Lo spettacolo gli offre l’opportunità di comporre drammi realistici, commedie esagerate, jazz urbano grintoso, melodie di show degni di Broadway e alcune delle parodie più intelligenti e amorevoli sui generi televisivi, non senza riferimenti alla musica d’azione anni Settanta e a colonne sonore di lungometraggi mai realizzati. Alf si impegna moltissimo, portando sempre il suo caratteristico brio stilistico con estrema precisione tecnica. Ha dimostrato senza ombra di dubbio che la colonna sonora televisiva non è la vasta landa desolata che spesso si dice sia e che un compositore intelligente può prendere anche gli show più impegnativi ed elevarli a nuove vette”.

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