Vinile sul Divano: London Re-Calling

Ornette Coleman
// di Gianluca Giorgi //
Yazz Ahmed – La Saboteuse (Naim, 2017)
Da qualche anno, la scena jazz londinese è portatrice di un rinnovamento che va oltre i confini dell’Inghilterra e incontra un pubblico sempre più numeroso. Una musica che tende ad abbattere barriere e a fabbricare ponti tra i generi, per condividere le differenze e consentire l’incontro fra le distinte identità. Yazz Ahmed è spesso associata alla scena nu jazz londinese, con la quale in effetti condivide palchi e collaborazioni. La musica della trombettista è in realtà situata al punto d’incontro tra jazz cinematografico e tradizioni mediorientali e risente tanto delle origini dell’artista (il cui padre è del Bahrain) quanto delle sue frequentazioni in ambienti art-rock. L’album è portatore di un’intenzione, quella di raccontare una storia in quattro capitoli, ognuno illustrato da Sophie Bass, che ha creato le sue illustrazioni direttamente sulla musica. “La saboteuse” è un album che rende a tutto campo la suggestiva visione musicale della trombettista e si fa notare proprio per il connubio di ritmi e armonie mediorientali con sonorità big band dalla forte dinamica e dai toni gustosamente retro. Coadiuvata dal clarinetto basso di Shabaka Hutchings (The Comet Is Coming, Sons of Kemet, Meet Yourself Down) e dal chitarrista svedese Samuel Hällkvist (Isildurs Bane), la musicista si alterna alla tromba e al flicorno (del quale possiede una versione a quarti di tono) proponendo in una successione equilibrata brani di sua composizione, pezzi nati da improvvisazioni collettive e due cover assai riuscite: “Bloom” dei Radiohead e “Organ Eternal” dei These New Puritans – entrambe band con le quali l’artista ha collaborato, proprio per la registrazione degli album che contengono i pezzi in questione. Il disco brilla per la sua efficacia melodica e l’onnipresenza di schemi ritmici “desertici”, fortemente accentati e dal sapore esotico; il vero elemento distintivo della miscela è tuttavia il sound, policromo ed evocativo. A questo concorrono in particolar modo l’utilizzo del vibrafono e la prominenza del basso elettrico, che allargano la tavolozza timbrica della band spostandola da un assetto puramente fiatistico verso lidi elegantemente easy listening. Un disco che riflette l’identità multiculturale dell’artista e delle sue numerose collaborazioni, con un proprio stile musicale che può essere qualificato come “jazz arabo psichedelico”.
Gerry Mulligan meets Enrico Intra (1976)
La suite “Nuova Civiltà” la troviamo ad aprire anche questo bellissimo disco di Intra con Mulligan. Memorabile versione, considerata dalla critica internazionale una delle più importanti opere non da leader del celebre sassofonista e compositore americano. Gerry Mulligan, si trova in Italia a soggiornare ed accetta di incontrare e partecipare al disco del pianista italiano Enrico Intra, registrando un album di composizioni di Intra ad eccezione di “Rio One” firmata dallo stesso Mulligan. Il disco viene registrato nel 1975 presso gli Studi Ricordi di Milano, in una sessione registrata con Giancarlo Barigozzi al sax soprano, Sergio Farina alla chitarra elettrica, Pino Presti al basso elettrico e uno strepitoso Tullio De Piscopo alla batteria. Disco molto bello anche se complesso e mai prevedibile.
Enrico Intra
Importante jazzista milanese nato nel 1935, Enrico Intra ha lavorato come pianista, compositore e direttore d’orchestra. Molto apprezzato anche a livello internazionale, è stato a lungo uno degli animatori del mondo jazz milanese. La sua vasta cultura musicale, nella quale trovano posto influenze della musica classica come del blues ed ovviamente del jazz, ma anche aperture al pop, si è tradotta in un’attività eclettica che ha fruttato lavori sperimentali (ad esempio il progetto Sound Movie), progetti jazz e collaborazioni con il mondo della musica popolare italiana (da Guccini ad Iva Zanicchi, fino alla direzione d’orchestra in alcune edizioni del festival di Sanremo).


Marshall Allen, New Dawn (2025)
A cent’anni compiuti il sassofonista della Sun Ra Arkestra debutta da solista con un disco che guarda al passato e in parte anche al futuro. Membro venerato della Sun Ra Arkestra dal 1958 e leader dell’ensemble dalla partenza di Sun Ra da questo regno nel 1993, la carriera di Allen ha attraversato quasi settant’anni, eppure questa è la prima volta che pubblica un disco da solista con il suo nome. Piuttosto che la fine di un’era “New Dawn” si presenta come un nuovo capitolo per Allen. Pioniere dell’avanguardia, i contributi di Allen sia all’interno che all’esterno dell’Arkestra sono leggendari. La musica di Allen è di spirito cosmico, trascende i confini del jazz tradizionale e offre una risonanza emotiva/spirituale; è sempre stata più di un semplice suono. La sua padronanza del sassofono, insieme alla sua dedizione agli insegnamenti di Sun Ra, lo ha messo in una posizione distinta all’interno dell’universo jazz d’avanguardia per decenni. L’album, registrato a Filadelfia nel maggio 2024 è stato uno sforzo collaborativo con Knoel Scott, collega membro della Arkestra e amico per tutta la vita, presenta un lato intimo di Allen raramente sentito prima. Due giorni dopo il suo 100° compleanno, Marshall Allen ha iniziato a registrare “New Dawn”, questo suo album di debutto da solista. Prodotto da Jan Lankish, visual designer dietro a moltissime immagini e layout di tanti dischi, in particolar modo per le etichette Tomlab e Bureau B, è un disco posato e ottimamente costruito, un’alba che sembra annunciare un nuovo inizio, una musica jazz contaminata e godibile, in cui si mescolano i tramonti africani e l’amore, un disco che all’ascolto emana tenerezza. Nel disco, a differenza di gran parte del catalogo di Sun Ra, ci sono molti strumenti a corda (6 violìni, 2 viole, 1 contrabbasso e 1 violoncello) che riempiono e aumentano le composizioni jazz di Allen. Infatti la maggior parte delle tracce qui contenute sono suonate da oltre 15 musicisti (fra i tanti: Knoel Scott al sax baritono, congas, batteria, Cecil Brooks alla tromba, Jamaaladeen Tacuma al basso, membro della band Prime Time di Ornette Coleman negli anni ’70 e ’80 e Neneh Cherry special guest e voce). Le composizioni che compongono l’album sono tutte di Allen, inclusa la conclusiva “Angels and Demons at Play”, un brano sempre presente nella scaletta della Sun Ra Arkestra. Allen stempera il rovente groove afro-jazz in 5/4 di Sun Ra rendendo il brano più soft, mantenendo comunque, un’interpretazione sontuosa e funky con effetti di doppi eco sulla batteria di George Gray e sulle trombe di Michael Ray e Cecil Brooks. “Sontuoso” è un buon termine per descrivere l’approccio di Allen alla musica e all’eredità condivisa con Ra. Chi ha familiarità con il lavoro di Sun Ra e della Sun Ra Arkestra potrebbe rimanere in qualche modo sorpreso da “New Dawn”. L’avant-jazz e la tavola musicale di Ra sono in gran parte assenti qui, a favore di un suono jazz più tradizionale. Dopo un breve “Prologo”, “African Sunset” risplende come il suo titolo, una ballata la cui melodia guidata dal sax baritono scivola, come una leggera brezza, sugli strumenti a corda (con Allen che fornisce effetti sonori da film di fantascienza su EWI e un prologo sorprendente sul koto giapponese). La title track è una serenata dal sapore nostalgico affidata a una ricca strumentazione (chitarra, violini, piano, contrabbasso, spazzole e naturalmente il sax di Allen), con una Neneh Cherry magistrale nel donarle un sapore di old time music e con una linea di clarinetto squisita e viscosa (uno Scott non accreditato) che raddoppia alternativamente e si armonizza con la voce. “Are You Ready” oscilla con un’atmosfera da big-band in cui emerge una vena blues che non sarebbe dispiaciuta affatto a Jake ed Elwood Blues. La melodia ha il ritmo e l’atteggiamento da festa del primo rock ‘n’ roll, con anche un’introduzione di chitarra blues volgare, un ricordo della Chicago degli anni ’50 in cui Allen si unì alla Sun Ra Arkestra, con i fiati di Knoel Scott che ammorbidiscono il tutto. Il lato 2 diventa un po’ più avanguardia, con una “Sonny’s Dance” dal sapore vagamente free e la jam cosmica di 10 minuti “Boma”, in cui Marshall e la band vagano in diversi correnti e linguaggi, con momenti anche di foga che il leader stempera con un quartetto d’archi tremante, una chitarra di Bruce Edwards sorprendentemente leggera e il suo modo di suonare il contralto selvaggio e grossolano, ma anche ingannevolmente sinuoso. Musica d’altri tempi si potrebbe dire, musica che lascia a bocca aperta per la sua classicità e l’impossibilità di fissarla in un’annata. Il disco sembra una lettera d’amore in cui è incanalato un secolo di intelligenza musicale di Allen, il quale in sette tracce si muove liberamente su suoni rilassati e trans dimensionali. Dietro a questo lavoro c’è una vita, un mondo di esperienze e di suoni impossibili da catalogare, emozionanti come poche altre cose.
Fitz Gore & The Talismen, Soundmagnificat (1976 ristampa 2021)
Profondo spiritual jazz registrato in Germania, uscito dopo “Soundnitia” del 1975, pubblicato nel 1976 da una piccola etichetta privata. Questa è la prima riedizione del loro secondo album dei Talismen, gruppo del sassofonista tenore Fitz Gore (nato in Giamaica nel 1935 e morto in Germania nel 2002) fondatore, leader e solista principale del gruppo. Si tratta di quattro brani registrati in quattro diverse occasioni. L’album ci presenta Fitz Gore come compositore, sassofonista tenore ed anche cantante. Il primo stupendo brano, “Requiem for Julian “Cannonball” Adderley”, è un commovente omaggio al grande artista americano, il defunto sassofonista contralto “Cannonball” Adderley. Per la prima volta si può ascoltare nei Talismen il batterista ungherese Janos Sudy. Per il brano successivo, un’esecuzione ripresa da un concerto, Gore ha scelto una gemma della musica tradizione nera americana “Steal Away” in cui sfoggia una voce possente, mascolina e soul. Utilizza questo brano della vecchia tradizione per esprimere i propri sentimenti interiori. “Delilah” è tratto da un’altra esibizione in concerto, lo stesso concerto della musica di “Soundnitia”. Brano stupendo in cui si possono sentire 2 splendidi assoli di Gerard Ebbo al contrabbasso e di Lamont Hampton alle congas. Il brano finale, “A Sinner Kissed An Angel” è stato registrato nel 1950 dal tenore Wardell Gray, ma questa versione è tutta di Gore. Dopo l’introduzione al pianoforte, Gore esegue la melodia con autorità e con un uso espressivo soprattutto del registro acuto del suo strumento, nell’improvvisazione il suono di Gore diventa più dissonante. Non c’è batteria qui, ma un bell’accompagnamento e il lavoro solista di Jochen Paul al vibrafono. La musica di Fitz Gore, che nel suonare ricorda molto il Coltrane più contemplativo ma anche Sonny Rollins, affonda le sue radici nel blues ed è piena di tensione ma sempre melodica ed avvolgente, una musica piena di speranza, veramente innovativa, senza tempo.

