Intervista a Enzo Capua. Il trait d’union tra il jazz americano e quello italiano

Enzo Capua
// di Valentina Voto //
Enzo Capua è un critico e un giornalista musicale, che ha collaborato con la Rai e con diverse radio private, ma che si è dedicato anche a cinema, teatro e televisione, in qualità principalmente di sceneggiatore e regista. Per ventuno anni ha lavorato come consulente artistico per Umbria Jazz, occupandosi altresì come producer della realizzazione di eventi e concerti negli usa non soltanto legati al festival umbro, ed è corrispondente dagli States per la rivista Musica Jazz: non a caso si definisce “il trait d’union tra il jazz americano e quello italiano” e dice di conoscere forse meglio la scena americana di quella italiana.
D In tre parole chi è Enzo Capua?
R Un ragazzo cresciuto nella provincia del Sud Italia – dove non arrivavano i dischi ed era raro avere delle informazioni in merito – tra gli anni Sessanta e Settanta, folgorato per il jazz da Miles Davis ascoltato alla radio nel 1969 e che da lì in poi ha costruito una carriera sviluppatasi a Roma, in Rai, radio private e giornali (tra cui Musica Jazz, rivista della quale sono corrispondente dagli Stati Uniti), fino ad arrivare a Umbria Jazz nel 2003.
D In quale delle tue tante vesti professionali ti trovi meglio?
Non vedo diverse vesti, ne vedo una sola. Io certo ho fatto della critica, ma sono anche un producer, ho prodotto tanti eventi a New York, con e senza Umbria Jazz. Quindi la musica, e il jazz in particolare, è parte di me, è il vestito che porto quotidianamente e che non posso cambiare… dico la musica in genere, perché io sono stato e sono tuttora un grande appassionato di rock e di musica contemporanea, quindi il mio campo d’azione è sempre stato molto ampio.
D Al jazz però come sei arrivato?
R Come tanti della mia generazione, ho cominciato da ragazzino negli anni Sessanta (io sono del 1954) con gli amici e con i dischi rock, ma a quel tempo eravamo pochi appassionati – a metà tra pionieri e carbonari – a seguire le ultime uscite dei Deep Purple o dei Beatles (cose che, a pensarci adesso, hanno un che di leggendario). Poi un giorno – ero al mare, in spiaggia – ho sentito alla radio un brano da Bitches Brew e ne sono rimasto folgorato. Da lì, io che sono di un’avidità e di una curiosità incredibili, ho dovuto procurarmi tutto quello che era in commercio di Miles, ma, come dicevo, la faccenda allora era pionieristica: c’era un solo negozio di musica a Reggio Calabria, la mia città, e a un certo punto finì che gli stessi proprietari iniziarono a chiedermi cosa ordinare! Poi, per imparare meglio l’inglese, nelle estati dei primi anni Settanta andai a Londra, e lì mi avvicinai molto al jazz britannico, ma anche al jazz americano di quel periodo.
D Quali sono i motivi che ti hanno spinto a occuparti di critica musicale?
R La passione viene anche quando certe cose hai la possibilità di realizzarle, quindi lavorando già in radio o in Rai alla fine è stato automatico che mi sia interessato di critica. Ecco, “critica” è una parola che viene usata male in Italia: un “jazz critic” in America è qualcosa, in Italia invece il “critico”, vista la doppia connotazione del termine, dà l’idea di una persona rompiscatole, noiosa e presuntuosa. Ovviamente non è così.
D In cosa differiscono maggiormente i critici di jazz statunitensi da quelli italiani?
R Alcuni critici italiani sono molto bravi, e spesso sono poi anche quelli che insegnano, mentre altri sono un po’ più “avventurosi” e capiscono poco – basta leggerli per rendersene conto –; negli usa invece devi essere sempre molto preciso in tutto quello che scrivi, sia negli articoli sia nei libri (le pubblicazioni dedicate al jazz, poi, sono molto, molto più numerose rispetto all’Italia e trattano anche argomenti ben specifici), e devi conoscere molto bene ciò di cui parli, altrimenti vieni massacrato, meno che in Italia ti puoi permettere di dire fesserie. Il critico americano, inoltre, ha un atteggiamento, diciamo, più distaccato rispetto a quello che scrive, tanto da sembrare alle volte quasi asettico, mentre l’europeo – l’italiano in particolare – tende a essere più coinvolto, più emotivo.
D Cos’è per te il jazz?
R Considero il jazz un linguaggio (come è anche la rock music per esempio), un linguaggio molto specifico, con i suoi punti di riferimento. Molti non condividono questa mia idea, altri sì. Per esempio, il sassofonista Mark Turner, che ho intervistato proprio l’altro giorno, si diceva d’accordo; di parere opposto è invece un altro mio amico, George Lewis, che fu direttore dei Jazz Studies alla Columbia University (George, tra l’altro, mi fece tenere una conferenza in inglese sul jazz italiano proprio alla Columbia – cosa di cui mi onoro ancora). Il jazz diventa universale proprio perché è un linguaggio e, in quanto tale, si declina diversamente a seconda dei luoghi in cui attecchisce e si sviluppa; oggi si è diffuso ovunque: c’è il jazz russo, il jazz giapponese e ha messo radici perfino in Cina (dove Umbria Jazz è andata anni fa a fare una serie di concerti proprio per rispondere a un interesse dei locali), per non parlare del Sud America e della commistione di linguaggi, così come delle mutue influenze, tra il jazz e la musica cubana o brasiliana. C’è sempre un interscambio.
D E questo interscambio si può dire abbia caratterizzato anche il rapporto che il jazz ha intrattenuto (e intrattiene tutt’ora) con i linguaggi delle altre arti? Hai scritto anche un libro sull’argomento…
R Certo, e tale rapporto è possibile anche in virtù di certe sue peculiarità che altre musiche non hanno (o, se le hanno, è perché le hanno mutuate dal jazz). Ti faccio un esempio tratto dalla pittura: c’è un quadro del pittore olandese Piet Mondrian che trovo stupendo e che mi è rimasto impresso fin da quando l’ho visto qui al Guggenheim di New York: si intitola Broadway Boogie-Woogie. Ne racconto la storia nel mio libro Il jazz arte delle arti – tratto da una conferenza da me tenuta prima del Covid a Reggio Calabria – in cui parlo di come è nato e si è diffuso il jazz ma soprattutto di che rapporto il jazz ha avuto con la pittura, con il cinema e con le altre arti. Mondrian era diventato un appassionato di jazz… così come Puccini, che venne a New York per mettere in scena le sue opere e restò folgorato da certi concerti jazz – tant’è vero che nella Fanciulla del West ha inserito riferimenti, anche se leggeri, al genere. E questo è potuto accadere proprio in virtù di certe peculiarità del linguaggio jazzistico che altre musiche non hanno: lo swing, per esempio, uno degli aspetti chiave del jazz, che è qualcosa di difficile da spiegare ma facile da percepire, pur non conoscendolo. E lo scambio è sempre reciproco: prendi Jackson Pollock, un altro di quegli artisti che ha influenzato il jazz e ne è stato influenzato a sua volta: l’album capitale di Ornette Coleman, free jazz, ha proprio un quadro di Pollock in copertina.
D Tornando alla musica, sembrerebbe che per te si possa parlare anche di “jazz italiano”… Cosa a tuo parere lo identificherebbe? E esiste per te anche qualcosa di definibile come “jazz europeo”?
R Questa è una domanda che mi hanno fatto in molti. Di “jazz europeo” è difficile parlare, perché già ogni nazione ha le sue peculiarità: ti potrei perciò dire cos’è il jazz tedesco, quello olandese, quello francese o quello inglese. Quanto al jazz italiano invece – che si è evoluto in maniera straordinaria negli ultimi venti, trent’anni –, per me ha una sua tendenza, diciamo, prioritaria rispetto a tante sue altre: quella di avere un’attenzione particolare per la melodia, attenzione che gli viene dalla tradizione classica nostrana ma anche dalla sensibilità tipica dell’italiano, melodrammatico nell’animo. Poi in Italia abbiamo anche musicisti che lavorano in ambiti in cui la melodia ha un’importanza relativa, ma la maggior parte di quelli più importanti sono in qualche maniera legati a questa tendenza. Meno accentuata rispetto agli americani è invece la parte legata alla ritmica: proprio a Mark Turner, che ha suonato con tanti musicisti italiani, ho chiesto se ci fosse qualcosa che differenzia i musicisti italiani da quelli americani e lui mi ha risposto: «La batteria». Mi sono detto d’accordo: un batterista americano ha un’accentazione e un modo di fare che anche il miglior batterista italiano non ha. In Italia ne abbiamo di molto bravi e con una sensibilità particolare, ma non hanno quel beat tipico dei loro colleghi americani. Quindi, se si può definire il jazz italiano in qualche maniera, è per quell’attenzione alla melodia di cui ti parlavo prima.
D C’è altro che distingue l’approccio al jazz di musicisti americani e afroamericani da quello dei musicisti europei?
R In gran parte ti ho già risposto, ma, attenzione, tu distingui tra americani e afroamericani: per me non ha senso, oggi, fare questo tipo di distinzione. In America, nel passato, c’è stato qualcosa di identificabile come “jazz bianco”, non afroamericano (anche se comunque derivante dal linguaggio afroamericano – perché non c’è dubbio che il jazz sia nato nel Sud degli usa per una convergenza e fusione di culture diverse ma che la sua matrice principale sia afroamericana). Penso all’epoca dello swing, per esempio, e all’orchestra di Benny Goodman… che però, guarda caso, aveva un chitarrista nero, Charlie Christian! Col passare degli anni questa distinzione a mio parere è andata a perdersi. Mark Turner (rieccolo) è un musicista di colore, però suona abitualmente con musicisti bianchi, e non è il solo. Fra musicisti questa distinzione non esiste, non è che dicono: «Quello è bravo perché è nero» oppure «Quello è bravo perché è bianco». E a questa odierna assenza di distinzioni lo stesso jazz ha dato un contributo importantissimo.
D In cosa invece differisce maggiormente l’approccio del pubblico statunitense al genere?
R Il jazz negli usa è sì cultura ma è sempre anche spettacolo: la parte di entertainment è sempre fondamentale, basta solo vedere come presentano i concerti (cosa che non puoi fare in Italia se non vuoi risultare ridicolo). Lo spettacolo, il coinvolgere emotivamente la gente, resta comunque la prima cosa. In Italia invece andare a sentire un concerto jazz non è cosa tanto diversa dall’andare a sentirne uno di musica classica; c’è qui – e di solito anche in Europa – rispetto agli usa, un approccio più intellettuale al jazz. Altra differenza importante, poi, è che da noi è sconveniente mangiare mentre si assiste a uno spettacolo, lì è la norma.
D Passiamo a Umbria Jazz e alla tua esperienza con il festival umbro: qual è stato il segno distintivo, diciamo pure il marchio, della tua collaborazione?
R Il mio contributo a Umbria Jazz è stato notevole per il rapporto con gli Stati Uniti, che comunque già in partenza era nelle corde del direttore Carlo Pagnotta, appassionato da sempre di jazz americano. Quando Pagnotta mi ha conosciuto, nel 2003, ero il corrispondente da New York di Musica Jazz. Mi ha proposto di iniziare questa collaborazione e così sono diventato il consulente del festival, in questo senso: ho fatto conoscere molti degli artisti nuovi che arrivavano dall’America ed ero il punto di riferimento anche per tutto ciò che Umbria Jazz organizzava negli States. Questo possiamo dire sia stato il mio “marchio”. Carlo Pagnotta era tanto legato agli usa che in molti lo rimproveravano di non chiamare al festival i jazzisti italiani; lui rispondeva che lo avrebbe fatto solo quando avrebbero avuto le qualità artistiche e così è stato: non appena è arrivata l’onda di un jazz italiano rinnovato, da Bollani a Petrella, Cafiso ecc., li ha invitati eccome. Il jazz italiano è forse diventato con gli anni il jazz più vitale d’Europa (cosa che, se tu mi avessi fatto la stessa domanda vent’anni fa, non ti avrei detto).
D Mi faresti qualche nome di jazzista italiano/a, giovane rappresentante di questa onda nuova di rinnovato jazz nostrano?
R Sicuramente Francesco Cafiso, bambino prodigio e ora musicista affermato; poi un pianista che abbiamo invitato a Umbria Jazz, Dino Rubino, magari non noto a molti ma che per me è oggi il pianista italiano più interessante; Alessandro Lanzoni, che però ha già ormai un nome, o Francesco Bearzatti, che è sempre stato molto dirompente e che ha sempre voluto creare progetti speciali, oltre gli stretti confini del genere; Gianluca Petrella, musicista per me straordinario, il più creativo che abbiamo avuto in Italia negli ultimi vent’anni; poi Giovanni Guidi, altro pianista, o Francesco Diodati, il chitarrista dei Fearless Five di Rava. Questi sono i nomi “nuovi” che ti farei, quelli che stanno spingendo il jazz italiano e lo stanno facendo grande, al di là dei nomi grossi e ormai acquisiti. Anche Anais Drago, violinista molto brava e inventiva. Ecco una cosa importante: non esistevano le donne nel jazz italiano, esistevano forse due o tre cantanti, non però al livello delle colleghe d’oltreoceano. Oggi invece ci sono delle musiciste bravissime, tra le quali la chitarrista Eleonora Strino, Francesca Tandoi, pianista, Federica Michisanti, contrabbassista, o Silvia Bolognesi, anche lei contrabbassista e molto stimata in America (qui a NY ha suonato con quelli dell’Art Ensemble of Chicago). Il jazz “al femminile” in Italia sta venendo fuori in maniera molto forte.
D Il tema delle donne nel jazz ti è caro, anche visto che tempo fa vi hai dedicato una rassegna a New York dal titolo Italian Women in Jazz
R Sì. Anni fa cercai di trovare il legame tra le donne americane e italiane nel jazz e feci questo festival – coprodotto insieme all’Istituto Italiano di Cultura – che ebbe tre edizioni. Feci questo festival proprio perché sentivo che stava venendo fuori qualcosa: il jazz americano al femminile è arrivato un po’ prima che in Italia, ma è arrivato come un’ondata forte. Oggi infatti, se mi chiedi chi, tra uomini e donne, è il più grande compositore, ti rispondo Maria Schneider. Per la chitarra ti farei invece il nome di Mary Halvorson (geniale!) o per il clarinetto ti citerei Anat Cohen (la sentii qui a NY ben prima che diventasse la numero uno al clarinetto e le consigliai di dedicarsi solo a questo strumento, perché, come le dissi, se al sax era brava, al clarino era speciale). Ecco, loro non hanno quasi rivali. Un’altra chitarrista americana, particolare, che però incontra il mio gusto, è Ava Mendoza, ma la musicista nuova che più mi piace e che trovo straordinaria è norvegese: Hedvig Mollestad, chitarrista pazzesca (la chitarra sta attraversando un buon momento nel mondo). Quanto alle voci, una cantante straordinaria è Ekep Nkwelle – statunitense di origini camerunensi che ho portato a Orvieto – che per me diventerà una delle grandi, così come Samara Joy, che io per primo ho portato in Europa con Umbria Jazz.
D Tornando al jazz italiano ti chiedo: come e quanto gli usa sono ricettivi nei confronti del jazz nostrano? Qual è stato nel merito il tuo contributo e a quali eventi da te organizzati sei più legato?
R Qui devo fare qualcosa che non è comune al mio carattere e prendermi un merito, perché devo dire che io ho contribuito in maniera fondamentale alla diffusione del jazz italiano in America. Lo devo in buona parte a Umbria Jazz, certo, perché le tante cose che abbiamo fatto le abbiamo fatte insieme – e il festival umbro ha dato tantissimo al jazz italiano negli Stati Uniti –, ma la liaison sono stato io. Purtroppo l’esperienza si è interrotta dieci anni fa per una mera questione di budget, ma abbiamo fatto per anni una rassegna di una settimana al Birdland di New York con i più grandi nomi del jazz italiano. La mia presenza è stata comunque fondamentale, anche perché ho creato delle produzioni anche al di fuori di Umbria Jazz, quali le tre edizioni di Italian Women in Jazz, una settimana di concerti al Birdland di Pieranunzi con due gruppi americani e alcuni eventi con Rava; poi, per tre/quattro anni, ho avuto anche l’opportunità di gestire un club sulla 38esima, l’Enzo’s Jazz, dedicato solo ai cantanti, perché il canto è da sempre la mia prima vera passione. Tuttavia, non solo grazie alla mia attività in loco il jazz italiano negli usa ha ricevuto un interesse e ha conosciuto una crescita esponenziali: negli anni, infatti, ho avuto modo di portare critici americani a Perugia e a Orvieto, i quali hanno visto e sentito tutto quello che succedeva nel jazz italiano e lo hanno poi diffuso dai loro importanti spazi (DownBeat ecc.). Alla fine, qui non sono più riuscito a organizzare nulla, a causa dell’assenza di contributi da parte non solo della Regione Umbria ma anche dell’Istituto Italiano di Cultura, dove pure ho organizzato diversi eventi. Oggi, però, se vai a chiedere a un importante critico americano qual è il jazz al di fuori degli Stati Uniti che apprezza maggiormente, al 99 per cento ti risponderà che è quello italiano. In questo, una parte della responsabilità me la prendo volentieri.
D Si può dire che ci sia una cultura del jazz negli usa che qui in Italia invece manca?
R È evidente che lì ci sia una cultura del jazz: già solo il fatto che la Columbia, una delle più importanti università degli usa, abbia un Jazz Department, o che il grande critico (e mio amico) Ashley Kahn insegni alla New York University, lo dimostrano. A New York, poi, ci sono centinaia di posti dove si suona il jazz, dal piccolo club al ristorante, fino al teatro. Il jazz lo respiri, lo senti nell’aria, fa parte dell’humus della città. New York oggi è la città del jazz per antonomasia, tappa obbligata per chiunque, non solo americano, voglia diventare un musicista coi fiocchi, perché, se sai suonare, ti fanno suonare, non c’è alcuna preclusione. Anche in Italia, in qualche modo, c’è una cultura del jazz, ma è molto “all’italiana”. Come ho detto, ci sono bravissimi critici e studiosi che in certi casi possono confrontarsi tranquillamente con i loro omologhi americani, ma, dal punto di vista del pubblico, c’è una grande pigrizia: la gente va a sentire il jazz in estate quando c’è la grand bouffe di festival e poi si reca nelle grandi città. Fine. Circa i festival estivi, però, credo che siano importanti anche perché la gente che vi si trova immersa, pur non conoscendo il genere, si trova comunque a imparare qualcosa di nuovo.
D Quale dovrebbe essere l’obiettivo di un festival jazz, soprattutto in Italia?
R Secondo me il primo obiettivo dovrebbe essere la diffusione culturale del linguaggio jazzistico in tutti i suoi vari aspetti non slegata però dall’entertainment, cosa che cerca di fare Umbria Jazz: attirare il pubblico con eventi un pochino più leggeri, ma fare allo stesso tempo proposte più difficili e impegnative. Ci sono festival in Italia (ce n’erano di più negli anni passati), come per esempio quello di Sant’Anna Arresi in Sardegna, del tutto dedicati a questo tipo di proposte, però, per come la vedo io, a organizzare eventi settoriali si corre il rischio di far accorrere solo gli addetti ai lavori o chi è davvero interessato. Per me invece più sei capace di attirare il pubblico, meglio è. Gli ingredienti vanno sempre mescolati e non bisogna mai avere rigidità, soprattutto quella del “Questo è giusto, questo è sbagliato”; certo, tutto ciò che è deteriore è bene lasciarlo perdere, ma è importante avere l’orecchio aperto e far conoscere tutti i vari aspetti di questo linguaggio musicale, da quelli più complicati (perché è vero che buona parte del jazz contemporaneo è difficile) a quelli più semplici. Se tra cento persone ce ne sono anche solo cinque che riesci a incuriosire con quello che proponi e che grazie a te sono spinte ad approfondirlo, è già abbastanza (e questo lo penso anche della mia attività di critico e giornalista musicale).
