Steve Lehman Trio + Mark Turner con «The Music Of Anthony Braxton», come un corpo umano vivo e pulsante nello spazio e nel tempo (Pi Recordings, 2025)

Si tratta di pagine che definiscono il legame idiomatico fra il compositore-strumentista e il Canone improvvisativo africano-americano, senza disperdersi nelle astrazioni che avrebbero contraddistinto un successivo vasto corpus compositivo per certi versi informe e messo assai più propriamente a fuoco e con maggior perizia, almeno nelle sue intuizioni, da altri autori e improvvisatori .
// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
Non poche pagine delle cosiddette «avanguardie storiche» accademiche o delle musiche improvvisate genericamente raggruppate sotto il nome di «free-jazz», considerate ai loro tempi scandalose o insopportabilmente sgradevoli, oggi suonano consuete, talvolta persino innocue: rimane di esse, ancora vivo, il pensiero che le ha immaginate e cui esse hanno dato corpo. Di Anthony Braxton rimarrà il ricordo di uno strumentista idiomaticamente meno significativo di quanto avrebbe potuto o di quanto si sia detto, proprio perché il suo pensiero, che oggi è per l’appunto ben vitale e significativo, faceva assai fatica -con la sua ingegnosa ma incompiuta glossolalia- ad inquadrarsi in forme e linguaggi canonici.
L’album firmato da Steve Lehman con il suo trio e la partecipazione di Mark Turner, «The Music Of Anthony Braxton», si conclude con una rilettura di «Trinkle-Tinkle» di Monk, e in tal modo si chiude logicamente, perché la presenza di Monk è assai forte nelle composizioni di Braxton ed è ancora più evidente in queste interpretazioni che, non a caso, optano per opere scritte negli anni Settanta. Si tratta di pagine, cioè, che definiscono il legame idiomatico fra il compositore-strumentista e il Canone improvvisativo africano-americano, senza disperdersi nelle astrazioni che avrebbero contraddistinto un successivo vasto corpus compositivo per certi versi informe e messo assai più propriamente a fuoco e con maggior perizia (nel senso di «craftmanship»), almeno nelle sue intuizioni, da altri autori e improvvisatori come George Lewis e Tyshawn Sorey. Le composizioni scelte da Lehman in larga parte concedono terreno agevole all’improvvisatore e, per quanto siano già un banco di prova per il poliglottismo musicale dell’autore, sanno presentare più interessanti soluzioni facendo uso di materiali diversi, inseriti nel mainstream linguistico americano e africano-americano.
Se Lehman si mostra abile interprete di un compositore complesso e dalla mano spesso non lieve o particolarmente sicura, è d’uopo riconoscere che Braxton in certe opere si mostra assai sensibile agli interpreti cui esse erano destinate: la memoria delle interpretazioni «storiche» si rivela difficile da cancellare, soprattutto nella capacità di rendere «visualizzabile» la sua musica quale esperienza non-linguistica e come egli spesso dimostrava di percepirla attraverso grafici e immagini e peculiari indicazioni. Lehman ovviamente appartiene ad altra generazione e mostra una prevedibile spigliatezza nel districarsi fra più «posture» idiomatiche e nell’arricchire la dimensione ritmica della musica di Braxton, assai segnata dall’influenza del post-bop: in questo caso, il batterista Damion Reid opera con notevole fantasia in un ambito squisitamente poliritmico che, come in un mosaico di Alma Thomas, riflette lo sviluppo del vocabolario che ha avuto luogo negli ultimi quarant’anni di storia della musica improvvisata africano-americana. Tutti e quattro musicisti, non so quanto consapevolmente, mettono in risalto un aspetto «danzante» della musica di Braxton, creando un legame non illogico con partiture che nel loro dipanarsi fra grafici, colori e curiose quanto minuziose istruzioni e raccomandazioni, sembrano rimandare visivamente a Frank Bowling così come possono assomigliare a sketch coreografici (e spesso sembrano offrire analoghi risultati): si scopre in tali pieghe l’aspirazione del compositore ad andare oltre l’ambito ritmico post-boppistico (tratto evidenziato anche da Pat Thomas in «The Locals Play The Music Of Anthony Braxton»), nell’esplorazione di una pluralità di fonti linguistiche e formali che costituisce uno degli aspetti più attraenti e vitali di un notevole pensatore musicale, più notevole ancora che come compositore ed esecutore.
In passato, Braxton ha avuto più occasioni per delineare persino con semplicità certi aspetti del suo pensiero: «Ma vorrei dire questo: non c’è mai stata una separazione intrinseca nella dinamica della percezione tra il suono vero e proprio e la realtà interna dell’immagine connessa al suono, compreso il colore, compresi gli spettri vibrazionali, cioè la radianza, le logiche timbriche (. . .) Vedo tutto questo come una cosa sola. Non ho mai ascoltato solo un suono. Se ascolto un suono, sento la complessità dello spettro (. . .) è più tridimensionale del suono stesso. Non me ne sono reso conto fino a quando non ho frequentato un corso di ear training all’università e mi sono accorto che non sentivo esattamente quello che sentivano gli altri. Per esempio, ho esaminato alcuni assoli di Warne Marsh annotati e sono rimasto totalmente sorpreso nel rendermi conto che, dal punto di vista meccanico, alcune informazioni erano molto diverse da quelle che avevo sentito. È una sensazione che provo tuttora. I tentativi di annotare i grandi assoli dei maestri della musica improvvisata catturano forse solo due terzi di ciò che accade realmente nella musica e questa differenza è parte di ciò di cui stiamo parlando. Penso all’assolo di Warne Marsh su «The Song Is You». Credo che da giovane ciò che mi affascinava (. . .) Non so come dirlo (. . .) Warne ha una gravità e una presenza vibrazionale che è ( . . .) È come se le note fossero qui [agita il braccio orizzontalmente] ma la vera logica è nel mondo interno [agita il braccio a un livello inferiore]. Ero più incuriosito da quel mondo interno che dalle note vere e proprie, in termini di come egli fosse in grado di manipolare la presenza interna e il sentimento nella sua musica. Non è qualcosa che si possa scrivere. È stato a quel punto che ho scoperto che quello che io chiamo suono non è necessariamente quello che qualcun altro chiamerebbe suono. Penso, ad esempio, che il concetto di altezza bidimensionale nel sistema musicale occidentale sia una forma di riduzionismo rispetto a ciò che accade realmente. Se da un lato celebro l’invenzione della metodologia estesa e mi inchino ai grandi uomini e donne che hanno fatto evolvere la scienza musicale, dall’altro molte delle cose che mi hanno attratto nella musica erano tridimensionali. I tentativi di racchiuderla, di scriverla, in molti modi comportavano la riduzione degli spettri vibrazionali della musica. Penso che la musica che chiamiamo jazz, il cosiddetto jazz, lo faccia emergere, la musica folk lo faccia emergere, tutte le musiche che sono vicine alla comunità e permettono la presenza individuale fanno emergere questa dicotomia tra il sistema razionale e il sistema tridimensionale. Quindi il concetto di logica dell’immagine e la connessione tra l’attualizzazione acustica e le forme e i colori visivi ha a che fare con (. . .) Ebbene, questo è ciò che sentivo e percepivo naturalmente. Più tardi, con l’avanzare dell’età, ho scoperto che, chiunque io sia, non sono in realtà malato o malsano a causa del modo in cui ascolto la musica. Anzi, più comprendevo la meraviglia e la dinamica dell’attualizzazione, più scoprivo che in ogni cultura c’è un corpo di informazioni che concorda, o è coerente, con quello che sto dicendo. Il che non significa che io abbia ragione o torto o qualcosa del genere; solo che c’è un continuum di informazioni che ha sempre enfatizzato le presenze tridimensionali, le presenze vibrazionali.»
Nelle composizioni degli anni Settanta, che sembrerebbero, pur nella loro originalità, aderire in linea di massima al mainstream più avanzato (a tal proposito si potrebbero ricordare le incisioni realizzate per la Arista o un’incisione come «All The Things We Are» – con Dave Brubeck – o le incisioni per la SteepleChase), in realtà sono già evidenti i segni di un trans-idioma (cui l’influenza di un autore quale Alvin Lucier non sembrerebbe estranea) che accumula e ibrida segni, gesti, suoni, posture provenienti da più fonti e sottoposte a un’elaborazione in cui la scrittura e l’improvvisazione hanno il compito di delineare un vocabolario temporaneamente comune all’interno di un territorio, una no man’s land, in cui sia possibile operare estrapolando i materiali prescelti dalle loro matrici d’origine. Emerge la figura di un pensatore musicale notevole, talvolta non del tutto in grado di mettere in pratica le sue intuizioni, che pure hanno rappresentato un momento di svolta per la musica africano-americana chicagoana e per il ruolo dei compositori africano-americani nella musica accademica statunitense, di rado aperta agli appartenenti alla tradizione improvvisativa.
Al contrario degli esponenti della Third Stream, che si muovevano con una certa ingenuità e un senso di asservimento alla musica accademica eurocentrica, Braxton agirà da primus inter pares, senza gerarchie, facendo uso solo di ciò che poteva servire alla pagina che aveva in mente: «Fin dall’inizio sono stato interessato a cercare il tipo di connessioni che potessero rendere olistico un dato dispositivo. Per olistico qui intendo rispetto alla meccanica, rispetto all’esperienza e rispetto alle connessioni con altre discipline. In questo contesto, ci sono il suono, le logiche dell’immagine (visto che stiamo parlando di colore e pittura) e la danza. Credo che al cuore di ciò che sto cercando di dire vi sia la constatazione che i miei interessi e il lavoro che sto portando avanti sono coerenti con la cultura mondiale. Non sto parlando di qualcosa che non è mai stato fatto prima, ma piuttosto di qualcosa che sembra essere stato dimenticato e che invece esiste già. Penso che tutto sia collegato e che la sfida del prossimo periodo non sia semplicemente l’avanzamento di un concetto di intrattenimento o di musica come separato dalla vita, ma piuttosto il passaggio a esperienze tridimensionali e olistiche con musica, logiche di immagine e spiritualità dinamica tutte collegate, compresa la fisicità, la danza, il movimento. Cerco un’integrazione totale». Le composizioni di Braxton, anche prima della sua definitiva maturità, ci ricordano cosa significa essere un corpo umano vivo e pulsante nello spazio e nel tempo del nostro mondo. Come certe opere di Sam Gilliam il risultato di queste e di altre opere è la loro destabilizzazione della coreografia del corpo all’interno di un impianto formale eterodosso. Queste pagine ci chiedono come ascoltatori di essere in esse tanto quanto chiedono di essere ascoltate.
Lehman – al contrario, ad esempio, delle interpretazioni braxtoniane di Thumbscrew, assai più aderenti al pensiero non sempre flessibile di Mary Halvorson – riesce a mantenere integra la rappresentazione originale delle composizioni di Braxton senza smarrire i riferimenti alla lezione del quartetto di Ornette Coleman e senza perdere la propria originalità ma, anzi, evidenziando più interessanti chiavi di lettura grazie all’inserimento del tenore di Mark Turner, che rievoca e rilegge il legame fra Braxton e taluni sassofonisti del periodo cosiddetto «Cool» quali Warne Marsh e Paul Desmond, frutto di un gusto per le sofisticazioni armoniche e per la lucidità architettonica non disgiunta da un lirismo che con un malinconico senso di decadenza si allontana dall’eurocentrismo nel momento in cui più sembra avvicinarvisi. Questa ricchezza di annotazioni, osservazioni e citazioni rende ancora più interessante lo studio (che tale è, per quanto celato dall’esuberanza dell’omaggio) di un periodo trasformativo nell’opera braxtoniana. L’opera di apertura, «34a» è stata scritta nel 1975, a Toronto: «La sfida di questa composizione comporta l’uso di materiali estesi come fattore integrato nella musica operativa vera e propria – in contrapposizione a strutture che funzionano solo come piattaforme tematiche per l’improvvisazione aperta. Un approccio di questo tipo offre nuove opzioni allo strumentista creativo e chiarisce le implicazioni dinamiche del funzionalismo post-AACM. Troppo spesso siamo arrivati a considerare il contesto improvvisativo aperto come un forum unidimensionale che offre libero sfogo all’esplorazione dinamica ma non alla responsabilità individuale. Ma in realtà l’importanza della continuità post-Coleman sta nella sua capacità di far emergere nuove ed entusiasmanti discipline che guidano – e danno indicazioni – a una vita positiva e a un’unificazione (e concentrazione) dinamica. La Composizione 34A è stata progettata per l’ambiente di interazione creativa collettiva, per essere utilizzata sia come punto di raccolta per una partecipazione individuale che per un’interazione creativa dinamica. L’opera non contiene disposizioni per assoli individuali estesi né cerca di enfatizzare l’apporto isolato di un qualsiasi aspetto dei suoi partecipanti (o dell’ensemble). Piuttosto, la Composizione n. 34A è progettata per mostrare la dinamica composita della sua tela sonora totale, fornendo sia materiali comuni per i suoi strumentisti -da utilizzare nella realtà infrastrutturale della musica- sia responsabilità condivise per l’uso di tale materiale. In quest’opera, a ogni strumentista vengono dati dodici schemi di frasi composte da usare come trampolino di lancio per tutte le dinamiche dell’invenzione – e questo materiale deve essere utilizzato in tutta l’interpretazione totale della musica. La realtà di questo materiale è progettata per stabilire «operazioni fisse» -che sono costanti in ogni esecuzione (e strettamente correlate al focus e al carattere della composizione) – in combinazione con l’«applicazione aperta» e l’improvvisazione. L’interrelazione tra questi due criteri operativi serve a dare alla Composizione 34A una piattaforma unica per l’esplorazione creativa».
Se la compattezza del quartetto è particolarmente evidente, il contributo di Mark Turner è di notevole intelligenza idiomatica, largamente in equilibrio fra la propria personalità d’interprete e la decifrazione di talune pieghe riposte del linguaggio di Braxton negli anni Settanta, anch’esso in bilico ma fra un atteggiamento linguisticamente onnivoro e un’istintiva inclinazione per la tradizione africano-americana riveduta dal coevo mainstream più aperto e avanzato. È nella composizione «40b» che tutto ciò si agglutina con un risultato che nell’interpretazione del gruppo di Lehman trova una scintillante realizzazione e uno sfoggio di notevole virtuosismo strumentale ed idiomatico. Composizione più volte presentata da Braxton («Dortmund Quartet-1976», hatART; «Basel Quintet-1977», hatOLOGY; «Willisau Quartet-1977», hatART; «Six Compositions: Quartet» – Antilles 1981), reinterpretata in passato anche dal chitarrista Kobe Van Cauwenberghe (Kobe Van Cauwenberghe: Ghost Trance Solos), viene arricchita in questo caso da un’introduzione del contrabbassista Matt Brewer che accompagna la presentazione del tema con un efficace ostinato di sapore latinoamericano. Il gruppo rievoca con grande efficacia il linguaggio messo a punto dal quartetto di Braxton negli anni Settanta (Kenny Wheeler o George Lewis, Dave Holland, Barry Altschul), aggiornandolo con mano estremamente sicura, evidenziandone il senso del groove e arricchendolo, grazie a Reid, di una fitta base poliritmica. Proprio il batterista è forse il protagonista (non tanto) nascosto di questi lavori: egli li arricchisce di un linguaggio di timbri e poliritmi che creano una veste iridescente fatta di una molteplicità di allusioni alla nostra contemporaneità musicale. Reid aggancia una parte del linguaggio braxtoniano alla tradizione africano-americana attraverso elementi che appartengono al post-bop odierno come allo hip-hop e lo rende così più accessibile ancora di quanto non accadesse negli anni Settanta, quando queste stesse opere di Braxton parevano infrangere implacabilmente equilibri consolidati (e anche in quel caso il ruolo di un batterista come Barry Altschul fu di primaria importanza).
Si consideri in una composizione come «23c», presente nell’album «New York, Fall 1974» e interpretata dallo stesso Braxton, da Kenny Wheeler, Dave Holland e Jerome Cooper: la struttura compositiva non è particolarmente intricata e originale, facendo uso di un processo additivo già ben conosciuto nel campo della musica accademica coeva. Attraverso la reiterazione progressivamente modificata (1, 1-2, 1-2-3, 1-2-3-4) il tema si rivela compiutamente a conclusione del lavoro, ma laddove Cooper preferisce agire sui timbri, Reid coglie le implicazioni ritmiche dell’opera e le conferisce un inedito impulso definito dal groove. Un’altra composizione tratta da «New York, Fall 1974» è «23b», in origine dedicata al duo di Roy Rogers e Dale Evans, attori e popolari interpreti di country music negli anni Quaranta e Cinquanta. Pagina estremamente aperta e spiritualmente ispirata da «Donna Lee» (con cui non ha nulla in comune salvo il La bemolle dell’incipit), reinventa un linguaggio free-bop sbilencamente tonale e organizzato formalmente in modo asimmetrico, ma denso di cromatismi e caratterizzato da salti intervallari in assenza di un vero e proprio ancoraggio armonico: il tessuto connettivo, pur in un ambito fortemente intuitivo, è dato proprio dalla batteria che mantiene un’intelligibilità che sembra accogliere l’ascoltatore in un terreno ingannevolmente familiare e che consiste in un aggiornamento brillante del linguaggio del mainstream contemporaneo. Prova notevole è pure una composizione di Lehman come «Unbroken and Unspoken», un’assai efficace trasposizione dell’estetica braxtoniana degli anni Settanta in un linguaggio improvvisativo odierno che illustra assai bene quanto il pensiero dell’autore sia penetrato nel mainstream, laddove l’opera più matura di Braxton, fortemente astratta e mistica, talvolta sin troppo densa di riferimenti ma di una potente dimensione ritualistica, rimane fondamentale per la musica accademica americana nella sua capacità di aprirvi varchi non solo per l’integrazione di contributi improvvisativi e di materiali scritti trasversali di diversa estrazione (da Joplin e Sousa in poi), ma per una generazione di compositori africano-americani che hanno saputo agire con mirabile efficacia nell’ibridazione fra strutture formali accademiche e l’intero spettro della tradizione musicale africano-americana venutasi a delineare nel corso del Novecento fino ai nostri giorni. I lavori riletti da Lehman illustrano solo una parte di un cospicuo corpus compositivo ma brillano di una ben particolare intelligenza.
