TheWorldofCecilTaylor

L’unicità della musica di Cecil Taylor nasce dalla costante capacità di strutturare e destrutturare lo scibile sonoro sotto le sue dita, con un movimento improvvisativo ondulatorio e sussultorio fatto di valanghe di note che precipitano a valle per poi riemergere, fitti cluster, rutilanti accordi, ma sempre collocati in un disordine controllato, voluto e razionale.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Cecil Taylor è stato uno strumentista dotato ed originale, uno dei pianisti più innovativi della storia del jazz moderno. Sin dal suo primo apparire sulla scena, negli anni Cinquanta, egli aveva mostrato subito un certa propensione per un pianismo percussivo, basato su un linguaggio non comune, i cui prodromi erano rintracciabili nello stile e nel lessico monkiano, ma Taylor andò ben oltre, raggiungendo gli estremi di una musica, talvolta non facilmente metabolizzabile dalla moltitudine. L’estroso pianista era un’anima inquieta che, come John Coltrane, Andrew Hill, Albert Ayler e altri spiriti affini, cercava un flusso di energia tra corpo ed anima del suono. Cecil era un dirottatore impavido e temerario, guidato da una visione di libertà che, alla medesima stregua di Ornette Coleman, anelava a un’idea ed una forma di jazz, non di come fosse, ma di come avrebbe potuto essere; soprattutto quali vette di creatività il suo strumento potesse raggiungere, laddove la maggior parte dei suoi coevi non aveva mai osato. L’unicità della musica di Cecil Taylor nasce dalla costante capacitàdi strutturare e destrutturare lo scibile sonoro sotto le sue dita, con un movimento improvvisativo ondulatorio e sussultorio fatto di valanghe di note che precipitano a valle per poi riemergere, fitti cluster, rutilanti accordi, ma sempre collocati in un disordine controllato, voluto e razionale. Cecil Taylor ha rappresentato l’avanguardia «nera» ante-litteram, la contemporaneità perpetua del jazz, il costante mutatis mutandis, trascinato da una bruciante necessità di esprimere, anche politicamente, l’idea di un suono, la visione di un mondo e di un jazz al di là dei riti e dei miti convenzionali. Nonostante le innumerevoli incomprensioni ed i giudizi spesso sommari, Taylor ha attraversato indenne oltre cinquant’anni di storia del jazz, mostrando coerenza, sempre avulso dalle mode o dai compromessi. La sua musica tirata fuori dalle viscere del pianoforte, con dirompente rabbia e fragilità al contempo, è frutto di un trasporto emotivo e di un coinvolgimento intimo non comuni, da cui emerge tutta l’umana debolezza di un afro-americano che vive il disagio della sua condizione e quella della sua gente. La musica diventa strumento di lotta, cambiamento e riscatto.

Per uno strano paradosso, «The World Of Cecil Taylor», pubblicato dalla Candid nel 1960, è uno degli album più fruibili della sua discografia, ma all’epoca venne osteggiato e classificato come inascoltabile da certi puristi, da critici bacchettone e saccenti e da ascoltatori del fine settimana. L’album in realtà è un quadro perfetto che rappresenta il momento di passaggio tra le strutture sonore praticate a quel tempo e la radicalità dell’approccio futuro, un guado e un punto di transizione verso quella «forma del jazz che verrà». Sin dall’abbrivio, con i tamburi di Denis Charles molto in evidenza sulla title-track, il fruitore lungimirante ed attento capisce che sta per accadere qualcosa di speciale. «The World Of » è un documento importante per comprendere la figura di Taylor, ancora a metà strada tra gli approcci modernisti ad un jazz ancora radicato nella tradizione, nonché i suoi esperimenti di rottura e quelli di tanti altri musicisti, che sarebbero arrivati a piena maturazione e compimento qualche anno più tardi. Oltre al citato Denis Charles alla batteria, il quartetto si completa con (l’allora giovane) Archie Shepp, il quale suona solo su «Air» e «Lazy Afternoon» e dal bassista Buell Neidlinger. Tutti sono a proprio agio con la musica di Taylor, superando in volata i limiti ritmico-armonici del periodo, la lettura dei temi di base è veloce, quasi superficiale, mentre l’improvvisazione è profonda e dominante. Tre brani sono eseguiti in piano trio e due in quartetto con l’aggiunta di un sassofono, ma il centro gravitazionale dell’album, al 90%, è il pianoforte di Taylor. Si potrebbe parlare di un inferno congelato: al principio le fiamme dell’improvvisazione sembrano devastare e bruciare ettari di musica, ma l’abilità, la scioltezza, l’affiatamento ed self-control dei musicisti riesce a sedare le fiamme, ricollocando il materiale sonoro in una dimensione, già sperimentale, ma fruibile.

Parliamo di uno dei dischi più immediati Cecil Taylor. Certo, tutto è relativo e l’ascoltatore medio che dovesse arrivare impreparato e con abiti non adatti a questo banchetto non del tutto usuale, potrebbe inizialmente avere qualche smarrimento, anche se brani come l’opener «Air (uno delle più riuscite composizioni di questo o di qualsiasi altro album di Taylor) possiede, nonostante lo slancio in avanti e la proiezione futura, un’immediatezza tale che, un fruitore attento e con una certa esperienza con la musica di Monk, ne sarebbe immediatamente conquistato, riuscendo a decifrare per fila e per segno ogni nota ed ogni vibrazione. «This Nearly Was Mine» di Rodgers & Hammerstein presenta un inizio ruminante e con le strutture fratturate, ma sempre più identificabili man mano che si progredisce, fino a quando il brano non viene esplorato magnificamente e con forte lirismo da parte Taylor, dando un’indicazione chiara su quella che sarebbe stata la fonte dei suoi tanti bis, concessi alla fine dei concerti nei decenni a venire. «Port Of Call» e «Eb» sono entrambi dei componimenti originali, dove lo strumento emette suoni coassiali, unici e avvolgenti, mai sentiti emanare da nessun altro un pianoforte. In queste due tracce sbalordisce la destrezza sovrumana con cui Taylor che, mantenendo già un’inaudita padronanza del piano, distilla idee a raffica, che sfrecciano come scintille dalla punta delle dita. Il tutto profondamente radicato in una matrice blues. Lo standard di chiusura «Lazy Afternoon», la pista di atterraggio più lunga, siamo intorno ai quindici minuti, appare impegnativa ma non completamente a volo libero. Determinante l’apporto di Archie Shepp come nell’iniziale «Air», altro contrassegno saliente dell’album. Taylor non è l’unico «invasato» durante le progressioni uptempo e gli assalti non-stop alla polveriera del jazz tradizionale, ma anche il batterista Dennis Charles e il bassista Buell Neidlinger diventano due inneschi micidiali, riuscendo a tenere il passo con le frenetiche scorribande pianistiche del leader. «The World Of Cecil Taylor» potrebbe rappresentare, per chiunque, un’introduzione particolarmente raffinata al lavoro di uno dei pianisti più geniali ed innovativi della storia del jazz moderno, mantenendo un piede nelle forme del bop tradizionale ed avere un’anteprima assoluta di ciò che sarebbe stato il jazz nell’imminente futuro.

Cecil Taylor

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