«Monks And The Third Man» di Fattori /Sebastiani. Bidimensionalità sonora espansa (Notami, 2025)

La lingua monkiana viene ricontestualizzata e, pur muovendo dai quei tratti somatici, i due compagni di viaggio modellano altre forme sonore, con sfumature e cromatismi assai personali, mentre gli spazi espositivi si dilatano e la libera espressione improvvisativa tende a canalizzarsi in un ipotetico altrove.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Per chiunque faccia musica jazz, Monk è un terreno minato. Per lungo tempo, eminenti studiosi hanno pensato che non si potesse suonare Monk senza Thelonious. Sembrerebbe un paradosso, poiché delle circa settanta composizioni che il Monaco ha scritto nell’arco di una vita incostante ed a fasi alterne – senza voler esagerare – sessantanove sono diventate standard. Ciò che non bisogna assolutamente fare, quando si ha tra le mani la scrittura monkiana è cercare di restituirla al mondo in maniera fedele e calligrafa: ho sentito molti pianisti cadere nel ridicolo, approcciandosi a Monk. In genere i pianisti suonano per eccesso, mentre Monk suonava per difetto e per difetti. Michele Fattori e Marcello Sebastiani, fautori dell’album «Monks And The Third Man» edito dalla Notami Records, partono favoriti, in primis grazie alla diversità strumentale: chitarra e contrabbasso.
Un altro elemento non trascurabile è dato dalla relazione simbiotica che si sviluppa quando ad agire sono soltanto due strumenti, per cui l’interplay perde la circolarità, se di interplay possiamo parlare, e la relazione fra i due attanti sulla scena diventa perpetua e costante, attraverso un continuo ascoltarsi e rincorrersi. Questo non convenzionale omaggio a Thelonious Monk, che nasce da un’idea di Michele Fattori e si lega perfettamente al disco precedente, «Gavagai», in cui si tentava di cogliere l’essenza e la capacità relazionale di due esecutori, intenti a sviluppare inattese dinamiche ed innovative soluzioni sonore. Se «Gavagai» si dipanava in piena libertà o anarchia improvvisativa, senza vincoli di partitura o di canovaccio, in «Monks And The Third Man» i due sodali devono fare i conti con un impianto sonoro pre-esistente, storicizzato, ben preciso e tracciabile. In verità, Fattori e Sebastiani non fanno quella che potrebbe essere banalmente definita reinterpretazione o revisione del modulo monkiano. Apparentemente, la rappresentazione scenica del progetto discografico si basa sulla scrittura monkiana, tanto che la struttura dei brani nell’impianto scheletrico è identica a quella originaria. Per intenderci, ecco che cosa accade in «Monks And The Third Man»: immaginatevi un’opera teatrale di Goldoni, calata in un’ambientazione diversa, ma con lo stesso testo, la medesima lingua, con gli attori che indossano abiti differenti, mentre il modulo narrativo cambia e si dirige verso insolite traiettorie comunicative, quanto meno si adatta ad un’inedita dinamica espositiva ed ambientale. Nello specifico, la lingua monkiana viene ricontestualizzata e, pur muovendo da quei tratti somatici, i due compagni di viaggio modellano altre forme sonore, con sfumature e cromatismi assai personali, mentre gli spazi espositivi si dilatano e la libera espressione improvvisativa tende a canalizzarsi in un ipotetico altrove.
Pur rivisitando alcuni fra i componimenti più acclamati di Monk, nei quali – come precisato – permangono fondamentalmente l’integrità del tema e le strutture, Fattori e Sebastiani agiscono per vie traverse, aggirando l’ostacolo ed operando soprattutto sulle dinamiche strumentali che li allontanano sistematicamente dagli stereotipi monkiani. Si crea così un ardito gioco di incastri, scambi e rimandi intorno alla figura di Monk, tanto che il nome dello stesso compositore, usato al plurale nel titolo, «Monks And The Third Man» (Monks significa Monaci), determina un riferimento al canto gregoriano, così come accade nella composizione iniziale, «Cantus», firmata da Marcello Sebastiani, che emana una vera atmosfera ecclesiale e monastica. «Blue Monk», sprigiona l’idea della colonna sonora di un film on the road, scandito da un blues spaziato ed onirico esaltato dalla melodia che la chitarra solleva ad un metro dal cielo. «Reflections» diventa quasi un trip psichedelico e progressivo, addolcito dalla melodia contenuta nella scrittura monkiana. «Epistrophy» si esalta nell’ottimo interludio fra i due strumenti, diventando una cavalcata sulle corde in totale assenza di forza di gravità o di vincoli astringenti. «Pannonica» si consuma fra tenerezza e pennellate dai colori tenui, fra sogno e realtà. Ritroviamo così, qualche variazione sul tema, sulla seconda take di «Blue Monk», sino a giungere ad «About ‘Round Midnight», in cui il contrabbasso trova la sua vena ispirativa più melodica per circa due minuti, quindi, a seguire la chitarra che s’inabissa nelle spire di un pathos profondo e perforante. In conclusione una composizione dal sangue blues a firma Michele Fattori, che tenta, ed in parte ci riesce, ad incarnare lo stile armonico, ma soprattutto il mood sarcastico ed anti-sentimentale di Monk, sviluppando un raccordo fra la nostalgia, il ricordo e la storia del vernacolo jazzistico tradizionale e la sua ricollocazione all’interno di una contemporaneità, sovente priva di contorni e tratti predefiniti, da cesellare e modulare ex-novo partendo da modelli precedenti che, in definitiva, costituiscono il soft core di «Monks And The Third Man».
