Perez_Patitucci_Coltrane


Cronaca di una una serata speciale all’Auditorium Parco Della Musica Ennio Morricone, Roma, 1°Aprile 2025.

// di Roberto Biasco //

Non vi è dubbio che il quartetto “acustico” che Wayne Shorter mise a punto all’inizio degli anni duemila ha lasciato un segno indelebile in quest’ultimo quarto di secolo, fino al ritiro dalle scene e poi alla scomparsa del grande leader, avvenuta circa due anni orsono.

All’alba del nuovo secolo, con oltre quaranta anni di carriera alle spalle Shorter era considerato comunque un punto di riferimento autorevole, avendo attraversato da protagonista alcune tra e più importanti stagioni del Jazz del dopoguerra, sia con il “dream team” dei Jazz Messengers di Art Blakey, che a seguire con il “quintetto perfetto” di Miles Davis, nel quale, almeno per le sue eccelse qualità di compositore e arrangiatore, va considerato di fatto come autentico co – leader. Di quegli anni non vanno certo dimenticati i numerosi album incisi da titolare per la Blue Note, tutti eccellenti, tra i quali vanno menzionati almeno i celebrati, Night Dreamer, Adam’s Apple e Speak, No Evil, lavori all’epoca fortemente innovativi e che, a distanza di decenni, continuano a crescere nel corso del tempo.

Seguirono gli anni Settanta caratterizzati dal di successo planetario dei Weather Report, gruppo guida di tutto il movimento del Jazz-Rock, che proseguì idealmente nelle atmosfere “fusion” degli anni ottanta, con risultati spesso controversi, come dimostrato da album come Atlantis e Phantom Navigator, nei quali la componente elettronica era comunque presente. Dunque con la “svolta acustica” dell’anno duemila Shorter sembrava voler tornare ad esplorare le radici più profonde della propria ispirazione, sfrondando la musica da qualsiasi inutile orpello, per focalizzare la ricerca nelle pieghe più intime e nascoste della propria creatività. Shorter, una volta abbandonato definitivamente il sax elettrificato, volle accanto a sé alcuni giovani talenti, ma già esperti e collaudati, con Danilo Perez al piano, John Patitucci, tornato per l’occasione al contrabbasso acustico, ed il più giovane Brian Blade alla batteria.

Questo quartetto in realtà incise pochissimo in studio – ricordiamo lo splendido album “Alegria” del 2003 aperto ad un ensemble allargato – ma riuscì a dare il meglio di sé soprattutto dal vivo, come testimoniano gli innumerevoli tour in Europa e in America, con moltissimi concerti tenuti anche in Italia. L’approccio all’improvvisazione, basata non solo sulle caratteristiche tecniche e sulla perizia musicale, ma anche e soprattutto sul rapporto umano tra gli artisti sul palco, era precipuamente il focus del quartetto, nel quale empatia e coinvolgimento emotivo tra i musicisti sul palco, e per traslato tra i musicisti e il pubblico, costituivano la materia prima indispensabile alla riuscita del concerto. Un’esperienza difficile da raccontare a parole, ma chi – come il sottoscritto – ha avuto la fortuna di assistere a quei concerti porta sempre con sé come un bene prezioso. A due anni dalla scomparsa di Shorter i suoi tre compagni di viaggio hanno deciso di celebrarne l’eredità reinterpretando le sue composizioni. Per l’occasione la scelta del sassofonista è caduta, certo non casualmente, su Ravi Coltrane, musicista definitivamente affermato nonché “figlio d’arte” di nobilissima origine, essendo nato nel 1965 da due grandi musicisti, l’immenso John Coltrane e sua moglie Alice McLeod-Coltrane.

Il concerto all’Auditorium ha da subito dimostrato come Ravi Coltrane, presentato come “special guest”, più che un ospite speciale va considerato a tutti gli effetti un membro effettivo del gruppo, perfettamente calato nel ruolo affidatogli, che prevede un solido rapporto “inter pares” tra tutti i protagonisti sul palco, ed una profonda interazione sorretta da un “interplay” di altissimo livello. Wayne Shorter è senza dubbio alcuno uno dei massimi compositori in ambito Jazz e le sue composizioni, spesso oblique ed asimmetriche, ci conducono in un mondo onirico, notturno, i cui contorni restano difficilmente percepibili. Occorre lasciarsi andare ad una musica che non ha tanto la pretesa di essere “capita”, quanto piuttosto a quella di essere ogni volta scoperta, o meglio, riscoperta, ad ogni ascolto successivo. Nel corso del concerto i brani proposti, dilatati da lunghe improvvisazioni, non vengono neppure annunciati e sembrano quasi saldarsi gli uni agli altri senza soluzione di continuità. John Patitucci, posizionato al centro del palco, è il perno attorno a cui ruota tutta la formazione, e, se ce ne fosse ancora bisogno, conferma le sue doti di contrabbassista allo stesso tempo possente e melodico, capace di un sottile lirismo nelle toccanti sortite con l’archetto. Danilo Perez è un pianista eccellente con un tratto musicale precipuo caratterizzato da una raffinata sottigliezza di eloquio nel quale risuonano le sue origini caraibiche, mentre Brian Blade sembra aver ulteriormente raffinato il suo stile fatto di un drumming intenso e pervasivo, rafforzato da un efficace uso delle mazze nelle estemporanee sortite in assolo.

Ravi Coltrane ha preso su di sé il compito più ingrato, quello di “sostituire” Wayne Shorter, e lo fa egregiamente, mantenendo la propria personalità, e dando eccellente prova di sé sia al sax tenore che nei guizzanti assoli al soprano, laddove, inevitabilmente, traspare l’eco della voce di cotanto padre. Danilo Perez, imitando affettuosamente la voce roca di Shorter, solo alla fine annuncia una lunga versione di “Witch Hunt” come brano finale del concerto. Ma non finisce qui, alla ripresa del bis il pianista iniza a fischiettare il tema di “Footprints”, coinvolgendo il pubblico in sala che risponde con un fischio collettivo, guidato da alcuni dei molti musicisti presenti in sala. In conclusione un concerto magnifico e di altissimo livello che ha perfettamente mantenuto e forse superato le attese degli appassionati presenti all’evento. Grande musica.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *