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Gianfranco Salvatore

// di Valentina Voto //

Gianfranco Salvatore è un musicologo e un musicista, a lungo attivo anche come critico musicale. Docente di Etnomusicologia e di Storia del Jazz e della Popular Music presso l’Università del Salento, ha diretto l’Accademia della Critica di Roma e la sede europea del Center for Black Music Research dell’Università di Chicago. È tra i pionieri dello studio della popular music e della musica afroamericana nelle università italiane, ma si occupa anche di tradizioni musicali del Mediterraneo e degli effetti culturali della diaspora africana nel Rinascimento. Ha diretto varie riviste e collane librarie di musicologia e numerose manifestazioni musicali di sua ideazione (fra cui “La Notte della Taranta”), e la sua attività si estende anche alla produzione discografica e alle collaborazioni con radio, televisione, cinema e teatro. Come musicista, negli ultimi vent’anni, è stato leader di due band che hanno riprocessato la musica tradizionale del meridione italiano in chiave jazz-rock (Anima) e hard rock (Ragnarock), ed è co-leader dei Baba Yoga (con Danilo Cherni), che hanno esordito discograficamente nel 2003 con la colonna sonora di un film di Daniele Luchetti, Dillo con parole mie, per poi pubblicare un disco di musica elettronica, uno di pop contemporaneo, uno di jazz post-davisiano, uno di World Music e uno di rock progressivo (il prossimo, L’amour fou, è in fase di registrazione).

D In tre parole chi è Gianfranco Salvatore?

R Un sognatore che / fa sogni lucidi (le prime tre parole o le altre tre, a scelta).

D Quali sono i suoi primi ricordi della musica da bambino?

R Mia madre, che non c’è più, aveva un long-playing antologico di Frank Sinatra, che ascoltava tutti i giorni. Mi ha raccontato che a due anni canticchiavo tutti i brani assieme al disco, in un inglese inventato. Poi, a dieci anni, un’insegnante di madrelingua inglese mi ha introdotto ai Beatles, illustrandomi anche il significato dei testi. Due anni dopo la Befana mi portò una chitarra elettrica di formato “mignon”, con un amplificatore da 3 Watt: accordavo la chitarra a orecchio in modo che le sei corde formassero un accordo maggiore, e suonavo solo con i barré (e con un plettro di cartone, o un tappo di bottiglia) i pezzi di Jimi Hendrix, bloccandomi perplesso quando serviva un accordo minore. A quel punto capii che l’istinto non bastava e che dovevo studiare. L’anno dopo formai una band di ragazzini all’oratorio salesiano: ci concedevano una sala prove attrezzata la domenica mattina, ma solo se durante la messa “facevamo i bravi ragazzi”: quando ciò non accadeva era uno strazio, per suonare assieme dovevamo attendere un’altra settimana. Cominciammo a esibirci nei primi concerti in provincia: Beatles, Hendrix, ma anche i brani scritti da Lucio Battisti per Dik Dik, Equipe 84 e Formula 3.

D Come nasce il suo amore per il rock e, più in generale, per la popular music? E, da “ragazzo della generazione del rock”, come è arrivato al jazz?

R Quello che mi cambiò la vita, nel 1969, fu l’arrivo in Italia dei Vanilla Fudge alla “Mostra Internazionale di Musica Leggera” (sic) di Venezia. La psichedelia promuoveva, attraverso la musica, sia la ricerca interiore che l’utopia di una società diversa, assieme a suggestioni d’Oriente. Il mio futuro nacque così, tra i dodici e i tredici anni. Ho studiato chitarra classica con un maestro privato, trombone al liceo musicale, pianoforte, vibrafono e flauto traverso da autodidatta. Mi interessava capire la produzione del suono, le diteggiature, le inflessioni, il rapporto fisico con lo strumento, la psicologia dell’improvvisazione: tutto ciò mi è poi servito per costruirmi una prospettiva nella musicologia delle tradizioni orali e delle prassi improvvisative. Inevitabilmente il jazz mi ha folgorato, con la sua estetica dell’estemporaneità, della simbiosi con lo strumento musicale, e naturalmente anche per la transculturalità fra tradizioni europee e africane. In seguito, ho trovato analoghe illuminazioni studiando l’oud con un maestro siriano. Ma quando ero un ragazzo, per il rock e il jazz, non c’erano scuole né maestri. A diciassette anni accettavo qualsiasi lavoro (commesso, venditore di enciclopedie porta a porta, assicuratore) e appena mettevo assieme un gruzzolo partivo da Caserta per Milano per procurarmi materiale da studiare. Due notti insonni in treni che negli anni Settanta erano poco più di carri bestiame, per una giornata intera alla Ricordi e altrove ad acquistare dischi e libri in inglese sulla storia, il linguaggio e l’estetica del jazz. Come musicologo, appartengo a una generazione di autodidatti.

D Quali sono i motivi che l’hanno spinta a occuparsi di critica musicale?

R Forse sarebbe più realistico chiedere: come si faceva a sopravvivere occupandosi di critica musicale? E come si imparava a farlo? Grazie alla musica crescevo velocemente. Non mi ha mai sfiorato il dubbio che avrei intrapreso un mestiere diverso, e nelle scienze umane (non nel jazz o nel rock) ho avuto la fortuna di studiare con grandi maestri. All’università sono stato allievo, per l’Estetica, di Mario Perniola; per la Storia dell’Arte, di Enrico Crispolti e Achille Bonito Oliva; per la Storia del Cinema, di Edoardo Bruno (direttore di “Filmcritica”); per la Storia del Teatro, di Achille Mango (studioso di tradizioni “villanesche” meridionali) e di Giuseppe Bartolucci (teorico della Postavanguardia); per Antropologia Culturale, di Annabella Rossi, già assistente di Ernesto de Martino. Per Storia della Musica (classica) avevamo Gioacchino Lanza Tomasi, allora direttore del Teatro dell’Opera di Roma, che mi ha introdotto al ruolo della musica nelle avanguardie storiche e mi ha indotto a scrivere i miei primi saggi, assieme a Perniola e a Francesco Lazzari, con cui ho studiato Filosofia delle Religioni, laureandomi con una tesi in semiotica della musica afroamericana. Lui mi ha indirizzato a combinare la semiotica con l’antropologia. Ma tutti loro hanno lasciato traccia in tutto ciò di cui poi mi sono occupato sia come artista che come accademico. A vent’anni, nel 1977, sono andato a Londra, dormendo dagli squatters, a studiare “dal vivo” due generi musicali nuovi, il punk e la cosiddetta “musica creativa europea” (una sorta di post-jazz che attingeva anche alle esperienze “colte” contemporanee), come inviato di “Nuovo Sound”, la rivista rivale di “Ciao 2001”. Contemporaneamente scrivevo articoli per “Ombre Rosse”, diretta da Goffredo Fofi, un tempio della critica marxista delle arti, e per “Re Nudo”, la bibbia dell’underground e delle culture alternative: due opposti, per me complementari. Ma si faceva la fame. Per fortuna all’epoca entrò nella mia vita anche il teatro della Postavanguardia (ero ancora a Caserta, crescevo con Toni Servillo, pochi anni dopo mi sarebbero stati affidati gli Avion Travel). Così sopravvissi grazie alla prosa, come regista e sceneggiatore per la Rai; e anche grazie ai festival che ideavo e dirigevo per il comune di Napoli, sulla scia delle innovazioni introdotte da Renato Nicolini a Roma.

Gianfranco Salvatore giovane intervista Tania Maria a Nizza

D In quali vesti si trova meglio: critico, docente, musicologo, musicista o altro?

R Generalmente in vestaglia, dato che – a parte i cicli di lezioni universitarie – passo la maggior parte del mio tempo a casa, a fare ricerche e a scrivere saggi e libri.

D È tra i primi in Italia ad avere fatto della storia del jazz e della popular music una professione accademica. Com’è avvenuto? Che difficoltà ha incontrato?

R Avevo pubblicato il mio primo libro, con altri autori, a ventidue anni, sulle radici religiose della cultura sincretistica afroamericana e l’ambivalenza culturale del linguaggio jazzistico; poco dopo pubblicai la mia seconda monografia negli atti di un convegno in cui studiavo gli stati modificati di coscienza nei processi improvvisativi. Da lì mi chiesero di scrivere un intero libro sulle musiche del Mediterraneo, in chiave antropologica e storico-religiosa: lo intitolai Isole sonanti. Un lungo capitolo era dedicato al rituale musicale e coreutico del tarantismo salentino, in una chiave post-demartiniana. Perciò mi cercarono dall’Università di Lecce (oggi Università del Salento) per una supplenza di Antropologia Culturale. Ma il docente titolare rinunciò all’anno sabatico e il posto non era più disponibile; altri docenti, che casualmente conoscevano il mio lavoro musicologico, mi chiesero di istituire a Lecce una cattedra di Civiltà Musicale Afroamericana: la seconda in Italia, dopo quella creata al DAMS di Bologna venticinque anni prima, che non aveva avuto alcun seguito altrove (la disciplina, nell’accademia italiana, non interessava a nessuno). L’anno dopo uscì il mio libro sulla semiosi tra melodia e verso cantato nel repertorio di Mogol-Battisti (che avevo scritto come fondatore e direttore dell’Accademia della Critica di Roma, per gli allievi di quella scuola di alta formazione), e si crearono le condizioni per istituire a Lecce anche una cattedra di Storia della Popular Music, la prima in Italia come insegnamento “strutturato”, cioè stabile e non seminariale.

D È stato il primo, nella sua tesi di laurea, ad applicare la semiotica musicale al campo delle musiche improvvisate. In che modo un approccio semiotico, anche unito a un approccio antropologico, può arricchire il punto di vista di due discipline come la musicologia e la critica musicale?

R Combinando la dimensione normativa e quella pragmatica. Assieme a una certa introspezione: la consapevolezza di essere, la consapevolezza di pensare, la consapevolezza di esprimere e significare. Cercando di elevare queste consapevolezze dal piano esistenziale a quello culturale ed estetico. E, naturalmente, sviluppando l’attitudine all’ascolto, non solo empatico ma analitico (che si può studiare e insegnare, ma nessuno lo fa).

D Di recente è stato ripubblicato per i tipi di Mimesis il libro che prima citava, “Mogol-Battisti. L’alchimia del verso cantato: arte e linguaggio nella canzone moderna”, che può essere considerato una sorta di densissimo vademecum metodologico, non solo per musicologi che si vogliono occupare con approccio analitico e interdisciplinare della canzone moderna ma anche, forse, per musicisti che si vogliono cimentare nella sua composizione. Ci parlerebbe di questo volume (e del suo titolo)?

R Lo scrissi per i miei allievi dell’Accademia della Critica. Alla base c’è il concetto semiotico di “amalgama” tra due linguaggi: nella fattispecie, il linguaggio verbale dei testi delle canzoni e il linguaggio delle melodie. Anche le melodie, in sé e per sé, sono infatti dotate di un senso simbolico, spesso di natura vettoriale (consistente nella “direzione” e nei “disegni” che una sequenza melodica esprime in base alle altezze delle note da cui è composta). Il verso cantato, come unione di poesia e di musica, di parole e melodia, può essere analizzato e valutato in base al congiungimento dei significati dei due linguaggi che “collaborano” alla produzione e all’espressione del senso di una canzone. Questo processo è in buona parte analizzabile: sottolineo “in parte”, perché per il resto è affidato a una sorta di insondabile alchimia, che costituisce la sua “magia” (a cui collaborano anche altri fattori e variabili: la “grana della voce” dell’interprete, la sonorità strumentale, la maggiore o minore efficacia degli arrangiamenti, le scelte ritmiche, etc.). Ora, lo scopo del libro è rendere semplice l’individuazione e la decodificazione di questo processo così complesso. La questione soggiacente, dunque, è squisitamente metodologica. Il processo va reso “leggibile” anche a chi non ha profonde competenze musicali (e semiotiche). L’ho fatto ideando una tecnica di “visualizzazione” dei processi lirici e musicali che si esprimono nella forma-canzone: una tecnica basata sulla rappresentazione grafica delle forme strofiche, una griglia di immediata comprensione e facile lettura, senza ricorrere al pentagramma, che di per sé, tra l’altro, ha poco da dire sul processo in questione. La cosa, a quanto pare, ha funzionato bene sul piano pedagogico, perché il libro viene ancora ristampato dopo quasi trent’anni dalla prima edizione. Ma attenzione: non si tratta di una “semplificazione”, bensì di una diversa educazione alla complessità, perseguita con mezzi alla portata di tutti.

D Come vede oggi la situazione della musicologia e della critica, jazz e popular, in Italia? E perché la critica non è più quella militante o combattiva di una volta e non esistono più le ‘solenni stroncature’?

R In questi settori la critica musicale è morta perché, da quando esiste Internet, non è più una professione retribuita. Viene svolta a livello amatoriale, senza alcuna preparazione specifica.

D Per lei ha ancora un senso oggi la parola ‘jazz’? E ha ancora senso parlare oggi di rock o di folk?

Sono termini storicamente fondati. Ma lei chiede: “oggi”… Dove vada oggi la musica non lo sa nessuno, nemmeno io.

D Si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste per lei qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’ o ‘jazz europeo’?

Esiste, è esistito, non so se sussisterà. Ma i musicisti esisteranno sempre. Ha ascoltato l’ultimo album dei Pink Floyd prodotto dall’IA?

D Cosa distingue l’approccio al jazz e al rock di americani e afroamericani da quello di noi europei?

La questione è storicizzabile, e con essa le distinzioni storiche, che riguardano il passato. Oggi vige l’entropia.

D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata e/o sperimentale… ma esiste ancora la politica e/o l’avanguardia, nel jazz e nel rock statunitensi ed europei?

R Tutto è nelle mani dei musicisti. Decidano loro.

D La musica deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

R Non deve ma può.

D Come vive lei la musica oggi in Italia, anche in rapporto alle sue esperienze sul territorio?

Spiacente, ascolto solo musica per liuto…

D Cosa pensa lei dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui la musica ovviamente fa parte?

R I fiori nascono anche dalla melma.

Gianfranco Salvatore

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