L’ascolto come arte e il lavoro culturale come lavoro politico. Intervista ad Alessandro Portelli

Alessandro Portelli
// di Valentina Voto //
Alessandro Portelli è stato professore di Letteratura Americana all’Università “La Sapienza” di Roma ed è tra i fondatori della storia orale, disciplina basata sulla centralità delle fonti orali nel lavoro storiografico e sulla loro natura di costrutti relazionali. È presidente del Circolo Gianni Bosio e si è occupato di cultura e musica popolare nordamericana e italiana: ha scritto testi su Woody Guthrie, Pete Seeger, Bob Dylan, Bruce Springsteen e ha collaborato, tra i tanti, con Giovanna Marini, il Canzoniere del Lazio e il Nuovo Canzoniere Italiano.
D In tre parole chi è Alessandro Portelli?
R Un pensionato, ex-professore di Letteratura Americana, ricercatore di culture popolari e, in vari modi, attivista politico.
D Quali sono i suoi primi ricordi della musica da bambino?
R A casa mia c’è sempre stata musica. I primi ricordi riguardano le canzoni francesi – stiamo parlando di fine anni Quaranta/inizio anni Cinquanta -, ma la musica allora non era una cosa che riguardava noi piccoli e quindi mi trovavo a intrasentire quello che ascoltavano gli adulti… mia madre insegnava inglese e in casa c’erano un po’ di dischi americani: “Caravan” di Ellington per esempio, ma anche “Harlem Notturno” di Natalino Otto; poi sentivo in giro, alla radio, Tonina Torrielli, Claudio Villa e cantanti di questo genere.
D Come nasce il suo interesse per la folk music nordamericana e per le musiche e le culture popolari?
R Mia madre portava a casa i dischi che i suoi studenti le davano perché ne trascrivesse le parole (io l’inglese l’ho imparato grazie a lei proprio sui dischi americani) e il mio interesse nacque in primo luogo per l’arrivo di quello che chiamavamo rock ’n’ roll, che per noi era la musica americana in generale (anche Perry Como, per es.). Una svolta per me è stato il brano “Diana” di Paul Anka, che è certo una forma di pop giovanile, ma per noi faceva parte di quel gran calderone… la cosa importante era che Paul Anka aveva la mia età, sedici anni, e così ho scoperto che i miei consumi culturali non dovevano essere necessariamente gli stessi dei miei genitori (anche se mia madre ascoltava i miei stessi dischi), ma che esisteva una cultura giovanile, una musica con una precisa connotazione generazionale – che, ripeto, per me era tutta la musica Americana che riusciva ad arrivare in Italia. Il primo disco che ho comprato, però, è stato “Don’t Be Cruel” di Elvis Presley.
D Ma come si verificò la sua scoperta dell’autentica musica popolare americana?
R Avvenne invece con “Tom Dooley” dei Kingston Trio, grazie al fatto che negli Stati Uniti quella separatezza che c’è sempre stata in Italia tra musica popolare e popular music è sempre stata meno marcata: figure come gli Everly Brothers erano figli di una star della musica country degli anni Trenta e brani come “Blue Moon of Kentucky” restavano comunque molto vicini alla musica di tradizione orale. E lo stesso possiamo dire, per esempio, del blues.
D Si potrebbe dire che la sua attività professionale si sia declinata all’insegna di due direttrici principali, la ricerca e l’ascolto. Come la descriverebbe più nel dettaglio?
R Devo iniziare dicendo che il mio orecchio musicale non è dei più raffinati, non ho una capacità di analisi critica del linguaggio musicale in sé e quindi ho sempre avuto il buon gusto di non fingermi musicologo e di parlare soprattutto dell’universo sociale e storico che sta attorno alla musica. L’ascolto però per me è sempre stato fondamentale, non solo per la musica: la storia orale, di cui mi sono occupato, non è altro infatti che “arte dell’ascolto”, dal momento che consiste fondamentalmente nello stare a sentire la gente. Quanto alla ricerca, questa si è coniugata in tanti modi, però per me, in particolare dalla fine degli anni Sessanta in poi, ha voluto dire ricerca sul campo, cioè mettermi il registratore in spalla e andare in cerca della musica, o meglio, delle persone protagoniste della musica.
D In quale veste si è trovato maggiormente a suo agio: docente, ricercatore, saggista, critico, organizzatore, attivista politico o altro?
R Non ne ho mai portata una sola, non mi sono mai trovato ad essere solo una cosa. Anche l’insegnamento lo pensavo come un’attività politica (non nel senso che facevo propaganda – gli studenti se ne accorgono se cerchi di indottrinarli – ma era comunque un veicolo di crescita di coscienza sociale e culturale). La cosa divertente è che di etichette addosso ne ho parecchie, ma nessuna è veramente corretta. Il musicologo Portelli fa ridere, così come l’antropologo Portelli (mio figlio è un antropologo vero). Ho sempre usato una cassetta con attrezzi di tante discipline diverse e, quindi, mi sono sempre trovato nelle condizioni di apprendista, perché mi occupo di storia ma gli storici veri ne sanno più di me, mi occupo di antropologia ma gli antropologi veri ne sanno più di me, e così via… il mio contributo è sempre stato quello di muovermi sui margini delle discipline, sulle cuciture, dove invece quelli che ne sanno di più di ciascuna disciplina non si avventurano.
D Spesso è scomodo porsi all’incrocio di diverse discipline e “stare sulle cuciture”: cosa ha voluto dire questo per lei in ambito accademico?
R È proprio in ambito accademico che si fanno i conti con questa scomodità. Mi è stato dato dell’“ottimo folklorista” persino quando mi è stata assegnata la cattedra di Letteratura Americana (la gente tende a dimenticarsi che l’ho insegnata per mezzo secolo). Ho insegnato Letteratura Americana proprio perché avrei voluto occuparmi di musica e cultura popolare americana e di movimento operaio negli Stati Uniti; nella nostra Accademia però questo non era pensabile e l’unica cosa che potevi fare di americano era la letteratura: mi sono laureato con una tesi su Woody Guthrie (era il 1972 e Guthrie non era ancora stato pubblicato in Italia, anche se tanti ragazzi volevano sapere chi fosse per averlo sentito nominare da Dylan) e ho lavorato sugli afroamericani. Poi un giorno Agostino Lombardo, il mio professore, mi disse che se avessi voluto fare seriamente questo lavoro nell’Università avrei dovuto prima o poi occuparmi di un classico, non soltanto di “negri e operai”, e allora ho scritto sugli autori canonici, Mark Twain, Hawthorne, Melville…
D Ma come è riuscito ad applicare il suo metodo alla fine?
R Ho dovuto sgomitare un po’, ma alla fine sono riuscito a muovermi sui margini e negli spazi di confine: lavorando sull’analisi narratologica delle interviste, ho tenuto dei seminari di storia orale come seminari di letteratura e in tutti i miei lavori sulla storia orale ho sempre utilizzato gli strumenti dell’analisi letteraria e linguistica. Il mio lavoro di storia orale si è sempre mosso infatti in parallelo rispetto al lavoro accademico di professore di Letteratura Americana e se, da una parte, ho utilizzato nel lavoro di ricerca letteraria quello che venivo apprendendo dal lavoro sul campo sulla narrazione orale (il mio libro più importante di letteratura americana si intitola infatti Il testo e la voce), dall’altra, gran parte del contributo che ho dato alla storia orale è stato quello di utilizzare per il lavoro sulle fonti orali una serie di strumenti di analisi narratologica che ho imparato formandomi come docente di letteratura.
D In cosa si distinguono “le voci e le musiche” italiane da quelle statunitensi, di entrambe le quali si è occupato? Quali sono le principali differenze tra la realtà musicale popolare italiana e quella angloamericana?
R Secondo me la differenza fondamentale – che è poi una delle grandi differenze tra la cultura italiana e quella nordamericana – è la sensazione che quelli che Alberto Cirese chiama i dislivelli culturali – folla e cultura di massa, cultura di élite – siano molto più separati in Italia che negli Stati Uniti. Per es., nella musica italiana di tradizione orale esistono straordinarie forme di discanto di cui poi nella musica cosiddetta leggera non c’è traccia. Negli Stati Uniti, invece, esiste una comunicazione continua per cui si può dire che un disco come The Seeger Sessions di Springsteen sia a suo modo filologicamente corretto o che non ci sia cesura tra un Robert Johnson e un qualunque gruppo Rock degli anni Sessanta (e questa idea di minore separatezza è tipica anche della letteratura americana e dei suoi protagonisti). In Italia, invece, c’è questo disprezzo nei confronti della cosiddetta cultura middlebrow, che però è il cardine che tiene in comunicazione tutto, quello spazio intermedio – dove negli Stati Uniti si collocano i vari Dylan, Springsteen o una Joan Baez che rifà con grande rispetto le canzoni di Almeda Riddle – che nell’industria italiana tendenzialmente manca. Un esempio di continuità in Italia è stata Giovanna Marini, che però questo spazio lo ha scavalcato.
D Certo, Giovanna Marini…
R Due cose mi vengono in mente su Giovanna che aiutano a spiegarmi meglio: la prima volta che venne a casa mia e le feci sentire le registrazioni che stavo facendo mi disse “Questa è la mia placenta” – e questo credo che valga anche per Dylan e, forse, per Springsteen. L’altra cosa è che lei, incontrando a Sternatia, un paesino del Salento, la grande cantatrice Mariuccia Chiriacò, riconobbe, da grande musicista colta classica che era, la diversità del linguaggio musicale di questa donna e scrisse a proposito queste parole: “Se ne potrebbe fare della straordinaria musica d’avanguardia” (faccio notare che nella musica colta quasi tutti gli usi della musica popolare sono stati usi di tipo descrittivo – penso per es. alle citazioni degli spirituals nella Sinfonia Dal nuovo mondo di Dvořák). Giovanna è stata l’unica che io conosca che ha capito che per cambiare i linguaggi musicali, per fare della straordinaria musica d’avanguardia, si doveva partire dagli svoli di Mariuccia Chiriacò.
D Qual è stato il suo rapporto con Giovanna Marini? E ci può parlare del Circolo Gianni Bosio e della sua collaborazione con il Canzoniere del Lazio?
R Il mio rapporto con Giovanna si può riassumere con uno dei miei versi preferiti di Emily Dickinson: “a nearness to tremendousness” – stare vicino a qualcosa di immenso. La considero la più grande musicista che il nostro paese abbia conosciuto nella seconda metà del ventesimo secolo. Con lei ho capito cos’è il genio, che va per strade che solo lui conosce… proprio a casa sua fondammo il Circolo Gianni Bosio, un calabrone che non potrebbe volare, ma che è da cinquant’anni che vola – nonostante una vita da sempre precaria, perché non si è mai dato una linea politica chiusa né è mai appartenuto a nessuno. È stato uno dei pochissimi ambienti negli anni Settanta in cui nessuno ti o si domandava di che gruppo politico fossi, dal momento che si è annidato sempre attorno a delle domande, invece che a delle risposte. Oggi abbiamo un importantissimo archivio sonoro, in cui le interviste, i suoni d’ambiente e la musica stanno insieme (il grosso problema nella catalogazione istituzionale è proprio che nelle istituzioni la musica sta da una parte e le altre cose dall’altra). Abbiamo, in particolare, un enorme archivio di musiche migranti, forse il più importante in Europa, con musica raccolta a Roma di 38 paesi. Al Circolo hanno debuttato in tanti, da Ascanio Celestini a Ambrogio Sparagna a Lucilla Galeazzi, ed è stato un luogo di passaggio per tanti. Però, ecco, ancora ci siamo e organizziamo molte cose di grande interesse, come il Festival delle Culture Popolari a Collelongo, in Abruzzo (qui, tra l’altro era attiva la Brigata Maiella della Resistenza, quella che probabilmente ha dato forma alla versione che tutti usiamo di “Bella Ciao”).
D E di Gianni Bosio in particolare cosa ricorda?
R Di Gianni Bosio non posso raccontare molto purtroppo – l’ho conosciuto nel 1969 ed è morto nel 1972 –, ma posso dire questo: l’unico insegnamento che ho ricevuto, da completo autodidatta quale sono, è stato proprio da parte sua, quando mi consegnò il mio primo registratore portatile e mi disse “Non lo spegnere mai”. Il suo insegnamento fu quindi questo: non interessarti alla persona solo se canta, e considera il suo canto, la sua musica, come oggetto e fatto sociale e non solo come oggetto artistico. Quanto al Canzoniere del Lazio, nacque dal mio incontro con due giovanissimi Carlo Siliotto e Francesco Giannattasio – il loro primo disco Quando nascesti tune contiene tutte mie registrazioni. Il limite di un’esperienza come questa era che non si potevano trattenere degli artisti dentro il mero ruolo di tramite, perché non potevano limitarsi, da artisti quali erano, a far conoscere con funzione didascalica il mondo popolare.
D Quale è o/e quale deve essere il rapporto tra musica e memoria?
R Non so quale debba essere il rapporto tra musica e memoria. Nella musica la memoria si deposita implicitamente e inintenzionalmente (e questo Giovanna lo aveva capito benissimo). C’è moltissima musica che parla di memoria – o che riporta alla memoria: per es. Paul Anka rievoca i miei sedici anni – , però non parlo tanto di ricordare un momento. Mi spiego meglio: ho scritto un libro su “A Hard Rain’s A-Gonna Fall” di Bob Dylan partendo dal fatto che questo brano è una riscrittura pre-apocalittica della popular ballad “Lord Randal”. “Lord Randal” è attestata per la prima volta nel 1629 a Verona – anche se è una delle canzoni di tradizione orale più amate e diffuse nel mondo anglofono, soprattutto in Scozia (infatti secondo gli scozzesi sarebbe nata lì nel XIII secolo) – e io l’ho registrata alla Borgata Casalotti, proprio qui a Roma, cantata da una signora calabrese. Questa ballad ha come tema fondamentale proprio il rapporto con la storia, il rapporto cioè tra il familiare e un nuovo sentito come minaccioso e pericoloso; nei suoi tanti anni di storia, in Calabria come in Louisiana, è rimasta sempre la stessa – anche se da un paese all’altro è comunque diversa – ma in ogni versione c’è, ormai consolidata, quest’idea straordinaria che, anche se l’eroe muore, noi non moriremo, il mondo continua – diversamente da ciò che dice Dylan nella sua riscrittura –.
D E tra musica e politica?
R Rispetto al rapporto con la politica, mi viene da accennare a cosa è stata la musica per il movimento dei diritti civili, cioè a come la musica abbia aiutato non solo a mobilitare ma anche a riconoscere il rapporto con la propria storia. Quando Guy Carawan – chi ci ha insegnato “We Shall Overcome” – durante i suoi laboratori cercava di insegnare le versioni degli spirituals ai militanti per i diritti civili, questi, giovanissimi, dicevano “Ma questa è roba dei nonni, della schiavitù!” e ci è voluto del tempo perché capissero che anche loro stavano dentro a quella storia. La musica è stato un aiuto importante per percepirsi: avrai anche vent’anni, ma sei dentro a quella storia, la tua storia, che di anni ne ha duecento. La musica è però anche il modo in cui le classi popolari affermano la proprio presenza alternativa nella storia (la frase è di Gianni Bosio) ed è il modo che hanno di esprimersi in una cultura che non separa il canto dal parlato. Penso a certe grandi figure della musica popolare degli Appalachi, come Sarah Ogan Gunning – che cantava seduta sulla sedia a dondolo, come se parlasse – o a Florence Reece, che, dopo la fuga del marito Sam, quando gli sgherri dello sceriffo irruppero in casa sua e la misero a soqquadro, prese l’unico pezzo di carta che aveva in casa e con la matita della figlia scrisse “Which side are you on?”, che diverrà la canzone ufficiale del movimento sindacale.
D È da qui che inizia il folk revival italiano?
R Sì, parte con Gianni Bosio e il Nuovo Canzoniere Italiano. L’interesse di Bosio nei confronti della musica popolare, infatti, era storico, non etnomusicologico: lui era dell’idea che se si vuole ricostruire la storia delle classi non egemoni bisogna utilizzare le fonti che esse stesse producono e quindi le fonti orali, la musica su tutte. Il Bella Ciao di Spoleto 1964 e tutto il resto è partito da qui, dal riconoscere nella musica uno dei modi in cui le culture dell’oralità si dichiarano presenti nella storia. Ho fatto trent’anni di ricerca sul campo in Appalachia e ho incontrato un sacco di analfabeti, ma non sono mai entrato in una casa (tanto meno in una chiesa) che non avesse al suo interno almeno uno strumento musicale.
D Prima citava “Caravan”, quindi non posso non chiederle: che rapporto ha con il jazz? Le capita di ascoltarlo, le interessa?
R Il jazz è una delle mie grandi frustrazioni. Io sono rimasto a Louis Armstrong, o forse, meglio, sono rimasto al blues. Il resto non lo capisco, e la mia è proprio ignoranza (l’ignoranza è il limite dell’ascolto). Dico che se non sai chi è Coltrane non puoi dirti una persona istruita, però non riesco a trarre dalla sua musica tutta la ricchezza che serba. Tuttavia, sono fan di Nina Simone, e ascolto molto Bessie Smith e Billy Holiday: ho un orientamento fortemente verbale, e quindi è raro che ascolti musica strumentale (disse avendo appena finito di ascoltare i quartetti di Haydn – ma questo è un altro mondo ancora). Se devo pensare alla musica, penso al canto. Eppure, quanto al jazz, penso che anche questo genere musicale sia stato il modo in cui hanno affermato la propria presenza nella storia uomini e donne che, per l’establishment dominante, non avrebbero avuto il diritto di starci.
D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata… ma esiste ancora l’impegno, anche politico, nella musica di cui si occupa e più in generale nella musica odierna?
R Ti risponderei con questo aneddoto. L’anno scorso mi è stato inaspettatamente assegnato un riconoscimento in nome di Claudio Pavone, il nostro maggiore storico della Resistenza, e in quell’occasione gli studenti presenti hanno cantato una delle canzoni che avevo proposto io, poi “Bella Ciao” e, infine, una canzone di Ghali, che per loro era una canzone di resistenza. A me non sarebbe venuto in mente, ma qui sono io che evidentemente non ascolto bene. Quindi secondo me l’impegno c’è. Si tratta di sturarsi le orecchie e di capire anche che, forse, passa per altre strade.
D Per lei ha ancora un senso oggi parlare di “musica popolare”? C’è ancora futuro per tali tradizioni musicali?
R Le culture orali di cui è espressione la musica popolare si sono alimentate di un grado di separatezza che era anche autonomia; per dirla con Bosio, le isole di ignoranza sono anche isole di resistenza, in cui ci si costruisce i propri strumenti di espressione, che sono diversi da quelli del mondo al di fuori… poi però queste “isole” hanno potuto accedere alla scrittura e ora ai social, attraverso i quali c’è l’idea di poter avere accesso alla sfera pubblica… una fluidificazione così rapida fa sì che quell’elemento di esclusione, di protezione, di differenza – che era anche emarginazione, violenza – sia ora molto meno chiaro, così come le identità… queste però si ricreano. Non a caso abbiamo questo archivio di musiche migranti: se per musica popolare intendiamo la musica degli esclusi, degli emarginati e degli sfruttati, Roma ne è piena, c’è tantissima musica popolare, ma bisogna andare a cercarla. Nel 1792, o giù di lì, un erudito scozzese scrisse un testo dal titolo “Gli ultimi resti della canzone popolare”… gli ultimi resti! Questa morte è sempre annunciata, sempre più vicina, ma finora è sempre rinviata.
D Cosa pensa lei dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui le pratiche e culture musicali di cui si occupa fanno parte?
R A me sembra che ci sia un attacco generalizzato alla cultura: dall’attacco alla scuola pubblica – con la convinzione terribile e ormai dilagante che la scuola debba soltanto preparare per il mondo del lavoro o il porre ai vertici ad occuparsene figure a dir poco incompetenti e inquietanti – all’idea di una politica intesa esclusivamente come pubbliche relazioni. Penso al Circolo Gianni Bosio, uno dei problemi del quale è sempre stato quello di doversi inventare degli eventi per poter accedere alle risorse, perché nessuno ti dà due lire “solo” per gestire un archivio…Dopo di che – mi viene in mente Donatella Di Pietrantonio, ma solo perché è l’ultima che ho letto – c’è gente che sa scrivere e che scrive cose belle e difficili, però non c’è davvero nessun interesse… Sempre per citare e parafrasare Bosio, il lavoro culturale per potersi svolgere ha bisogno di essere libero, di creare le condizioni per la propria libertà, quindi non può non farsi lavoro politico, e il lavoro politico è la forma più alta di lavoro culturale. Aveva ragione.
